Tuli tuli tulipan

30 Aprile 2023

Odi i fior parlar tra lor
Parlano tra loro i tuli
Tuli, tuli, tulipan
Mormoran in coro, i tuli
Tuli, tuli, tulipan

Odi il canto delizioso
Nell'incanto sospiroso

Parlano d'amore i tuli
Tuli, tuli, tulipan

Deliziosi, al cuore
Tutti i sogni miei ti giungeran
E di me ti parleranno
I meravigliosi tuli, tuli, tuli
Tuli, tuli, tulipan

Tra loro, parlavano d’amore i tulipani della canzonetta del Trio Lescano (Tulipan 1937). Benché non si sappia in che siano consistiti tali discorsi amorosi, questi tulipani ci paiono meno antipatici dei fiori parlanti del giardino di Attraverso lo specchio di Lewis Carroll (1871), e manco inclini a spettegolare sui costumi erotici delle corolle vicine come avviene nella poesia I fiori di Palazzeschi (1913). D’altronde non possono che parlar d’amore i tulipani, vista la millenaria tradizione persiana di offrirli come messaggio o pegno d’amore, registrata anche dai racconti delle Mille e una notte.

n

Il brano musicale, facile all’orecchio, ebbe tale successo da imprimere nella memoria popolare – chi non lo ha sentito cantare da nonne e mamme? –  il refrain franto e balbuziente delle tre soavi sorelle canterine, nate all’Aja, e interessate a reclamizzare un’immagine dell’Olanda da cartolina, con tanto di luna formaggiosa («Tonda, nel ciel di maggio / come un formaggio d’Olanda / sorge la luna in viaggio») e immancabili mulini a vento.

Ma, appunto, il tulipano ci giunge in vero dall’Asia centrale dov’è fiore spontaneo. Arrivato dalla Persia in Turchia, ebbe il favore di Solimano il Magnifico che lo diffuse nei propri giardini e, nella varietà con tepali lunghi e appuntiti, divenne icona nazionale, ritratto in dipinti, maioliche e fregi ornamentali. Ad aprile, il Festival internazionale dei tulipani di Istanbul è ancor oggi una ricorrenza da non perdere.

Il nome è una corruzione del termine turco per turbante (tülbent), data la forma della corolla simile al copricapo orientale. Nel 1554, Ogier Ghislain de Busbecq, ambasciatore degli Asburgo alla corte di Costantinopoli, spedisce a Vienna i primi esemplari, e inizia la fortuna europea del fiore. Il botanico Carolus Clusius (Charles de Lecluse), esperto di bulbi e direttore dei giardini imperiali austriaci, ne portò con sé alcuni quando, approdato a Leida nel 1593, vi fondò l’orto botanico: qui il tulipano trovò il terreno migliore per la coltivazione, si diffuse in tutte le province e, ibridandosi con estrema disinvoltura, se ne ottennero molte varietà di fogge e colori diversi. L’Olanda divenne così il paese dei tulipani, spodestando nell’immaginario collettivo i paesi d’origine. 

n

Fece storia la bolla finanziaria che in pochi anni, tra il 1634 e il 1637, portò al collasso economico molti mercanti e comuni cittadini. Divorati da una passione sfrenata, avevano investito sui bulbi più ricercati per le rare fogge dei fiori, come il mitico Semper Augustus dalla setosa livrea striata di rosso, ormai estinto, protagonista delle still-lifes di famosi pittori olandesi. Solo nell’Ottocento si capì che la causa di screziature, frange e spiumii dai prodigiosi effetti cromatici, si doveva a un virus benevolo nei confronti del bulbo. Mai una malattia originò bellezza così agognata.

La vicenda di questo fiore è degna delle molte monografie che l’hanno ripercorsa, e non è il caso qui di aggiungere altro. Se non che a seguito dell’introduzione della nuova essenza in Europa e delle mode che ne seguirono – non v’erano giardini, stoffe, arredi, ornamenti e dipinti che non li contemplassero – anche alcuni nostri autori li inclusero, e con tempestività, nei propri cataloghi letterari. Daniello Bartoli, virtuoso della parola, nella sua Della ricreazione del savio in discorso con la natura e con Dio del 1659 ce ne dà una notevole ecfrasi:

