Quando disegno so chi sono

2 Maggio 2023

Fra le bambine protagoniste della letteratura illustrata per l’infanzia, Madeline è una delle più brillanti. Uscita dalla matita di Bemelmans, illustratore austriaco americano, diede il via a una serie di libri dal successo clamoroso, iniziato nel 1939 con un’avventura dal titolo omonimo pubblicata da Simon & Schuster. Non stupiscono né il successo né il rifiuto che Madeline incontrò, quest’ultimo dovuto al fatto che in effetti si tratta di un libro ancora oggi innovativo perché privo di quelle caratteristiche che si ritengono seducenti per un pubblico di piccoli, ovvero illustrazioni fedelmente descrittive e dai colori vivaci. Madeline, invece, è figlia di un segno nervoso, ironico, rapidissimo a cui perdersi in lungaggini non è congeniale, ricorre a colori acidi e opachi, non teme quelli cupi, e nemmeno doppie pagine a due soli colori. Le città che percorre Madeline sono caotiche e affollate, i personaggi che incontra eccentrici, gli animali bizzarri, tutto appare preso in un vortice di movimento: forse è questo che intendeva May Masse della Viking Press, quando bocciò il progetto, definendolo troppo sofisticato.

 

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Come tutto ciò che si distanzia da una rappresentazione oleografica dell’infanzia per offrire uno sguardo in grado di cogliere le stranezze di ciò che la circonda, Madeline non offre sponda agli stereotipi. Bemelmans racconta che Madeline “insisteva nel voler nascere”, e venne alla luce per una serie di coincidenze: i racconti della madre che aveva trascorso l’infanzia in un collegio di suore, di cui al figlio erano rimaste impresse le camerate con le file dei lettini; la permanenza dell’autore stesso in un collegio, di cui ricordava i giri in città in fila per due con suora al seguito; l’incontro con una bambina appena operata di appendicite, in un ospedale dove Bemelmans si trovava a causa di una caduta dalla bicicletta (investito dal furgoncino di un panettiere); i vagabondaggi turistici con la figlia piccola di cui osservava lo sguardo sulle cose.

Molto di ciò che appare in Madeline si trova profeticamente annunciato in un affresco realizzato da Bemelmans per un ristorante newyorkese, l’Hapsburg House, nel 1934, perché Bemelmans veniva da una facoltosa dinastia di albergatori (che poi incorse in grossi problemi) e nel corso delle sue esperienze giovanili cosmopolite fu a lungo a servizio nel settore, dove, fra l’altro, la sua carriera di artista prese avvio.

Tutto ciò, e molto altro, è raccontato nel bel volume Ludwig Bemelmans, scritto da Quentin Blake e Laurie Britton Newell per la collana The Illustrators, curata da Quentin Blake e Claudia Zeff, di cui i cinque volumi finora usciti sono stati pubblicati da LupoGuido e tradotti da Gabriella Tonoli (edizione originale Thames & Hudson).

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Bemelmans al cavalletto, 1958 circa © 2019 Estate of Ludwig Bemelmans

The Illustrators è una collana meritoria che approfondisce la vita e l’arte di grandi autori che hanno fatto la storia dell’illustrazione. In Italia, dove di quest’ultima manca una solida e diffusa conoscenza, anche perché, fino a non troppo tempo fa, considerata arte minore, credo che questi libri rendano un grande servizio, non solo in generale al pubblico dei lettori, a cui offrono la possibilità di avere uno sguardo più complesso su opere che sono autentici capolavori, ma soprattutto ai giovani che aspirano a entrare negli ambiti lavorativi che attengono all’illustrazione. 

