Venezia 80/2. Miti e specchi rotti dell’Europa 

7 Settembre 2023

Povere creature! (Poor Things), di Yorgos Lanthimos; Aku wa sonzaishinai (Evil Does Not Exist), di Ryūsuke Hamaguchi; Maestro, di Bradley Cooper; Zielona granica (The Green Border) di Agnieszka Holland; Io capitano, di Matteo Garrone. Tra questi cinque titoli potrebbero trovarsi i Leoni e le Coppe Volpi di Venezia 80. Mancano ancora due giorni al termine delle proiezioni e alla premiazione, ma sempre di più si ha l’impressione che Lanthimos, di cui si è già parlato nella prima rassegna, sia tra i favoriti. Da ieri anche Matteo Garrone sembra in lizza. Tra i lavori migliori, per ragioni diverse, ci sono il film della regista polacca; e Maestro, il film di Cooper dedicato a Leonard Bernstein. È molto apprezzabile, anche ripensandoci e confrontandolo a certe trame sconclusionate di altre opere in concorso, anche Bastarden, di Nikolaj Arcel, il film danese interpretato da Mads Mikkelsen, ambientato nella seconda metà del Settecento e di struttura classica ma rigorosa.

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Cominciando a ragionare sul paesaggio costruito dai ventitré film in concorso, due temi ritornano spesso, da un’opera all’altra, funzionando quasi come due metafore ossessive – l’arte mette continuamente in scena temi rimossi, ma che persistono e lavorano in profondità. Il primo motivo consiste nel racconto dell’Europa: svolto in modi anche molto differenti, ma a partire da una medesima domanda intorno a cosa sia stata e cosa sia l’Europa, la sua identità, la sua memoria, e cosa possiamo testimoniare e mostrare di essa, attraverso il cinema. Povere creature (Lanthimos), per esempio, trasformando il vecchio continente in uno scenario di cartapesta Belle époque, rimette in funzione il medesimo immaginario nostalgico e infranciosato a cui ritorna, tra gli altri, anche il film di Woody Allen. El Conde, di Larrain, è un film sgangheratissimo, ma ha una trovata geniale (che non sveleremo), che rappresenta una messa in discussione grottesca e paradossale di come l’Europa ha vampirizzato il resto del mondo e in particolare il Sudamerica. 

Ma i due film che rappresentano con più evidenza il continuo ritornare, nell’immaginario contemporaneo, della domanda su cosa sia l’Europa sono Io capitano di Garrone e Green Border di Holland. Per ambedue le opere l’Europa è lo spazio sognato e contemporaneamente negato, attraverso le storie di soggetti in fuga. Green Border racconta la storia di una famiglia siriana atterrata a Minsk, la capitale della Bielorussia, per spostarsi verso la Polonia e, una volta entrati nell’Unione Europea, raggiungere i parenti in Svezia. Il “confine verde” tra i due paesi, però, è il campo di conflitto e di carneficina dei rifugiati, sottoposti, tra i boschi, a una doppia pressione. Da una parte ci sono i soldati bielorussi – il presidente Lukashenko ha attirato sul confine migliaia di rifugiati per destabilizzare i governi occidentali; dall’altra parte la polizia di frontiera polacca che ricaccia indietro i rifugiati, usando metodi aggressivi e disumani. 

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Green Border, girato in bianco e nero, è un film che si serve, simultaneamente, sia delle tecniche del racconto documentario, sia delle risorse dell’invenzione, nel senso che la vicenda è riorganizzata, attraverso la sceneggiatura e il montaggio, seguendo alternativamente le storie di una particolare famiglia, di un’altra profuga afghana che il caso ha messo assieme a loro, di un soldato di frontiera e di una psicanalista. L’orrore che si sta consumando alla frontiera intreccia le loro vite, le fa incrociare e collidere, intanto che la regia sceglie di mostrare, di farci guardare proprio come lo spazio del cinema sa fare, quello che l’Europa non vuole vedere: che oltre le reti dei confini e le barriere dei respingimenti sono ricacciati e fatti morire esseri umani, bambini, nostre simili infragiliti dalla guerra, intanto che il senso comune circostante tace: per paura, per indifferenza, per razzismo. Oppure, all’opposto, c’è chi reagisce, perché Green Border ci fa guardare, senza pathos, anche le storie degli eroismi imperfetti e senza nome di chi, tra la popolazione locale, offre aiuto, cure mediche, assistenza legale. È un film che ci fa vivere la disumanità e l’umanità nel medesimo tempo, senza manicheismi di maniera. È un racconto sconvolgente, urtante e urlante (pieno di voci che gridano e chiedono aiuto); un film che qualcuno potrà velocemente definire ricattatorio. Ma il ricatto, più che altro, non è quello della realtà, bensì dell’ideologia che ostenta indifferenza per il cosiddetto peso schiacciante dei sensi di colpa. 

