Un film né capolavoro né fallimento / Vinyl, Città in fiamme e Giorni di fuoco

18 Marzo 2016

È molto probabile che Vinyl non sia il capolavoro che tutti aspettavano. Al tempo stesso, è altrettanto probabile che non sia nemmeno quel fallimento da molti decretato dopo il pilot dello scorso 15 febbraio. In generale, poi, è forse ancora più probabile che la grande stagione delle serie tv, come ormai va di moda dire, sia in via di appiattimento su standard medi, e che, ancora, la serialità televisiva abbia in qualche modo tradito la speranza di diventare la nuova forma romanzesca dei nostro tempi.

Tutto probabile. E forse ancora da dimostrare. Di certo, in questi primi mesi del 2016 si sono viste e lette alcune cose che, al di là delle riflessioni giuste e inevitabili sull’evoluzione di forme narrative popolari e mutevoli, confermano come la cultura americana sia da tempo ripiegata su due argomenti precisi: il passato e la città.

Il passato: gli anni ’70 soprattutto, ma in certi caso anche decenni più vicini, come ad esempio i ’90. La città: New York, ovviamente. Ma anche Los Angeles, vista la sedimentazione di storia, immagini, parole e racconti che definisce le due metropoli. 

Il passato come accumulo di residui di immaginario e frammenti di cultura; la città come scena ideale e privilegiata per una messa in discussione del rapporto fra la Storia e gli individui. 

 

Il primo frammento viene proprio dal pilot di Vinyl, serie a più mani ideata da Scorsese, Mick Jagger e Terence Winter che ricostruisce la scena punk-rock di New York nel 1974. Un momento derivativo, come tutta la serie, inevitabilmente – volutamente – condizionato dal precedente di Taxi Driver. Nella scena, il protagonista Richie Finestra, proprietario di una casa discografica sull’orlo del fallimento, si fa condurre dal suo autista oltre i quartieri rassicuranti che costeggiano il Central Park, dentro le strade di Harlem, fino alla casa di un vecchio amico che finge di non riconoscerlo: un momento abbagliante di memoria cinematografica condivisa, Scorsese si autocita, recuperando grazie al materiale di repertorio della New York anni ’70 (mescolato al camuffamento temporale delle scene girate ex novo) la grana grezza della pellicola e i colori sanguinolenti della fotografia di Taxi Driver. Le strade di Richie Finestra sono le stesse strade di Trevis Bickle, e Vinyl una inevitabile derivazione da un vecchio, grande film del passato, ormai sfuggito dalle mani del suo stesso autore ed entrato negli automatismi dello sguardo.

 

Scena della serie TV Vinyl.


C’è però una cosa che cambia leggermente la prospettiva e rende la scena in qualche modo diversa da un semplice trompe-l’oeil finto-vintage a uso costume del pubblico seriale: il fatto che Richie, mentre è seduto sul sedile posteriore dell’auto, ha gli occhi semichiusi, è strafatto e stanco, viaggia come un sonnambulo nella notte della città. La sensazione superficiale di immergersi non in uno spazio vero, ma in una versione iconizzata della metropoli americana anni ’70, è data proprio dal filtro dello sguardo del protagonista, dal fatto che ai suoi occhi la città si fa sogno, immagine riadattate e recuperata. La città come rifugio: rifugio di immagini, di modelli di rappresentazione, anche di modelli narrativi. Richie non è insonne come Travis, e nemmeno a caccia di avventura come un altro eroe notturno di Scorsese (questa volta in pieni anni ’80), l’impiegato Paul Hackett di Fuori orario. Richie sta dentro gli anni ’70 perché qualcuno ce l’ha messo, è una figura risaputa che si muove lungo lo scenario bidimensionale della Storia. 