Le vite degli artisti raccontate in queste monografie – finora, oltre a Bemelmans (pressoché sconosciuto da noi), Raymond Briggs, Miroslav Šašek, Judith Kerr, Tove Jansson – sono interessanti perché poco lineari, spesso ardue, piene di ostacoli e fatiche, ricche di eventi e di occasioni formative imprevedibili. Di fronte a giganti di questo calibro, l’idea corrente è che siano nati dotati di quel talento e quelle qualità che poi si finalizzano da sole, come per magia, in libri dal successo planetario, come Una tigre all’ora del tè di Judith Kerr, o The Snowman di Raymond Briggs, o la serie dei meravigliosi Mumin della Jansson, o i libri sulle città di Šašek. Scorrendo queste pagine si scopre, invece, che il talento è frutto di percorsi accidentati, non convenzionali, di rifiuti, abbandoni, incontri fortunati, scelte, ferrea disciplina, intuito, coraggio, e, come dimostra la nascita di Madeline, anche del caso. Insomma, la vita di chi avverte una vocazione e decide di seguirla, raramente è facile e, soprattutto agli inizi, economicamente soddisfacente.

 

 

Uno dei punti di forza di questi volumi è la ricchezza visiva che accompagna la narrazione biografica e che permette di seguire in profondità i percorsi artistici raccontati per la completezza degli apparati iconografici che, passo passo, illustrano anche aspetti meno conosciuti, ma decisivi per la conoscenza dell’opera degli autori. Non è scontato: non di rado, paradossalmente, escono saggi su illustratori e albi illustrati con apparati visivi modesti, del tutto insufficienti in studi dove la visione e la comprensione dell’immagine è centrale.

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Autoritratto dipinto a olio,1940, © Tove Jansson Estate.

Tove Jansson, figlia di artisti, padre scultore, madre grafica e illustratrice, dotata di un talento precocissimo e travolgente, ebbe per tutta la vita l’ambizione di diventare pittrice. Tale ambizione tuttavia, rimase sempre in secondo piano, rispetto all’attività di illustratrice, fumettista, autrice di vignette satiriche al vetriolo (Jansson per tutta la vita fu impegnata in cause politiche e sociali), dapprima per mantenersi agli studi e supportare economicamente la famiglia (e durante la guerra anche gli amici). In seguito la fortuna dei Mumin, dal successo immediato e planetario, richiese alla loro creatrice un lavoro indefesso, colossale e costante. Anche i Mumin come Madeline, nacquero (nel 1945 con il romanzo I piccoli troll e la grande inondazione) un po’ in sordina.

Il primo della stirpe prese forma in un graffito sul muro del bagno esterno di un cottage affittato dalla famiglia di Tove durante un’estate degli anni Trenta. Il nome Mumin si deve allo zio presso il quale Tove dimorava quando frequentava la scuola d’arte a Stoccolma, il quale sosteneva che sotto i fuochi della cucina abitassero i troll mumin che soffiavano sulla nuca ai consumatori di spuntini notturni. Jansson costruì l’epica di questi personaggi straordinari attraverso una produzione inesauribile e sempre di livello eccelso: fumetti, albi illustrati, migliaia di strisce per quotidiano (il londinese Evening News), romanzi, canzoni, un libretto e i costumi per un’opera, e persino la costruzione di quarantadue scene tratte dai suoi libri per l’unico museo del mondo a loro dedicato, a Tampere.

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Stupisce osservare la sicurezza con cui Jansson padroneggia scrittura e disegno. L’impressione è di avere di fronte un’artista dotata di una competenza tecnica eccezionale, ma soprattutto sorretta da un istinto infallibile in grado di orientare sempre verso scelte esatte a livello compositivo, cromatico, tecnico, immaginativo, di caratterizzazione dei personaggi: una sorta di ‘occhio” e ‘orecchio’ (per ciò che riguarda i testi) assoluti. Da ciò, osservando il suo lavoro, deriva una sensazione di grande naturalezza, come se le pagine si fossero generate ‘da sé’, senza alcuno sforzo, per implicite leggi biologiche. Forse questo ha a che fare con la selvatichezza di Jansson che avvertiva una straordinaria vicinanza con l’universo naturale che le fu sempre di grandissima ispirazione e conforto. Il volume della collana dedicato a Jansson è da poco uscito e si deve a Paul Gravett.

