Baruchello, artista della stele di Rosetta

15 Gennaio 2023

“Siamo stati in Italia, a casa del pittore Baruchello che mi piace molto” dice a un certo punto Duchamp a Pierre Cabanne. “Fa dei grandi quadri bianchi, con delle cose piccole piccole che bisogna guardare da vicino”.

Non erano poi molti quelli che avevano davvero conosciuto Duchamp. Meno ancora quelli che lo avevano capito davvero, schivando l’emulazione. Per restare agli scacchi: si trattava di imparare le regole e fare il proprio gioco. Magari ogni tanto cambiandole, le regole (che ne so, provare a togliere le torri dalla scacchiera. Oppure togliere il colore dal quadro. O fare cose piccole su superfici molto grandi). 

I novantotto anni di Gianfranco Baruchello hanno insegnato un po’ a tutti tante cose. Anzitutto l’irriducibilità a schemi e ruoli di comodo. Pittore, ma non certo “retinico”, in grado di passare indenne attraverso la retorica dell’informale e della nuova figurazione. Partecipò insieme a pochi altri italiani (Baj, Festa, Rotella e Schifano) alla seminale esposizione “New Realists” alla Sidney Janis Gallery di New York, nel 1962. Ma ecco, il linguaggio iconico di una pittura fredda e oggettiva era in grado di sovrapporsi a oscuri, personalissimi codici linguistici in un referto irriducibile a ogni trasparenza interpretativa. Figure e parole si embricavano in tavole geroglifiche. Diceva Alain Jouffroy che la pittura di Baruchello era una Stele di Rosetta in quattro lingue (italiano, inglese, francese, tedesco) o forse anche sei, se ci mettiamo latino e greco. Ma c’era anche qualcosa che risaliva alla scrittura automatica, a una irrefrenabile pulsione psichica, all’accumulo caotico. Pitture e sculture (in realtà: oggetti manipolati, duchampianamente ready mades rettificati) si presentavano come mappe di un sapere insano, tracciati psichici, assemblages “esistenziali”, oscuri totem che interpellavano l’osservatore (ancora nel 2003 Baruchello licenziò un libro intitolato Cosa guardano le statue). 

L’esattezza della parola come segno conviveva con l’oscurità del suo significato e con le modalità della sua messinscena espositiva. La contraddizione era solo apparente. Ogni sapere consolidato, a suo modo ufficiale, acquisiva una dimensione ironicamente monumentale. Così ad esempio le pile di libri intitolati Partout le silence, 1962. Un monumento alla loro stessa inconsistenza, fantasmi di un’erudizione sopra cui Baruchello colava il vinavil. Non diversamente le pile di giornali collocate su lunghe tavole dipinte di rosso minio: le chiamava cimiteri di opinioni.

Per un artista che ha attraversato un secolo, e in questo modo, difficile dire che cosa non abbia fatto. Pittura e scultura (senza in fin dei conti essere né l’una né l’altra), performance e installazione, video (a partire ovviamente da la Verifica incerta, il collage found footage montato insieme ad Alberto Grifi nel 1964), azione politica, sensibilizzazione ecologica (ben prima dell’ossessione tutta recente per il climate change) e poi fotografia, e teatrini; una ricca, disinvolta, prodigiosa produzione editoriale ed esoeditoriale (credo che Manganelli lo ammirasse anche per quello); esperimenti sonori; residenze d’artista; l’attenzione a pensare le cose come un archivio, consapevole del rischio (e ben prima e ben meglio di quel frivolo archival turn).

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Gianfranco Baruchello, Piccola mostra itinerante antipotere 1975, Il Ponte Firenze.

Possibile di tutto, ma “spettacolo di niente”, per riprendere il titolo di un libretto di ragionamenti di vent’anni fa (“La scienza – scriveva lì Baruchello – fa il suo mestiere con la ricerca e il filosofo che ne osserva i risultati fa la sua parte. All’arte lo stesso compito ma con confini che oltrepassano quelli imposti a scienza e filosofia dalla coerenza e dalla logica”). 

L’arte è una somma di insoddisfazioni, l’artista un rabdomante della sua stessa curiosità. Una risoluzione sociale divenne a un certo punto il più prevedibile degli sbocchi, e la meno semplice delle operazioni. Baruchello nel 1973 decise di scappare dalla città, andando a vivere a Santa Cornelia, nella campagna tra Cassia e Flaminia. Così lui la racconta: «un pittore europeo di mezza età si reca a vivere in località di campagna non lontana dalla capitale con l’idea di rivisitare certi miti, produrre beni alimentari primari, allevare animali, pratica la terra e beninteso continuare il suo lavoro di artista in modo che ciascuna di queste esperienze sia simultanea, intercambiabile, sconfinante con l’altra. Dare a un raccolto di barbabietole o di patate la natura ipotetica del ready made, dare cioè un senso politico a una parte di Duchamp».

Tra le cose minute (sagome di cartone, barchette, fotocopie, ritagli di giornale) stipate dentro scatole à la Cornell e i trattori ed erpici che si muovono negli spazi aperti di Santa Cornelia sembrava esserci soltanto una differenza di grado. Poi, volendo, si può anche parlare di “avanguardia”. Ma non è in fin dei conti necessario.

Ripercorrere oggi l’arco della creatività di Baruchello significa intercettare buona parte delle forme attraverso cui quella cosa che chiamata arte contemporanea è divenuta tale, piaccia oppure no, e nel modo plurale che ora conosciamo.

Uno degli ultimi progetti, “Produzione di Utopie. Adozione della pecora” era una start up che prevedeva quattro agenzie per la “produzione del possibile”. Detto in altri termini, provare a innescare dinamiche economiche e relazioni sociali per ridefinire il rapporto tra il valore d’uso e il valore di scambio. E in ballo non vi erano soltanto le trascurabili “opere” di arte contemporanea, s’intende. 

Lo scorso anno era uscita una seconda edizione di Psicoenciclopedia possibile (Treccani 2022). Sottotitolo: Conoscere è confondere. Baruchello la definiva così: “Un lavoro sul sapere. Sogni, ipotesi, esercizi. Niente di inamovibile. Contro il monumento e la rigidità. Al loro posto: la passione per il sapere, il desiderio, la fragilità. Nessun patrimonio accumulato per sempre”.

Intendiamo oggi quel volumone a suo modo come un testamento. Regesto del caos che siamo diventati e al tempo stesso monumento inattuale alle presunzioni di collezionare e denominare il mondo: pur continuando a farlo, come esperienza di vita e come ragione di arte – le due cose vanno insieme, chi lo aveva detto? 

In fin dei conti, ci ha dimostrato Baruchello, è dentro quell’apparente trascurabile residuo, dentro le cose molto piccole in superfici molti grandi che si rintraccia una felicità possibile.

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Andrea Cortellessa, Gianfranco Baruchello, i paesaggi invisibili
Luigi Bonfante, La Psicoenciclopedia possibile di Baruchello
Alessandro Del Puppo, Gianfranco Baruchello da “abaco” a “zero”
Tommaso Isabella, Baruchello. Il cinema va servito freddo
Carla Subrizi, Gianfranco Baruchello / L'effetto Duchamp

L'immagine di copertina è di DANIEL REINHARDT | Ringraziamenti: EPA, Copyright: ANSA.

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