Aki Kaurismäki. Miracolo a Le Havre

30 Novembre 2011

Il grande pregio del cinema Aki Kaurismäki è sempre stato quello di essere profondamente autentico e sincero. Un cinema che non utilizza artifici né doppiezze, che non asseconda la moda, il gusto dominante e non va in cerca di stile. Un cinema che soprattutto, cosa rara, dice esattamente quello che vuole dire. E in un’epoca nella quale sincerità fa sempre più rima con leggerezza, sorprende la capacità del regista finlandese di risultare, attraverso la propria opera, nello stesso tempo elegantemente spontaneo e testardamente eterodosso. Nemmeno Miracolo a Le Havre, l’ultimo lavoro, fa eccezione.La storia è quella di Marcel Marx, già protagonista di Vita da Bohème (1992), che trasferitosi da Parigi a Le Havre, appunto, si è messo a fare il lustrascarpe. Incontrato per caso Idrissa, un giovanissimo ragazzo immigrato clandestinamente che sta cercando di raggiungere la madre a Londra, Marcel decide di aiutarlo a compiere il viaggio nonostante la curiosità del poliziotto Monet e l’improvvisa malattia della moglie Arletty.

 

Sono molte le tipicità del cinema di Kaurismäki che emergono nella pellicola: ma al di là dell’ambientazione, dei personaggi e delle situazioni narrative, ciò che colpisce più di tutto è l’immutata volontà del regista di mandare, una volta in più, un messaggio politico. La ben nota militanza dell’autore, come sempre stemperata dall’incedere morbido del racconto, si estrinseca infatti nella rappresentazione, mai eccessiva eppure estremamente potente, di un mondo che si è arreso all’indifferenza e al quale pare non importi di misurarsi con ciò che lo circonda.

 

 

Ce l’ha con l’Europa tutta, Kaurismäki. Ce l’ha con un sistema globale che privilegia il denaro e dimentica le persone e con un apparato sovranazionale che utilizza i mezzi della legge per escludere invece che per accogliere. Ma soprattutto ce l’ha con la società contemporanea, una società che crede nei miracoli senza rendersi conto invece, che le tragedie accadono ogni giorno. Già, i miracoli. Nonostante il titolo italiano cerchi di mettere in risalto l’aspetto trascendentale della vicenda, e di creare una del tutto immotivata assonanza con Miracolo a Milano della coppia De Sica - Zavattini, è vero, in realtà, che di miracoli in questo film non ce ne sono. Forse perché, come dice Arletty al proprio medico, i miracoli non accadono nei quartieri come il suo o forse perché la semplice esistenza di un quartiere così è già molto più di un miracolo.

Ed è in effetti un luogo senza tempo, il piccolo sobborgo nel quale la storia è ambientata. Sin dall’inizio del film Kaurismäki si preoccupa di assegnargli un posto al di fuori della realtà quotidiana. E lo fa riempiendo di materiali e oggetti dallo stile antico e vagamente rétro tutta la scena; elementi che si scontrano, giocoforza, con i simboli di quella modernità che vive al di fuori del quartiere.

 

 

Così il mondo fatto di metropolitane, container che trasportano persone e centri per l’immigrazione, si sbiadisce nel momento in cui entra in contatto con il microcosmo nel quale vivono i protagonisti, un luogo nel quale automobili, telefonini e perfino il denaro, appaiono fuori posto e senza valore. È attraverso tali scelte, d’altronde, che il regista giunge a disarticolare la narrazione su due piani differenti, sottolineando, con questo agire per evidenze estetiche, quanto il duplice binario sul quale il racconto è innestato, divenga il motivo preminente dell’enunciazione filmica. Egli, mettendo in relazione fra loro i due mondi ai quali ha dato corpo, infatti, intende mostrare non solo l’assoluta affermazione di un modello di vita sull’altro, ma anche che tale affermazione passa da una necessaria inclusione del realismo nel mondo del fantastico, dell’ideale, della favola e, non da ultimo, dell’ironia.

 

Se all’inizio del film Kaurismäki introduce l’inconciliabilità tra i mondi a cui sta dando vita – pensiamo a Marcel che non trova piùclienti perché nessuno ormai indossa più scarpe da far lucidare – nel finale, quando ci mostra Monet il poliziotto (e tutto quello che egli rappresenta) aggirarsi tra le viuzze e infilarsi nel bar del quartiere con un ananas in mano come fosse una cosa normalissima, sancisce di fatto che il lieto fine non è dato tanto dall’armonia ritrovata e nemmeno dalla “miracolosa” guarigione di Arletty, ma dalla possibilità che le cose cambino e che il mondo vero possa diventare un po’ più come quello solo immaginato.

Un mondo che Kaurismäki costruisce partendo dall’amore per gli anni dell’infanzia e per la vita semplice, certo, ma che ricalca soprattutto sull’amore totale che ha per il cinema. E anche la scelta di girare a Le Havre, in questo senso, non è affatto casuale. Non solo perché la città normanna ospita un grande porto (elemento irrinunciabile nei film del regista) ma anche perché risiede nella patria del cinema per eccellenza: la Francia. Ed è proprio il grande cinema francese che Kaurismäki intende omaggiare con questo film e non solo per via dell’ambientazione. Elegantemente fusi nel côté della pellicola troviamo infatti lo stile antieroico e un po’ partigiano del migliore Melville, la candida umanità di Renoir (impossibile non pensare a Il delitto del signor Lange) e il realismo asciutto di Bresson. Ma non mancano le suggestioni legate alla Nouvelle Vague e soprattutto l’omaggio alla leggendaria Arletty, simbolo non solo di un certo cinema, ma anche di un’epoca e di una nazione.

 

 

Un impianto questo il cui unico difetto è forse quello di far credere che il film si ponga in una posizione di eccessiva lontananza dal presente. Mentre la forza di Miracolo a Le Havre sta in un atteggiamento esattamente opposto, quello, ovvero, di parlare soprattutto del mondo di oggi. Kaurismäki ha lanciato l’allarme sul naufragio dell’Europa e della sua società con sorprendente lungimiranza e se i tempi gli stanno dando ragione, nonostante il fastidio di molti – non ultimi i censori che gli si sono scatenati contro in relazione alle uscite ironiche al recente Torino Film Festival – non resta che sperare che il mondo di domani somigli un po’ di più ai suoi film, almeno quanto i suoi film somigliano a lui.

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