Vite parallele: Menapace e Panahi

30 Dicembre 2023

Nel 1936 il 96% degli italiani appoggiarono l’invasione dell’Etiopia ed erano presumibilmente fascisti o comunque lì intorno. Non tutti, ovviamente, ma una gran parte. Come del resto capiamo quando cade un regime, da quello di Saddam Hussein alle tante altre dittature in giro per il mondo, è chiaro che dove non ci sono alternative è difficile avere opinioni diverse. Se non si vota, dove lo stato agisce attraverso una efficiente polizia politica o addirittura, come in Iran, dove le donne vengono bastonate o uccise per non portare Hijab, si finisce in una passività prudente, spaventata, che è appunto quello che è accaduto alla generazione dei miei genitori sotto il fascismo. Molti italiani ebbero chiaro il disastro del fascismo già prima della fine della guerra, altri un po’ prima, altri un po’ dopo, quello che qui interessa è come si è usciti da quell’epoca perché questo ha molto a che fare con il particolare governo di destra che abbiamo oggi in Italia.

Nella bella introduzione alla raccolta di scritti scelti di Lidia Menapace (Un pensiero in movimento, 1960-2019, a cura di Carlo Bertorelle e Maria Pia Bigaran, Alfabeta Edizioni Verlag), viene ripercorso l’itinerario di Menapace attraverso le principali vicende della sua vita politica. I curatori parlano nella prospettiva della generazione successiva e tentano di ricostruire una genealogia della Menapace: partigiana, quindi consigliere provinciale per la DC a Bolzano, dove è sensibile alle questioni dell'autonomia sudtirolese, poi, dal '68 e dopo la "scelta marxista", attivista nei movimenti e soprattutto nel Manifesto, nel femminismo, nel pacifismo, alla fine eletta senatrice per Rifondazione. Quello che i curatori del volume riescono a restituire in questa nutrita selezione dei suoi scritti è la bella qualità morale e intellettuale di Lidia Menapace e il buon tono della vita italiana dal dopoguerra a oggi. Essere usciti dal fascismo ci ha dato una storia complicata, dove hanno spazio molte differenze e conflitti. La presentazione affettuosa di Dacia Maraini la coglie in pieno: essere nella vita espone alla politica e, come dice la Szymborska, tutto quello che facciamo tra gli altri è politica. Nelle tappe della biografia di Menapace, tra alleanze, gruppi a cui si affilia e altri che lascia, risalta proprio questo dato fondamentale: la resistenza è per lei un'esperienza fondativa, ed è innanzitutto il frutto di comportamenti diffusi e di piccoli e grandi gesti di gente comune. Lidia entra "quasi insensibilmente" nella clandestinità, a partire da un antifascismo nato nella concretezza dei fatti quotidiani, come quello dell'incomprensibile allontanamento dalla scuola di due compagne ebree, a Novara, dove era nata e viveva. Nel corso della sua lunga esistenza continua a richiamare l'importanza e la qualità della partecipazione, delle scelte nate da un confronto aperto tra opinioni diverse, orgogliosa di un percorso non lineare proprio perché mosso dalla coerenza nei suoi valori e insieme dall'adesione a una realtà che muta e ci chiama all'essere "di parte", dalla parte giusta.

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La sua figura mi ha ricordato l’ultimo episodio del film di Jafar Panahi Taxi, dove un’avvocata con un bel mazzo di fiori spiega quale sia la difficoltà di vivere in un regime: ti mettono in prigione, ma quando ne esci tutto è una prigione e vorresti chiedere che ti lasciassero rientrare in prigione. Cos’è che è davvero terribile in uno stato che ci fa desiderare di tornare in prigione? Può essere raccontato dalla politica? 

Di nuovo tornando a memorie credo piuttosto condivise non solo dalla mia generazione, ma anche da quella di figli e nipoti, il regime è la sensazione di essere chiusi in una prigione, e questo deriva dal prevalere di una mentalità che cancella le differenze. L’essere italiani, che certo è anche una bella cosa, diventa una prigione se si rivolge contro gli altri, i migranti e gli emigrati, può travolgere in una spirale nazionalista come è accaduto in Gran Bretagna con Brexit, dove il racconto mitico e non storico dell’Impero britannico ha cancellato la sofferenza degli schiavi di cui il Regno Unito fu il maggior commerciante e da cui derivarono le risorse nello sfruttamento umano, il prevalere economico del mondo anglo-americano su tante altre nazioni. Ma può essere anche una centralizzazione statale in nome del bene comune, com’è di fatto stata la realizzazione del comunismo in quei paesi che hanno tentato di costruire quel sistema. Russia, Corea del Nord, Cuba. Come si legge nei romanzi di Milan Kundera o le commedie di Vaclav Havel, possono diventare dissensi i libri che si leggono, il modo di scherzare. Alla fine portano in prigione anche un certo gusto nel vestire. La prigione nella Praga di Kundera può essere anche una mentalità antiborghese e anti-aristocratica che finisce col rendere pericolose le letture attraverso cui la borghesia si afferma, e quindi tutta la letteratura e la musica romantica, Sigmund Freud e il primo novecento, la letteratura libertina, Voltaire, Diderot, Rousseau. Come sappiamo, ogni dittatura si rivolge soprattutto a riscrivere curricula scolastici, cancellare e censurare autori, a bruciar libri e delegittimare contenuti.

Sono questi i veri segnali su cui si misura l’azione dei governi. La prigione di cui parla Panahi inizia quando vengono vietati certi autori (nel suo film c’è appunto anche un contrabbandiere di film stranieri proibiti). La nostra prigione è nella ridiscussione di curricula scolastici, nel tentativo di riscrivere la storia. Lo sappiamo anche prima di saperlo, come devono averlo saputo i ragazzi anche sotto il fascismo, e per questo dalla persecuzione verso i migranti c’è sempre il rischio che rinasca un senso di italianità (o germanicità, o francesità ecc.) etnica in nome della quale vengano espulsi altri. Ci si proietta sempre e comunque una storia alle spalle, ma è anche a questo che servono le università, ad arginare con lo studio e con i fatti concreti indagati e per quanto possibile accertati, i deliri ideologici che inventano identità dove non lavorano tra gli altri per costruire un mondo. Nella vita di Lidia Menapace risalta allora anche un altro aspetto: per tenere insieme le diverse associazioni di cui è parte, è anche una grande viaggiatrice in giro per l’Italia. Le città, gli spostamenti, sono insieme il tessuto politico e quello delle amicizie, e quindi alla fine di una visione del mondo che è insieme militante, affettiva, creativa.

Abbiamo bisogno di tante Lidia Menapace, di Dacia Maraini e dei bravi curatori di questo bel volume per raccontare la nostra complicata storia. Abbiamo bisogno di memoria per non crollare in una prigione dove magari le sbarre sono fatte di altri conformismi. C’è aria e libertà solo dove c’è dissenso e differenza. Per esempio, quella differenza che il femminismo degli anni Settanta mette al centro delle sue riflessioni e delle sue pratiche, un principio, come ancora ci ricorda Lidia Menapace, che induce a coltivare e rispettare "il molteplice" in tutte le sue forme e a fuggire dai dogmatismi politici e religiosi. 

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