«Quel gambo liscio, erto, sottile. Le trafile nol tirerebbon più eguale, se non che nel salire assottiglia con garbo fin dove gli si annoda in capo il fiore, ritto, svelto, e come campato in aria, che gli dà un bellissimo comparire. Al piè poi un bel cesto di foglie, e alcuna su per lo stelo, che pur gli dà grazia e l’adorna. Io mi perdo e mi diletto nel cercar che fo il come di quelle invisibili giunture colà dove il fiore si commette col gambo e aggroppa le sue ordinariamente sei foglie, nategli in giro l’una da presso all’altra; né so come vi s’innestino, né so come da un verde sì vivo com’è quello del gambo, si passi immediatamente a un sì diverso altro colore delle foglie: ed è il medesimo del passar d’una in altra sì differente figura. [...] Ma proseguiamo a cercavi più dentro. Que’ nerbolini, quelle venette che tutto il corrono, altre al disteso, altre a traverso reticolate, e succiano l’umor dalla madre e ’l portano fino alla cima e la spartono per dirigersi e formarsene tutte le membra. Poi la tessitura delle foglie, d’un doppio drappo in molti variamente colorito e, tramezzo, un sottilissimo velo bianco che fra l’uno e l’altro (chi sa dirmi a che fare?) si stende. E come le misura che tutte riescono eguali? Come le sparte che tutte abbiano il conveniente lor luogo? Come dà loro quel torcimento di sì bel garbo e quell’andare in tutte simile e diverso? E quelle fila che dentro si lievano sù dal gruppo ove si ha a formare il seme, sottili, diritte, misurate alla medesima altezza, spartite a spazi uguali e tenenti in capo quel non so che lanugginoso che in certi altri fiori è spenzolato; ed è segreto della natura l’uso a che serve, e pur serve, ché nulla v’ha di soverchio.» 

E Giovan Battista Marino, aggiornatissimo nell’includere tra i suoi bouquets le novità floreali più esotiche come pure la passiflora, nell’ottava 134 del VI canto dell’Adone così lo mette in rima:

Havvi il vago Tulippo, in cui par voglia
quasi in gara con l’Arte entrar Natura.
Qual d’un bel riccio d’or tesse la foglia,
ch’ai broccati di Persia il pregio fura,
qual tinto d’una porpora germoglia
che degli ostri d’Arabia il vanto oscura.
Trapunto ad ago, o pur con spola intesto,
drappo non è, che si pareggi a questo.

Il tulipano non è tra i fiori miei prediletti, ma non mi sono sottratta al compito di piantarne qualcuno qui è là in giardino, lasciandolo inselvatichire e vagare come meglio crede, e sperando che ammorbidisca quel tanto di rigido che ha nel suo portamento: ne ho ritrovato un cespo tra gli iris germanica, ben lontano dal luogo del primo impianto, e non mi è dispiaciuto.

Si tende a ordinarli in file di colori misti o in gradazione, ma non mi pare il modo migliore per esaltarli, anche se la massa dà sempre nell’occhio. Se proprio si vuol puntare sulla quantità, meglio cercare di ricreare lo sboccio spontaneo del Tulipa clusiana, naturalizzato nelle nostre regioni centro-settentrionali, così chiamato in onore di quel Carolus Clusius che fu decisivo per il successo della specie. Lo spettacolo della fioritura di questo tulipano colpì anche Vita Sackville-West, che ne consiglia l’uso in giardino:

m

«Viene familiarmente chiamata Signora dei tulipani, ma in effetti ricorda più un reggimento di piccoli soldati in rosso e bianco. Quando cresce selvatica sui declivi del Mediterraneo o dell’Italia, la si può immaginare come un’armata lillipuziana che s’impegna nelle manovre primaverili. Credo che la presunta femminilità sia dovuta alla sua ordinata eleganza, con la camicetta bianca avvolta con semplicità nella giacca a righe, ma in effetti somiglia più a un ragazzo snello, un magro ufficialetto vestito con un’uniforme variopinta del Rinascimento».

È questa grazia esile, less more, che mi piace, con quell’alternanza di rosso e di bianco dei tre tepali esterni con i tre interni. In lui, nessun estremismo formale, nessuna imitazione pappagallesca (i tulipani pappagallo sono tra i più eccentrici ed eccessivi), ma una livrea discreta comunque d’effetto. Insomma, uno di quei tulipani che può disegnare anche un bambino, con colori che rientrano nella gamma dei suoi pastelli, una forma facile e bella che si delinea con un sol tratto di matita. La forma base del tulipano che ha ispirato anche Eero Saarinen per il tavolo Tulip (Knoll, 1957), uno degli elementi d’arredo che hanno segnato la storia del design contemporaneo.

