Alexander Sokurov. Faust

12 Novembre 2011

Difficile parlare di Faust. Era difficile due mesi fa, quando è piombato come una meteora incandescente quasi in chiusura del festival di Venezia, guadagnando tra applausi e sbadigli il Leone d’Oro e l’etichetta di capolavoro, ed è difficile oggi, mentre fa capolino come un fantasma altero in qualche sala dispersa, senza altro sostegno che la sua temibile reputazione. Il capolavoro. Ci vuole una buona dose di presunzione per mirare al capolavoro, per muoversi con disinvoltura fra i corridoi vetusti dell’Arte Cinematografica. E certo la presunzione non manca a Sokurov, un autore scandalosamente aristocratico, capace di affermare che “al film non serve lo spettatore, è lo spettatore che ha bisogno del film”. C’è molta arroganza, certo, ma a ben vedere anche un profondo senso di responsabilità nei confronti dello spettatore, che spende due ore della propria vita davanti allo schermo e magari su quello schermo proietta ancora un desiderio, un bisogno che non sia dipendenza dall’intrattenimento anestetico. D’altra parte il bisogno di capolavori a volte fa brutti scherzi. Penso all’acclamazione orgiastica che da molte parti si è levata a Cannes per un film pomposo, irrisolto e a tratti francamente imbarazzante come The Tree of Life di Terrence Malick. Forse il capolavoro è una categoria usurata e inservibile. E probabilmente queste sono soltanto sterili elucubrazioni, ma sorgono spontanee davanti a un film come Faust.

 

 

Un film esigente e persino autoritario, che afferra e trascina, ci strappa a noi stessi e porta altrove, coinvolgendoci nel travaglio con cui genera un mondo: non un mondo abitabile, ma un universo ribollente e senza quiete, che assorbe e respinge, si dilata e si contrae secondo leggi oscure che emanano un’ineffabile necessità. Eppure un film generoso, che dissipa gioiosamente la sua ricchezza di sensi e di senso, deborda ed eccede la meschinità dei simbolismi: decifrarne i geroglifici sontuosi può essere appassionante quanto riduttivo, come interpretare le figure che cogliamo nelle nuvole o nelle concrezioni minerali. Faust è un’avventura nella materia, un’impresa alchemica smisurata, che mette alla prova il potere del cinema di dissolvere e coagulare tempi e spazi, di sublimare i materiali e precipitare i significati.

 

Il movimento di macchina iniziale inaugura uno sprofondamento incontenibile: lo sguardo discende da un cielo vuoto, cui resta appeso uno specchio enigmatico, fino ai genitali di un cadavere, nel quale Faust rovista alla ricerca di un’anima introvabile. Da qui in poi siamo calati in un mondo pulsante di istinti ferini e tensioni ideali, di corpi che fremono di bellezza e di orrore, condotti senza sosta in un budello di strade labirintiche e stanze asfittiche, fra le rovine di un cosmo collassato, pervaso di umori e miasmi, sconvolto da una disgregazione inarrestabile, ma animato da una costante trasmutazione. Viaggio picaresco e danza macabra, Faust è un perpetuum mobile impazzito, una deriva ubriacante guidata da una studiata orchestrazione visiva e sonora: Sokurov ci circonda di un teatro affollato e soffocante, in cui si aprono continui punti di fuga, prospettive distorte da specchi e lenti anamorfiche, fondali impregnati di tinte spettrali e terrigne, da cui divampano improvvise fiammate cromatiche. E a un tratto la fantasmagoria svanisce come un incubo, lasciando posto alla rarefatta desolazione del finale, in cui Faust si lancia, fra il bianco e il nero dei ghiacci e del basalto islandese, inabissandosi ai margini dell’inquadratura.

 

 

La scommessa del Faust goethiano, che impegna l’anima in cambio di un attimo così bello da arrestare la sua illimitata tensione metamorfica, diventa la sfida mefistofelica del regista, che ci tempesta di splendori e nefandezze, costruisce quadri traboccanti di stimoli ed evocazioni, che si vorrebbero fermare, assaporare, e invece si sfaldano incessantemente, si disperdono in infinite direzioni. Il demone del cinema, inquieto e capriccioso, possiede le arti, le attraversa e le sconquassa, penetra e squarcia il tessuto pittorico delle immagini, la densità enigmatica del testo, mirando sempre allo sconfinamento: “Oltre, oltre, oltre.” Come lo sprovveduto protagonista, esautorato e manovrato dal suo subdolo assistente nei suoi gesti determinanti (l’assassinio di Valentin, la firma del patto), veniamo giocati e beffati dalla rappresentazione, come lui ci arrovelliamo a cercare il senso, ma siamo travolti dall’azione.

 

 

L’unico gesto che appartiene veramente a Faust è quello con cui si perde definitivamente, quando seppellisce il suo demone e rinuncia all’anima stracciando il contratto: la fame di sapere, la ricerca ansiosa che lo divora e lo spinge, si cristallizza in una certezza nichilista, nell’estasi e nella solitudine di una ragione onnipotente e distruttiva. Il passo scomposto con cui riprende la sua folle corsa traccia il preludio alla parabola tragica e grottesca del potere, quella che Sokurov ha analizzato dissezionando i corpi decadenti di Hitler (Moloch), Lenin (Taurus) e Hirohito (Il sole). Rispetto a quella trilogia, Faust si offre come fondazione teorica e sintesi visionaria, che nella terra desolata del finale ne dispone lo scenario, un orizzonte sconfinato di assoluta immanenza. Un prologo e una conclusione, ma anche qui, il film va oltre.

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