Nel volume dedicato a Raymond Briggs, Nicolette Jones più volte sottolinea come per tutta la vita il creatore di uno fra i successi più eclatanti della letteratura per ragazzi, The Snowman abbia convissuto con la sofferenza provocata dal gap generazionale fra sé e la propria famiglia e dalla distanza creata dalle sue scelte professionali con l’esistenza semplice e difficile dei propri genitori, ai quali è dedicato uno dei suoi libri più belli, Ethel & Ernest (1998; da noi pressoché sconosciuto, benché pubblicato da Rizzoli Lizard nel 2020). Da questa opposizione che per tutta la vita fu al centro della ricerca artistica dell’artista, impegnato a denunciare le ingiustizie sociali, gli aspetti più violenti della nostra società, dalle armi nucleari al consumismo sfrenato esaltato dal linguaggio pubblicitario, dalle difficoltà materiali ed esistenziali delle persone confinate ai margini della scala sociale alla frattura fra la loro ricca dimensione interiore e la routine ordinaria a cui sono condannati, si discosta la linea narrativa di quello che è l’asso pigliatutto nella carriera di Briggs.

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Raymond Briggs, 2011 © Jonathan Brady. 

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La sua creatura più fortunata nacque nel 1978: si tratta del più famoso pupazzo di neve della letteratura per ragazzi, compagno onirico e vagabondo di un bambino insonne, dal fascino irresistibile e capostipite di quella stirpe magica e inesauribile che sono gli uomini di neve. La realizzazione di questo wordless book di cui sono state vendute milioni di copie in tutto il mondo (8,5 al 2017), coincise per Briggs (che fin dagli inizi del suo percorso ha sempre lasciato intendere di aver poco talento, come nota Jones), con la necessità di uno stacco stilistico e narrativo dai suoi lavori precedenti, connotati da una vena icastica, polemica e barocca (Father Christmas, 1974; Fungus, the Bogeyman, 1977). Per questo Briggs optò per la leggerezza e la luminosità delle matite a cui si deve l’atmosfera delicata, tenera e ovattata che pervade la storia, e che si ritrova in un altro suo grande successo, The Bear (1994), che riprende il tema della vita immaginaria dei bambini.

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Martin Salisbury nel volume sull’illustratore praghese Miroslav Šašek, autore di una delle collane di albi illustrati non fiction di maggior successo, This is…, dedicata alle città e ai Paesi del mondo, fa notare che in tutti volumi, nel risguardo d’apertura, l’autore ritrae se stesso che entra nel libro con la sua cartelletta da disegno, per uscirne all’ultimo. In mezzo, il lettore ha modo di osservare strade, piazze, gente, mezzi di trasporto, architetture, monumenti, ristoranti, parchi, paesaggi, negozi, attraverso ciò che lo sguardo e la mano di Šašek hanno creato. Šašek, esule dal suo Paese dal 1951, fin da giovane ebbe una predilezione per i viaggi e un animo cosmopolita. Da questi e dal suo precocissimo amore per il disegno, attraverso varie vicissitudini ed esperienze lavorative, nacque il progetto di questa collana (all’inizio pensata come guida turistica per bambini) che, adocchiata da Jeffrey Simmons, un impiegato dotato di perspicacia dell’editore W. H. Allen, ebbe un immediato successo con i volumi This is Paris e This is London, a cui seguirono altre decine.

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Miroslav Šašek nel suo studio, 1961 © Miroslav Šašek Foundation (foto di Ondřej Přibyl) 

A tal punto il modo di guardare le cose di Šašek fu apprezzato, da determinare, nel tempo, l’interesse degli uffici turistici di mezzo mondo. Un suo libro sapeva raccontare lo spirito e il carattere dei luoghi meglio di qualunque spot pubblicitario. Per fare questi libri Šašek si documentava dapprima leggendo, ma il momento di vera ispirazione era il viaggio, durante il quale disegnava e fotografava indefessamente per raccogliere quanti più spunti possibili che rifiniva, poi, tornato a casa. La chiave del suo successo, oltre a una capacità di restituire sulla carta le sue impressioni con immediatezza, ironia e grande rispetto per ciò che vedeva, stava nella grande curiosità con cui osservava le cose, e nel perfezionismo con il quale la restituiva, disegnando tavole stupende, piene di dettagli. Salisbury nota che la vivacità delle informazioni visive che Šašek era in grado di offrire, andava incontro al piacere dei più piccoli nell’esaminare pagine piene di particolari: «Il fascino che Šašek nutriva per queste cose, rispecchiava quello dei bambini per i giocattoli, versioni in miniatura di oggetti quotidiani.»