Sono talmente note e diffuse queste bulbose perenni della famiglia delle Liliaceae che, dopo quella di Daniello Bartoli, è imprudente arrischiarsi in una descrizione botanica, a meno di voler annoiare annoverando il numero degli stami, il colore delle antere, lo stimma trifido, ecc. Meglio aggiungere che vi sono alcune rare e nobiliari (almeno nei nomi) varietà profumate, come il rosso Principe d’Austria, lo striato di giallo e di rosso Prince Carnival e il ramato Princess Irene.

E dopo tutte queste lodi al con-turbante fiore d’Olanda, bisogna pur cambiare di segno alla rassegna letteraria. Ecco, dunque, tulipani che non parlano d’amore ma inquietano, tolgono il respiro. Sono i Tulipani di Silvia Plath, tratti dalla raccolta Ariel, pubblicata postuma nel 1965 dal marito Ted Hughes, qui nella traduzione di Anna Ravano:

I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
Guarda com’è tutto bianco, quieto, coperto di neve.
Sto imparando la pace, distesa quietamente, sola,
come la luce posa su queste pareti bianche, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; non ho nulla a che fare con le esplosioni.
Ho consegnato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere,
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.

m

Mi hanno sistemato la testa fra il cuscino e il risvolto del lenzuolo
come un occhio fra due palpebre bianche che non vogliono chiudersi.
Stupida pupilla, deve assorbire tutto.
Le infermiere passano e ripassano, non danno disturbo,
passano come gabbiani diretti nell’interno, in cuffia bianca,
le mani affaccendate, ciascuna identica all’altra,
sicché è impossibile dire quante sono.

Il mio corpo è un ciottolo per loro, lo accudiscono come l’acqua
accudisce i ciottoli su cui deve scorrere, lisciandoli piano.
Mi portano il torpore nei loro aghi lucenti, mi portano il sonno.
Ora che ho perso me stessa, sono stanca di bagagli —
la mia ventiquattrore di vernice come un portapillole nero,
mio marito e mia figlia che sorridono dalla foto di famiglia;
i loro sorrisi mi si agganciano alla pelle, ami sorridenti.

Ho lasciato scivolar via le cose, cargo di trent’anni
ostinatamente attaccata al mio nome e al mio indirizzo.
Con l’ovatta mi hanno ripulito dei miei legami affettivi.
Impaurita e nuda sulla barella col cuscino di plastica verde
ho visto il mio servizio da tè, i cassettoni della biancheria, i miei libri
affondare e sparire, e l’acqua mi ha sommerso.
Sono una suora, adesso, non sono mai stata così pura.

Io non volevo fiori, volevo solamente
giacere con le palme arrovesciate ed essere vuota, vuota.
Come si è liberi, non ti immagini quanto—
È una pace così grande che ti stordisce,
e non chiede nulla, una targhetta col nome, poche cose.
È a questo che si accostano i morti alla fine; li immagino
chiudervi sopra la bocca come un’ostia della Comunione.

Sono troppo rossi anzitutto, questi tulipani, mi fanno male.
Li sentivo respirare già attraverso la carta, un respiro
sommesso, attraverso le fasce bianche, come un neonato spaventoso.
Il loro rosso parla alla mia ferita, vi corrisponde.
Sono subdoli: sembrano galleggiare, e invece sono un peso,
mi agitano con le loro lingue improvvise e il loro colore,
dodici rossi piombi intorno al collo.

Nessuno mi osservava prima, ora sono osservata.
I tulipani si volgono a me, e dietro a me alla finestra,
ove una volta al giorno la luce si allarga lenta e lenta si assottiglia,
e io mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra di carta ritagliata
tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
e non ho volto, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani mangiano il mio ossigeno.

Prima del loro arrivo l’aria era calma,
andava e veniva, un respiro dopo l’altro, senza dar fastidio.
Poi i tulipani l’hanno riempita come un frastuono.
Ora s’impiglia e vortica intorno a loro così come un fiume
s’impiglia e vortica intorno a un motore affondato rosso di ruggine.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
di vagare e riposare senza farsi coinvolgere.

Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero essere in gabbia come animali pericolosi,
si aprono come la bocca di un grande felino africano,
e io mi accorgo del mio cuore, che apre e chiude
la sua coppa di fiori rossi per l’amore che mi porta.
L’acqua che sento sulla lingua è calda e salata, come il mare,
e viene da un Paese lontano quanto la salute.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO