Il paradosso del mito. Dracula in scena
Più dello stesso Dracula, colpisce la resistenza in vita del suo mito pop. Certo affonda in leggende nordiche, rilanciate nel XIX secolo dal successo di The vampire di John Polidori (assistente di Byron, scrisse la novella a Villa Diodati nel 1816, in quella stessa mitica notte in cui Mary Wollstonecraft Godwin creò Frankenstein) ma da quando Bram Stoker creò il suo Dracula, di fatto vampirizzando Polidori, nel 1897, il suo mito sopravvive nell’immaginario popolare, come storia di romanticismo e paura (è nelle sale, a un anno dal Nosferatu di R. Eggers, il Dracula di Luc Besson che – dice la maggior parte della critica – guarda al film di Francis Ford Coppola). Il successo di Stoker coincise con la modernità incipiente di tecnologia e scienze, nell’accelerazione di ricerca sull’invisibile. L’anno dell’uscita del romanzo furono scoperte le radiazioni, poi l’elettrone, e Freud fece la prima conferenza in cui parlò della psicanalisi. Inoltre, i Fratelli Lumière da poco avevano fatto la prima proiezione cinematografica. Se Dracula è monstrum (da monere, avvisare) egli annuncia la modernità, più che un ritorno del rimosso arcaico. Un futuro inquietante che all’epoca portò con sé altre indagini parallele sull’invisibile (grade diffusione dello spiritismo, come si vede ad esempio nella bella mostra “Fata Morgana” a Milano: ne ha scritto qui Elio Grazioli). Ma Stoker non è un neoromantico irrazionalista, è un abile impresario teatrale. Sa cosa desidera il pubblico e confeziona in laboratorio un archetipo che sa d’antico, duraturo fino ai giorni nostri, in cui il cinema – inteso soprattutto come sale – rischia di morire, a causa di mostruose potenze: quella economica delle piattaforme streaming, quella tecnologica dell’AI.

La lunga premessa serve a collocare la scelta azzeccata, tra intuizione e interpretazione dello spirito dei tempi, di Andrea De Rosa di intitolare la nuova stagione del Teatro Piemonte Europa ai “Mostri” e aprire come regista proprio con la rilettura del romanzo di Stoker, avvalendosi del testo di Fabrizio Sinisi che si concentra sul paradosso dell’immortalità. È il dono del Conte (succhiando il sangue rende immortali anche le vittime) che oggi torna come ambito desiderio di massa (della longevità, come suo preludio) e sognata anche dai dittatori come Putin, Xi e su cui investono miliardi i tecnocrati come Peter Thiel, Elon Musk e Sam Altman, capo di open AI). Scelta simbolica adatta al tempo di mutazione che viviamo, sviluppata da Sinisi che rende Dracula anima tragica, imprigionata nel tempo senza fine mai, senza viverlo. Di riflesso però questo lavoro ci dice che anche noi siamo intrappolati in una mitologia dell’immaginario. Sinisi stesso sparge tracce, soprattutto cinematografiche, perché è il cinema il regno di Dracula.
È quindi oltremodo simbolico che grande protagonista di questo sforzo produttivo del TPE – oltre ai cinque bravissimi attori – sia l’edificio del Teatro Astra, di raffinata bellezza Art Decò, sorto nel 1928, che fu a lungo un cinema. Il regista – insieme a Luca Giovagnoli – ha rivoluzionato la struttura, in senso kolossal: ribaltando la pianta delle sedute, togliendo tutto, anche il controsoffitto, dando risalto alle grandi finestre, e grazie al gioco di luci di Pasquale Mari, facendo vivere uno spazio di ombre neogotiche e di lividezza postatomica, un castello, ma anche cattedrale spettrale, e obitorio, oltre che monumento archeologico dell’industria dell’immaginario, quale esso è. Il disegno sonoro di G.U.P. Alcaro lo riempie di energia, vibrazioni, voci, urla, echi di grande effetto, colpi di passi sul soffitto, musiche e basse frequenze. Scelta imponente, che vivrà solo qui a Torino e non avrà altre repliche oltre quelle previste fino al 30 novembre. Un effetto speciale, il revenant Cinema Teatro Savoia che rivive con i suoi fantasmi di finzione (chissà se nel 1931 qui si proiettò il Dracula di Browning con Bela Lugosi). Sinisi scrive nelle note del programma che è con il cinema e il teatro che “la nostra vita si allunga nel buio” come in un sogno ad occhi bene aperti. Eyes wide shut. Dracula è in questo sogno di longevità fittizia.