Tutto ciò che sappiamo della musica rock anni ’70, tutto ciò che abbiamo mitizzato, esaltato, esecrato degli anni in cui il rock declinava e il punk rivoluzionava tutto, in Vinyl è presentato come materiale di repertorio, passato museificato o immagini piatte e non modificabili. A cominciare dalla colonna sonora, che sembra una libreria Seventies di iTunes; o dalla ricostruzione degli happening della Factory di Warhol; o ancora dai sogni in videoclip di uno dei personaggi. La musica, in Vinyl, è la materia di cui sono i fatti i sogni. Un sogno a strati, a scatti, uno scaffale su cui la scelta è troppo ampia per non essere parziale. Mentre la materia di cui è fatta della serie, è la materia di cui è fatta l’industria stessa, niente più e niente meno che il denaro. Solo attraverso la realtà grezza dello scambio, anche sessuale, Vinyl esce da una rappresentazione mummificata del passato, per entrare veramente negli spazio, nei tempi e nei luoghi di cui è fatta la Storia. La Storia come incrocio di desideri e interessi, calcoli e rivoluzioni. In tal senso, sì, le serie sono materia romanzesca, ridiscutono il rapporto tra senso collettivo ed esperienza individuale, scelte personali e onde collettive. La città, però, resta fuori, lontana, inavvicinabile, se non attraverso le immagini. La città come totem, come «vista cinematografico». 

 

L’espressione viene dal secondo frammento in cui tutto ciò – la riflessione sul passato e la modulazione di uno spazio urbano filtrato dalla finzione – diventa ancora più chiaro. Non una seria, ma un romanzo vero e proprio: Città in fiamme di Carth Risk Hallberg, da poco uscito per Mondadori (trad. Massimo Bocchiola) e lo scorso anno considerato dai critici americani fra i migliori libri del 2015. Gli occhi sono quelli di un giovane insegnante di colore, Mercer, arrivato nella metropoli dal vecchio sud, quando per la prima volta vede New York dall’alto, dal balcone di una grande casa dell’Upper West Side. L’anno è il 1976: 


«C’era una vista divina, cinematografica: la Città come lui l’aveva sognata dal suo insulso paese d’origine, lontano mille chilometri. Dalle neve emergevano, come immagini messe a fuoco in un televisore, palazzine merlate, finestre gialle inchiodate nel buio, la spolverata di zucchero a velo sulle torte a più strati degli hotel di Central Park South. Dall’interno delle nuvole sembrava provenire un leggero inquinamento, l’effetto secondario di qualche processo organico nascosto, come il calore prodotto dal sangue. A est, il Parco era una vasta cava scura. Gli architravi, le pergole e i gargoyle ammassati sopra le loro teste intercettavano quasi tutta la neve, ma lui si stupì che Regan, nel suo abito succinto, non avesse fretta di rientrare. Anzi, sembrava che lì, nella quiete, respirasse meglio. “Dovresti vedere quando è sereno”».

 

Scena della serie TV Vinyl.


Come Vinyl, anche Città in fiamme parla di anni ’70, rivoluzione punk, di una metropoli e della sua cultura a strati molteplici. Lo fa alla maniera del romanzo contemporaneo, narrativo, fluviale, articolato, e insieme concettuale, con l’idea stessa delle geometrie architettoniche di New York a offrire la struttura narrativa, a farsi contenitore di almeno tre storie intrecciate e decine di personaggi. In Città in fiamme c’è l’intera mappa della città a dettare l’ordine sociale del mondo rappresentato: l’aristocrazia finanziaria nell’Upper Side, il punk nelle vie luride del Village, gli artisti a Hell’s Kitchen e nel Bronx, la borghesia nei sobborghi di Long Island. Materia e materiale che si conosce da tempo e che si è vista e letta innumerevoli volte. La città pensata da Hallberg è gigantesca, tentacolare, per questo motivo, è stato scritto, ottocentesca: ma quando Mercer la guarda per la prima volta dall’alto, non è altro che un’immagine. Una «vista cinematografica».
Nei continui andirivieni narrativi, spaziali e temporali di Città in fiamme (una struttura a scacchiera sempre più presente nel romanzo americano, come dimostrato anche da Il figlio di Meyer) c’è il tentativo anche in questo caso di raccogliere il senso collettivo e insieme intimo di un passato comune, di un mondo di immagini e ricordi che appartiene alla cultura contemporanea. Il passato come reificazione del presente, il passato come storia ricreata; non falsata ma plasmata in base al proprio ricordo. La New York di Hallberg, realistica e documentata ora per ora, dalla notte del 31 dicembre 1976 al blackout del 13 luglio 1977, non è in realtà tanto diversa dalla New York, anche in quel caso vera, verissima, di Il cardellino di Donna Tartt: una città raffigurata fin nei minimi dettagli, con un’estenuante precisione di tempi e luoghi, che viene però stravolta da un evento clamoroso e inventato di sana pianta, l’attentato terroristico al Metropolitan in cui muore la madre del protagonista.

