Bella e perduta

20 Novembre 2015

C’è un luogo, un monumento storico, la Reggia di Carditello, in provincia di Caserta: bella, bellissima, maestosa, ma rovinata dal tempo, dall’usura e dal saccheggio a cui l’ha condannata l’incuria degli uomini. C’è un tempo che è maestoso pure lui e quasi immobile e impercettibile: il tempo monumentale della tradizione, del passato e dello splendore antico. E poi c’è un altro tempo ancora, materiale e inarrestabile, che è il tempo della società e della Storia, ciò che porta decadenza e rovina. Infine, c’è una strada: sterrata, di campagna, ai bordi di campi coltivati o fra alberi disposti in fila; una strada da solcare, un tragitto da compiere in un senso e poi nell’altro.

 

 

Tra questi poli, tra la bellezza imponente e immobile del monumento storico e il divenire del viaggio e dell’evoluzione, c’è in mezzo un film, Bella e perduta di Pietro Marcello, nato come “viaggio in Italia” destinato a toccare diverse tappe, poi fermatosi a raccontare l’esperienza del custode della Reggia, Tommaso “l’Angelo di Carditello”, pastore che ha dedicato la vita alla cura di un bene abbandonato, e poi diventato un’altra cosa ancora (una fiaba popolana, un poema visivo, una ballata) a causa dell’incedere della realtà e purtroppo della morte, con l’improvvisa scomparsa dello stesso Tommaso la notte di capodanno del 2013. Non due o più film in uno, come potrebbe sembrare dalla genesi del progetto, ma, proprio a partire da un processo creativo difficoltoso, un film che diventa un altro film e poi un altro ancora. Un film in divenire, stravolto e arricchito da un percorso drammatico e incerto.

 

Bella e perduta è il resoconto visibile, testimoniato e partecipe dei pensieri del proprio regista, materia grezza – documentario, favola, resoconto, cronaca, osservazione, riflessione – plasmata colpo su colpo, immagine dopo immagine, fino a costruire un oggetto unico e riconoscibile in sé. Un film senza contorni, fatto della sua stessa materia, senza strutture o preconcetti: come una tela di Cezanne, come le sue incredibili mele e pere, create colore su colore, colore primario e colore complementare sovrapposti, non mescolati, ma accostati, per rendere l’essenza degli oggetti rappresentati. «Deformazioni prospettiche»[1], come le chiamava Merleau-Ponty, che contribuiscono a dare l’impressione di un ordine nascente, di un oggetto che sta comparendo, che sta coagulandosi sotto i nostri occhi.

 

Bella e perduta è un film su una figura splendida e triste, un pastore votato alla bellezza e morto sopraffatto dallo sconforto: per questo è l’elegia struggente di un piccolo eroe che si fatica a considerare perduto. A partire dalla battaglia di Tommaso, è anche una riflessione sull’abbandono di un’idea di Italia, di società civile e di cura collettiva, filtrata dalla presenza in scena di Pulcinella, servo trasformatosi in padrone compassionevole, e i pensieri di un animale (il bufalotto Sarchiapone) condannato anch’esso alla morte: una voce bianca, non scalfita dal tumulto della ragione, alla quale è concesso il privilegio dello stupore.

 

A raccontarla così fa onestamente un po’ paura: il rischio del ridicolo involontario, dell’agiografia, o semplicemente dell’accumulo di elementi della tradizione popolare, è in agguato. Ma se in qualche tutto si tiene, nonostante la dispersione del racconto, la poeticità fragile del testimone passivo, la presenza ingombrante di Pulcinella e il tono salmodiante delle voce over, è proprio grazie alla capacità di Marcello di mantenere viva la tensione fra immobilità e movimento, tra la fissità astratta della Reggia e il tempo cangiante e imprevedibile del reale. Il compianto per la bellezza lontana è stravolto dai cambiamenti imposti dal degrado; ma al tempo stesso il film trae la sua forza – la sua modernità e la sua importanza – dall’umiltà di ammettere l’impotenza della struttura, dall’onestà di accogliere il cambio di prospettiva, direzione e racconto.