Nella grande sala tre tavoli autoptici. Su uno giace una figura femminile, sopra un grande cuore di tubi sospeso, e nient’altro. Il testo si modella in gran parte sulla trama di Stoker, resa essenziale. Nel buio, ci guida dal corridoio, in questo castello in Transilvania, lo stesso Jonathan Harker (Michele Eburnea), agente immobiliare che deve regolare un acquisto di casa in Inghilterra fatto dal proprietario, il Conte Dracula, interpretato da Federica Rosellini, ancora una volta in una prova superlativa, sia di attrice che di performer. Dracula si presenta nei suoi molti volti, minaccioso, arrogante, malinconico, vive la tragedia del tempo: ha perso la donna che ama, ora esiste in eterno per ritrovarla, crede di riconoscerla nella foto di Mina, la moglie di Harker. L’agente immobiliare fugge, terrorizzato, torna a Londra dove lo seguirà anche Dracula. A fare da ponte narrativo, il personaggio di un invasato e delirante Reinfield (reso da una bella prova anche fisica di Marco Divsic che recita dal tetto, dalle balconate, dando voce alla prosa immaginifica di Sinisi che qui più si uniforma allo spirito dark) che annuncia l’arrivo del mostro. Sinisi ha condensato anche l’aspetto erotico presente in Stoker, concentrando su una lunga fase di seduzione tra Mina e Dracula che diventa un duetto attoriale che dominerà fino alla fine. Mina (l’ottima Chiara Ferrara) sdraiata sotto il cuore in cui affluisce il sangue (così esplicito nell’essere di un rosso da set) sogna e sente un richiamo dell’assoluto, un sogno d’amore (il “per sempre” delle favole romantiche, amore immortale): “Sei tu il mostro che ho sognato? Mi sembra di conoscerti da sempre” dice la giovane, con frase-cliché, e variante erotica da La bella e la bestia (“sei bestia metà toro e metà lupo col membro eretto”). Mina è il centro il centro del labirinto temporale per il Minotauro-Dracula, che inizia il suo assalto erotico e iper-romantico in una cavalcata di manque da deliro amoroso. Qui per un lungo tratto Sinisi libera la sua componente poetica, con picchi di lirismo e furia verbale, che ben cavalca ed esalta la prova di Rosellini, con grande trasporto, con mobilità acrobatica, su scale, cataste di poltrone, muri, dando vita a una creatura tragica e aliena, lacerata tra desiderio di vivere e potenza dell’immortalità. Sinisi fa perdere Dracula nella metropoli tra la folla moderna, come Baudelaire, buca i secoli, fino a un rave (“sento il battito industriale” dice Dracula) cuore pulsante della notte della modernità. Insegue il desiderio, che è anche tossicità dell’amore totalizzante: “Quello che prova il cacciatore per la sua preda: questo è l’amore” ruggisce il Conte (ma saggiamente e in ossequio ai nostri tempi, Sinisi lo rimette in equilibrio: “non posso fare niente se non me lo permetti”) posseduto da un flow verbale d’amore ipertrofico, metà poeta trobadorico, metà rockstar dark – tra Bauhaus e l’attuale Rosalia, con cui cattura l’anima di Mina.

Un vortice però interrotto, con un salto di scena (e taglio di trama radicale: Sinisi scommette sul fatto che la storia sia nota al pubblico e avvia una seconda parte di personale reinvenzione) con improvvise luci glaciali e quiete ospedaliera, dall’ingresso di uno scienziato, il dottor Hesling a cui Michelangelo Dalisi dà un efficace tocco di freddezza, ironia e cinismo. Il medico cura Mina che è malata d’amore, ma ha segni di violenza, racconta di un sogno, è contagiata (“Io non morirò mai. Io sono stata baciata”). Hesling, come un proto-Freud (o un dottor Bauer del caso di “Anna O”) oppone la ragione (e l’idea che “vivere per sempre è l’inferno”), spiegazioni scientifiche del vampirismo come psicosi, fissazione maniacale (ed entra nel nostro tempo di femminicidi: “Può diventare vampiro chi non accetta la fine di un amore”). Offre poi la soluzione: “un vampiro muore quando per amore si perde nel riflesso di uno specchio”. Se quella di Stoker è una storia d’amore sfruttata in ogni tempo, il suo sogno, il “per sempre”, diventa possessività, non possiamo oggi non leggerla così. Idea di amore che prolifica nel gioco di specchi che il cinema e le arti dell’immaginario moltiplicano (senza contare la comunicazione digitale) e lo tengono in vita artificialmente, anzi si rinnovano ogni stagione.

Non so se sia questa l’intenzione di Sinisi e De Rosa, ma Mina e Dracula, così riscritti, si avviano in un vortice di dissolvenza del mito. Prima esprimono (interpretano?) un crescendo tra monologhi e scambi, di netto sapore gotico-romantico, modellato sulla memoria di letteratura e cinema (la versione di Coppola, su tutti) poi lo svelano come artificio, con Dracula prigioniero come noi, come Mina, nel suo stesso mito da immaginario collettivo dell’amore ormai esausto come i film di cassetta che ce lo ripropongono. È ora che Dracula e il suo armamentario muoiano per sempre. Lo fanno duettando dolcemente a suon di battute, Dracula-Roy Batty (già evocato in tutti i reiterati “ho visto “dei suoi monologhi) in posa malinconica da replicante e battute scontate mentre sta per morire all’alba (“Tutti quei momenti andranno perduti ecc.”). In qualche modo nel labirinto di specchi postmoderno, il “ti amo, come direbbe Liala”, secondo la famosa postilla di Umberto Eco al Nome della Rosa.
Muore il personaggio, portando con sé i suoi replicanti romantici, e il sogno del persempre, anche se quei miti tutti noi li abbiamo vissuti “come veri” (come Dracula le albe) negli istanti che andranno perduti: quelle ore sospese a vedere un film, a guardare uno spettacolo a teatro, quest’ultimo ancor più evanescente, sebbene viva nei corpi degli attori. Ma questa impermanenza della replica, unica e insieme identica ad altre, è l’essenza stessa della vita vera oltre che del teatro che la finge.
Insomma, un Dracula che alla fine porta al paradosso di aver visto uno spettacolo molto bello, e che però avverte (monstra): sarebbe bene farla finita con la reiterazione del mito di Dracula (e mitologie connesse). Solo uno spettacolo irripetibile e unico poteva giocare con questo paradosso.
Fotografie di Andrea Macchia.