Anche Io capitano, di Matteo Garrone, racconta una storia di migrazione, stavolta però partendo dal Senegal e usando codici completamente altri. Rovesciando le prospettive, il film assume il punto di vista del suo protagonista, un ragazzo sedicenne senegalese, e trasforma così l’Europa non in punto da cui, come accade di solito, guardare i migranti, ma in punto d’arrivo ideale. Seguendo una traiettoria picaresca, soprattutto nella prima parte, dedicata alla partenza da casa di Seydou e suo cugino Moussa, l’arrivo a Tripoli e l’attraversamento del Sahara, Io capitano è, da un certo punto di vista, un controcanto salutare di Comandante, di Edoardo De Angelis, il film dedicato alla “storia di coraggio e umanità” del comandante fascista Salvatore Todaro con cui è stata inaugurata la Mostra, alla presenza delle autorità.

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Accanto all’Europa, come metafora ricorrente a cui tornano i film di Venezia80, un secondo tema ricorrente, guardando il corpus dei film in concorso, è, per così dire, il femminile imbambolato, che è un elemento interessante perché può valere sia come finzione, travestimento, sia come strategia ambigua. Quasi proseguendo l’onda lunga del successo cinematografico di Barbie, non si erano mai viste, infatti, così tante bambole e creature modificate tutte insieme. Oltre a Bella, la protagonista di Poor things! nel film di Bonello, sempre in concorso, c’è addirittura una fabbrica primonovecentesca di bambole: è La Bête, interpretato da Léa Seydoux, dove, in uno schema contorto di finestre temporali che si aprono una dentro l’altra, si svolgono dialoghi di una relazione che torna in tre diverse epoche (1910, 2014, 2044). È come se, in questo caso, il femminile imbambolato servisse a mettere in scena le ansie e le domande del contemporaneo intorno all’intelligenza artificiale e alle nuove forme di emozioni, o di assenza di emozioni, che caratterizzeranno i corpi e le relazioni tra i corpi nel futuro. In questi casi il femminile imbambolato vale come finzione. D’altra parte, il medesimo motivo può diventare anche un modo, confuso, di intendere e rappresentare l’identità femminile. Questo secondo caso è, per esempio, quello del film di Sofia Coppola, Priscilla, dove non ci sono, letteralmente, bambole, ma, in un certo senso, la protagonista è raccontata come una specie di “bambola del focolare” che a un certo punto si inceppa e fa saltare le regole del gioco. L’idea è molto buona e interessante. Il modo in cui si realizza, nel film, è ambiguo, sia rispetto al risultato artistico complessivo, sia rispetto alla lettura, discutibile, che si potrebbe dare del film come racconto di liberazione.

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Esistono molti femminismi, infatti, ma di certo il femminismo, come storia dell’emancipazione delle donne, non è riducibile a un thè fra amiche ricche. Il cinema di Sofia Coppola questo rischio lo corre spesso, perché le sue storie di solito raccontano, andando all’essenziale, quanto siano annoiate e infelici le ragazze che passano la vita accanto a uomini ricchi e potenti. È una strada interessante, e particolarmente originale, se si considera che raccontare la ricchezza, in letteratura come al cinema, è un’impresa complessa e complicata, e spesso molto di più del racconto della povertà. Il giardino delle vergini suicide e Maria Antonietta sono gli esiti migliori di questa rara capacità di raccontare la vita negli agi come atmosfera. Ma Priscilla, il film portato a Venezia e tratto dall’autobiografia Elvis and me, scritta a quattro mani da Priscilla Presley con Sandra Harmon nel 1985, racconta l’infelicità di Priscilla (che all’età di quattordici anni aveva conosciuto Elvis Presley, ventiquattrenne, in Germania) lavorando molto di atmosfere (e scegliendo stavolta luci scure e tagli in ombra, in claustrofobiche camere da letto), semplificando un po’ troppi passaggi. Priscilla, insomma, più che una storia di liberazione femminile sembra il racconto ambiguo di una quattordicenne molto incastonata in un ruolo seduttivo su cui il film marcia, più che aprire dubbi. In più, Priscilla, che racconta la relazione tra la protagonista e Elvis, ci offre l’occasione per riflettere su come fare e dare spazio alle donne anche nei biopic, raccontando le esistenze femminili trascorse all’ombra di grandi personalità maschili e appartenenti a un mondo naturalmente patriarcale. Mettere al centro del racconto le donne (o qualsiasi altro soggetto minorizzato) facendo fuori tutto il resto, è infatti un’operazione che può spostare poco, in termini di emancipazione effettiva. Si dichiara di rovesciare un protagonismo sostituendolo con un altro, ma a quel punto il rischio è una carnevalizzazione reale e simbolica che non abbatte una logica ma, ribaltandola, la conferma. Per raccontare l’infelicità di Priscilla, Elvis, Elvis Presley, il re del rock, è trasformato in un ragazzone tonto sessuofobico e tossico. Ci basta? Ci serve a capire, a capire davvero, il perimetro chiuso di possibilità di esprimersi che poteva avere una donna accanto a Elvis Presley? Ci fa ripensare la storia, o almeno le sue contraddizioni? Forse no, ma forse è anche questa è la ragione per cui il cinema di Sofia Coppola piace tanto. 

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