Artpod / Atelier dell’Errore, "Più penetrante di un cristallo di radio 01", 2017-2018

27 Maggio 2021
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«La gomma da cancellare è bandita». Questo è il semplicissimo precetto cui si devono attenere i giovanissimi artisti dell’Atelier dell’Errore. Grazie ad esso si ribadisce un antico modo di intendere l’arte: essa deve essere “imitazione” della natura. Se ci si asterrà dal cancellare, ad essere replicata fedelmente non sarà però la natura del “naturalismo”. Non sarà la natura-Forma, la natura-Idea, la natura-paterna (come insegna Platone, l’Idea, la Forma a dispetto della grammatica, appartengono all’ordine simbolico del Padre). Non sarà la natura espressione rassicurante di una razionalità superiore. Gli artisti dell’Atelier portano in scena un’altra natura. La loro natura è la natura naturans,  è la natura generante, quella che ha nel cambiamento, nella eterogeneità, nella disseminazione e nella proliferazione incontrollata, nella mancanza di scopi e di umane ragioni, e, infine, nella “mostruosità” il suo essere proprio. È la natura-evento, la natura madre-matrice di mostri, la natura virale.

 

L’opera che qui si commenta ne è testimonianza. Azzardiamone un’ekphrasis: sulla scena, faticosamente contenuta nel limite istituzionale della cornice, c’è il procedere di formiche giganti che sembrano impegnate in quel pasto comune e in quella digestione condivisa che i mirmecologi chiamano trofallassi o ectotrofobiosi, «una modalità di alimentazione, racconta Wikipedia, che integra elementi di socialità; in pratica un individuo usa condividere il cibo assunto precedentemente con altri individui del proprio gruppo sociale/famiglia. Avviene principalmente tra insetti sociali come vespe, termiti, api, ed in particolare tra le formiche, le quali hanno uno spazio apposito all'interno del proprio corpo detto "stomaco sociale" o “ingluvie”». Un pasto osceno, insomma, che annulla ogni individuazione, trasformando una molteplicità di esseri in un unico tubo digerente, dove ano e bocca si confondono, come nei sogni del chirurgo pazzo di Human Centipede (horror di Tom Six del 2009), che assemblava corpi vivi per produrre un centopiedi umano. Tutta l’arte dell’Atelier è l’arte di quell’epoca del mondo in cui il mondo è costretto a fare i conti con il suo fondamento mostruoso, ma lo fa con una “gioia” che mette in allarme i benpensanti che preferiscono rubricare queste operazioni nella categoria rassicurante del “disagio psichico” e della sua terapeutica espressione. Ma non è così. Questa epopea teratologica non è sintomo di nessuna mancanza e l’Atelier non è un ospedale da campo.

 

Questi animali non incarnano, come si crede, «le paure e le sconfitte di chi li ha disegnati» e tantomeno «il loro bisogno di protezione e la loro potente voglia di riscatto». Dall’incedere inesorabile del disegno trasuda piuttosto autentica gioia, quella gioia che si sprigiona quando, grazie all’arte e grazie all’educazione estetica, si varcano finalmente le soglie che dividono l’uomo dalla natura, la cultura dalla zoologia, la psicologia dalla cosmologia e si riattinge miracolosamente quel punto situato alle nostre spalle in cui i destini della specie umana erano intrecciati con quella degli imenotteri, i formicai o i termitai erano indistinguibili dalle “società” umane e i popoli erano innanzitutto popolazioni formicolanti. Ma come può un precetto così semplice come “non cancellare!” sortire un simile effetto mimetico? Perché vietando l’uso della gomma per cancellare si mette in questione il principio stesso dell’antropogenesi e si sfida l’artista a deporre la sua orgogliosa sovranità per ripetere umilmente e gioiosamente il gesto della natura naturante. In natura infatti non ci sono negazioni. Non si cancella nulla, semmai si sedimenta, si accumula, si ricicla. Gli escrementi sono cibo e le morti, lungi dall’essere sparizioni, fecondano il futuro. La natura naturans è una gigantesca “ingluvie”. Tutto quello che in natura ci appare come una negazione, la nostra morte in primis, è in realtà una proiezione umana, vale a dire un effetto del linguaggio. I filosofi stoici avrebbero parlato di “effetti incorporei” o “di superficie” che non hanno rapporto con il fondo della natura che per loro è corpo e solo corpo.

 

In natura ci sono solo corpi, ma che cosa soni i “corpi”? Non sono Forme, Idee, oggetti, sono potenze in atto che si estendono fin là dove possono arrivare, entrando talvolta in opposizione reale con altre potenze. In natura ci sono solo forze che, essendo per definizione limitate (altrimenti non sarebbero tali), si esauriscono, ma la loro necessaria fine non è negazione, è piuttosto una purissima affermazione. Il loro scemare ai bordi coincide infatti con il loro manifestarsi. Per la negazione ci vuol l’uomo, ossia l’animale che parla. Il “no” è dire di no. E a chi e a che cosa si dice di “no” se non proprio alla potenza della natura, alla sua mostruosa generatività? L’opera del linguaggio, l’opera dell’uomo, è allora “cancellare”. Sappiamo cosa diventa la natura alla luce primigenia della negazione: nient’altro che un “disegno” intenzionale tracciato a partire da un foglio bianco. L’artista creatore e Dio Padre si possono così specchiare l’uno nell’altro: entrambi dalla negazione traggono tutte le loro risorse e grazie alla negazione modellano un essere razionale. “Vietato cancellare” è allora il precetto che strappa l’artista al consorzio umano e alla sua somiglianza con Dio-Padre, situandolo dalla “parte maledetta” della Madre-materia instancabile generatrice di mostri. 

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