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All’inizio del volume dedicato a Judith Kerr, scritto da Joanna Carey, il lettore trova a disposizione un corredo visivo del tutto straordinario. Si tratta di un gran numero di disegni e dipinti realizzati dall’autrice da bambina, la cui sopravvivenza si deve alla lungimiranza della madre che si rese conto subito dell’abilità della figlia nel disegnare. La cosa che colpisce è che la cifra stilistica di Kerr è già tutta lì: il modo di tracciare personaggi, volti, movimenti, di disegnare spazi, oggetti, situazioni. Certamente la padronanza tecnica è ancora acerba, e vi sono legnosità, difetti del tutto naturali in una mano infantile, ma in questa predisposizione risulta evidente una sorprendente chiarezza di intenti. Come se Kerr da bambina avesse una intimità tale con il proprio immaginario da avere come obiettivo il possesso degli strumenti adeguati a dargli forma e fosse già al lavoro per conseguirli. Judith nacque a Berlino nel 1923, da famiglia ebreo tedesca, padre letterato, madre compositrice, costretta alla fuga nel 1933. Dopo la Svizzera e la Francia, la famiglia Kerr approdò a Londra, dove si stabilì e trovò una certa sicurezza economica.

Durante queste vicissitudini, vissute dai figli della coppia con disposizione avventurosa, Kerr non smise mai di disegnare. I suoi disegni di quegli anni, continuano a raccontare il mondo dei bambini e dei loro giochi, suoi soggetti elettivi talmente poco distratti dalle condizioni terribili della quotidianità, da ignorare completamente la possibilità di ritrarla. Questo mi ha ricordato il progetto Sirkhane Darkroom, curato dal fotografo Serbest Salih, grazie al quale i bambini e gli adolescenti che vivono in Turchia al confine con la Siria possono fotografare ciò che li circonda.

Scrive Silvia Vecchini nell’articolo Il rovescio della guerra: «Da questo progetto è nato un libro di una bellezza commovente: I saw the air fly (2021) pubblicato da MACK. Alla fine del libro fotografico, Serbest Salih afferma: “Quando guardi queste fotografie raccolte insieme, vedi bambini che condividono momenti veri della loro vita: dentro le loro case, con i loro amici, con la famiglia. Non sono le fotografie che gli adulti si aspetterebbero di vedere da bambini cresciuti circondati da conflitti; non sono fotografie di traumi o tristezza. Sono una testimonianza della resilienza dell’immaginazione infantile, del potere curativo della fotografia e dell’incantevole prospettiva dell’infanzia”».

La svolta decisiva nella ricerca espressiva di Kerr avvenne negli anni Quaranta e fu l’incontro con il disegno dal vero a cui l’autrice si dedicò assiduamente, frequentando due scuole d’arte e che considerò sempre come la rigorosa disciplina che le consentì finalmente di comprendere, analizzare e conoscere la struttura delle cose. Il libro più celebre di Kerr, Una tigre all’ora del tè (The Tiger Who Came to Tea), del 1968, suo primo picture book, esordio dal successo folgorante, è una storia meravigliosa ispirata dal desiderio della figlia Tacy di assistere a eccezionali avvenimenti allo scoccare della più tradizionale e conservatrice ora britannica. Viene da pensare che Judith si stesse preparando a questo libro da tutta la vita, tali sono la padronanza e la maturità espressiva da veterana che dispiega nelle pagine, per esempio nell’equilibrio fra testo e immagine e nella capacità di restituire la qualità al tempo stesso limpida e sfuggente del pensiero infantile. 

“Quando disegno so chi sono” ha affermato, una volta, Kerr. Viene da pensare che la pratica che consente di conquistare un tale sapere sia alla base di tutte le storie che racconta la magnifica collana The Illustrators

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