 

Bella e perduta è un progetto aperto che si fa film nel momento in cui compare sullo schermo. Per questo rimanda all’idea di scorrimento, di cambiamento e sorpresa. All’opposto – mettiamo – di un’operazione come Lost in La Mancha, o di un making of di un film ancora da fare, non è la resa del cinema al fallimento di un’idea o all’incedere dell’imprevisto, ma al contrario l’adeguamento del pensiero alla forza generatrice del reale e della Storia. In maniera del tutto istintiva, la poetica di Marcello ha sia una componente inconsapevolmente religiosa (con la morte che non è fine, ma inizio di un’altra vita), sia una prospettiva più ottimista – anche se meno profonda e articolata – di quella ammessa da Miguel Gomes in As Mil e Uma Noites, in cui il regista portoghese fugge dal set e si fa interrare vivo dalla sua troupe, perché impotente di fronte alla maestosità del tempo e delle opere (anche nefaste) dell’uomo.

 

Il viaggio a piedi intrapreso in Bella e perduta da Pulcinella e Sarchiapone, in un meridione campestre inedito per questi tempi ma carico di rimandi al paesaggismo settecentesco, a un’idea neoclassica di rovina come vestigia e non come degrado e fallimento, è in assoluta controtendenza rispetto agli spostamenti e alle operazioni a somma zero di cui è pieno il cinema contemporaneo. Primo fra tutti, il tragitto fisico e narrativo di Mad Max Fury Road, che altro non è che un movimento elastico, un viaggio d’andata e uno immediato di ritorno che riporta al punto di partenza: un assoluto, anche inevitabile e per molti versi comprensibile, azzeramento della narrazione. Quello imbastito da Pietro Marcello è invece un viaggio che ritorna sui propri passi per non azzerare il senso delle proprie azioni, per riscattare la figura del padrone grazie all’umiltà del servo e salvare un animale innocente dalla macellazione.

 

La vita ovviamente si oppone alla morte, sia nella parabola a lieto fine del bufalotto, sia nella storia vera del pastore nobiluomo morto, ma resuscitato con estremo pudore dal cinema. La notizia dell’improvvisa scomparsa del pastore Tommaso (ovviamente per chi non ne conosce la storia triste e bellissima) nel film giunge come un colpo di scena, inattesa e ammantata da un alone di malinconia: nonostante i resoconti di cronaca televisiva, resta un evento inaccettabile, troppo scioccante per essere vero, dunque fittizio, filtrato dalla nebbia del racconto e dalla sua cornice slabbrata. Marcello ha il dono di trasformare la realtà in favola, e in questo modo di raccontare anche l’irraccontabile. Accostati e sovrapposti, documentario e finzione confondono i reciproci confini e si fanno complementari: non si disperdono, ma danno vita a una forma di racconto indefinibile (qualcosa di magico e antico, di popolare e di buffo che sta dalle parti dello stesso Gomes o di Ioseliani) che esiste di per sé.

 

Disposto al cambiamento, in ascolto dell’anima di un popolo, di una società, di un nazione raffigurata attraverso figure marginali ma resistenti (un pastore, un servo, un animale da allevamento), Bella e perduta offre al cinema la possibilità di riappropriarsi del tempo, dello spazio e della loro storia congiunta attraverso un lingua poetica e ingenua. Non è la risposta alla crisi identitaria di un Paese e nemmeno un lamento in morte di una civiltà. È la reazione di un’anima attenta e osservatrice all’incedere del buio e del divenire; è il tentativo di tracciare un cammino, o di ricostruire un’idea di passato, di fronte al progressivo sparire dei contorni di ogni oggetto o evento reale.

 

[1] Maurice Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, da Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 27-44.

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