Vita quotidiana di un matto

7 Aprile 2023

Angelantonio Poloni si presenta a pagina diciassette come impaziente psichiatrico, impaziente perché ha fretta di tornare a casa. A casa, al suo rientro, trova la gente che si guarda, quando lui non guarda, e si tocca con il dito indice la tempia, precisamente come immaginiamo faccia Polonio riguardo ad Amleto quando, rivolto al pubblico dice “he is far gone, far gone!”. Ma questo accade, come sempre, après coup. Ci vuole sempre una carica disciplinare – un discorso – prima che il dito dell’altro tocchi la tempia.

È a pagina ottantuno che Angelantonio Poloni ci spiega come mai accada che i suoi compaesani lo guardino estraniati e si guardino tra loro, come in un’intesa ovvia, data per scontata: “Non si curano neppure di abbassare la voce, o forse vogliono che li senta. Con la coda dell’occhio colgo il gesto di un dito che si avvicina alla tempia.” Insomma una via di mezzo tra la discrezione di Polonio, che la follia di Amleto la rivela solo a noi del pubblico, e il ritorno a Marradi di Dino Campana, circondato dai ragazzini che lo scherniscono in maniera sfacciata: “mat Campana!”.

A pagina ottantuno dunque si scrive che tre anni fa al mattino presto Angelantonio Poloni appicca il fuoco a casa e viene salvato dal padre, perché, in stato confusionale, e rimane a guardare confabulando. Come descriverla quella posizione? Guardare le tende della casa e poi la casa che prende fuoco, confabulando, in uno stato confusionale. È l’esperienza della trance, lo stato dissociativo, quella condizione umana che ci distoglie dal fuoco. Qui il termine fuoco ha a che fare con la concentrazione, oppure con uno sguardo mirato, come quando si mette a fuoco un obiettivo con le lenti di una macchina fotografica, o di un cannocchiale, per vederci meglio: fuoco; è noto che una lente d’ingrandimento che frange un raggio di sole può incendiare un foglio di carta o una tenda. Davanti al fuoco si produce una diplopia, si vedono immagini sovrapposte. Non si tratta ancora di delirio, né di allucinazione vera e propria, ma di uno stato crepuscolare intermedio; non si dorme, ma è come se si stesse sognando, Gaston Bachelard la chiama rêverie e Wilfred Bion rêverie materna, perché produce una regressione percettiva e affettiva agli stati primordiali dell’esistenza, alla prima infanzia, alla condizione successiva alla nascita.  

Non scriverò più nulla riguardo a questo romanzo – presentato al Premio Strega e proposto per il Campiello – perché spero che il lettore prosegua nella lettura di Ombra mai più di Stefano Redaelli uscito per Neo alcuni mesi fa. Come si può immaginare dalle note di apertura di questa recensione, si tratta della vita quotidiana di un giovane uomo che è stato ricoverato in psichiatria. 

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Ce ne sono di libri di questo genere, più d’uno. Voglio ricordare TSO di Magda Guia Cervesato, uscito anni fa per Sensibili alle foglie, la storia di una donna che subisce un trattamento sanitario coatto in psichiatria, o, ancor prima, il meraviglioso racconto di Gabriel Garcia Màrquez “Sono venuta solo per telefonare”, ma sono opere concitate, nervose, che mostrano l’ingiustizia, il negazionismo psichiatrico, ciò che leggiamo sui giornali ogni volta che una persona muore legata a un letto di contenzione, la barbarie di questi modi violenti, coercitivi, che ti lasciano un trauma e ti segnano profondamente, quando non muori. Una barbarie negazionista perché passa sotto la fattispecie di operazione sanitaria. Non si tratta neppure di una raccolta di racconti di vita quotidiana interna o liminare all’istituzione psichiatrica, come il bel libro di Antonello D’Elia La realtà non è per tutti. Voci dalla legge Basaglia quarant’anni dopo, per l’editore Villaggio Maori.

Mentre si legge Ombra mai più, viene in mente la canzone di Ivano Fossati L’uomo coi capelli da ragazzo, che in questo video mostra una sovrapposizione tra le immagini del totalitarismo, della desolazione di una metropoli e quelle dell’istituzione manicomiale.

Le parole di questo romanzo trasmettono un senso di rassegnazione, una mestizia. La condizione di una persona che ha passato una porzione della sua vita dentro un’istituzione psichiatrica e non può dimenticarla. Quel che rimane, di questo giovane uomo, Angelantonio Poloni, è la lucidità delle sue riflessioni e la preoccupazione e la cura per la vita degli altri. 

Molte persone che frequentano le sedute cliniche, dopo essere passate per l’istituzione di ricovero psichiatrico, raccontano la loro esperienza allo stesso modo, così come molte donne abusate, molti reduci di guerra migranti, molti ex-carcerati. Ma solo quando, dopo un tempo a volte prolungato di incontri di psicoterapia, acquisiscono lo sguardo esperto, uno sguardo diverso sulla loro vita. 

Non sono mai riuscito a comprendere come queste esperienze traumatiche personali, anziché ricevere l’ospitalità di un ascolto, vengano oggettivizzate. Come una rêverie che permette di rielaborare il trauma attraverso la dimensione dell’immaginario venga trattata in termini di delirio. Ma qual è la differenza tra rêverie e delirio? La rêverie ha una trama, il delirio è un sintomo, ma non è qualcosa di intrinseco all’oggetto rêverie, rispetto all’oggetto delirio. Si tratta dello stesso fenomeno visto da punti di vista diversi. La rêverie, raccontata, induce all’ascolto, il sintomo all’essere silenziato.

Chi ha subito un trauma ha spesso attraversato un dolore multiplo. Non si tratta solo del trauma del ricovero, della violenza, del maltrattamento, dell’assalto subito, ma del fatto che questo episodio ti rimane attaccato addosso, come un segno della tua esistenza, lo stigma di cui tanto si parla. Lo stigma è più potente ancora dell’episodio subito, lo stigma appartiene al tuo corpo, è una ferita indelebile: il segno delle torture di un migrante, la perdita della verginità di una bambina stuprata, i segni fisici delle botte ricevute in carcere cercando di sottrarsi alla criminalità che là alligna. Ma anche lo sguardo scientifico, oggettivante, di chi è supposto sapere; quello sguardo che, senza dire, ti rivela la perdita della dignità anziché aiutarti verso la ricerca di una sua riconquista; questo è lo stigma. Nell’esperienza clinica se ne incontra uno ancor più intenso, quello che cresce piano piano verso se stessi, quando si perde il senso della propria dignità e si assume lo sguardo diagnostico come un nuovo nome da attribuire a se stessi. Oltre trent’anni fa, incontrai per la prima volta una persona che aveva subito la diagnosi di schizofrenia paranoide, era colta e ironica, si presentò a me con una metonimia deduttiva: “Piacere schizofrenico paranoide, lei dev’essere di dottor Barbetta, si vede: ha la barba.” La mia barba valeva la sua diagnosi, quando le parole e le cose si condensano e un accidente diventa sostanza: ciò che sta sotto la nostra esistenza in modo permanente.

Stefano Redaelli canta le vicende di Angelantonio Poloni, Angelo e Antonio. Racconta una vita che non troverà mai più riparazione, perché nulla si può riparare, ma anche un’esperienza di recupero della quotidianità e dell’esistenza che riprende a partire dalla lettura sotto un platano, cresciuto dopo tre anni di assenza dai luoghi familiari. Un platano cambiato perché su di lui non è calato il gelo dello sguardo diagnostico oggettivante del soggetto supposto sapere.

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