La città diventa scena ultra-realistica e proprio in virtù della propria complessità al microscopio, fra indicazioni geografiche e traiettorie individuali, si fa spettro di ipotesi narrative immaginarie. Il romanzo guarda lo spazio in una prospettiva quadridimensionale, ingoiando il tempo e lo spazio: ma quando guarda, vede un panorama di luci fasulle, un mucchio di edifici immersi nella nebbia. La gioia effimera di possedere la città dall’alto si sovrappone alla città stessa, ne fa la copia conforme nel momento in cui la guarda; e la scrittura si fa riscrittura in diretta. 

Non è un caso che Hallberg metta nel suo libro frammenti di lettere scritte a mano (anzi, meglio, riportate sulla carta con un font grafico che riproduce la scrittura a mano), collage di foto, pezzi di giornale, appunti e scarabocchi dal diario di una ragazza: l’immagine è prigioniera di milioni di altre immagini, Scorsese prigioniero del suo stesso cinema, e un romanzo come Città in fiamme volutamente invischiato nella rappresentazione impossibile di un tempo storico eternamente presente e della città come spazio da estirpare dai propri sedimenti culturali. 

 

Non tanto diverso, su un altro fronte del romanzo americano contemporaneo, è il terzo frammento, che viene da Giorni di fuoco di Ryan Gattis, recentemente pubblicato da Guanda (trad. Katia Bagnoli), anche in questo caso dopo il successo di critica negli Stati Uniti. Qui la cornice storica è più precisa ancora: Los Angeles, aprile 1992, i giorni della rivolta urbana che seguì all’assoluzione dei tre poliziotti responsabili del pestaggio di Rodney King. Dentro la cornice, decine di tracce narrative relative ai personaggi coinvolti negli scontri.
Gattis apre con la cronaca nuda e cruda, con “i fatti”: «Alle 15:15 del 29 aprile 1992 una giuria assolve gli agenti del Dipartimento di Polizia di Los Angeles Theodore Briseno e Timothy Wind…» e così via. Poi scandisce il tempo: Giorno 1, mercoledì. Poi scende ai personaggi, Ernesto Vera, Lupe Vera, Ray Vera… Dal macro al micro, compresa la narrazione in prima persona e il flusso di coscienza. La storia è lì, separata dal resto, anche dal colore scuro delle pagine, ma il romanzo non fa altro che inseguirla, abbordarla, circuirla, preoccupandosi di dettagli che la letteratura, forse, dovrebbe controllare. Come se la letteratura non si fidasse di se stessa, e della Storia ne testimoniasse la crudeltà e l’inconsistenza.
Ha dunque ragione Luca Briasco, sulle pagine del «Manifesto», a sottolineare che con Città in fiamme e Giorni di fuoco, «dopo una lunga sequenza di romanzi che hanno scelto di scandagliare l’America e le sue trasformazioni a partire dalla famiglia […] è come se […] lo sguardo autoriale tornasse ad allargarsi, guidato e sorretto da una fiducia quasi ottocentesca nella capacità di interpretare la storia, di colmare lo iato tra vicende individuali e moti collettivi». 

Il problema è che quello iato non può colmarsi. Per un problema di grandezza, per una diversa velocità del tempo, della scrittura e della città. In Giorni di fuoco, ad esempio, Los Angeles resta troppo grande da afferrare con le parole, troppo vasta per incasellarla in un ordine verticale o orizzontale, come le Street e le Avenue di New York. E questo l’ha capito soprattutto il Paul Thomas Anderson di Vizio di forma…. 

Restando nel campo del romanzo contemporaneo, la velocità sfasata tra metropoli e tempo individuale del romanzo di Gattis ricorda la Londra di NW di Zadie Smith (Mondadori, trad. Silvia Pareschi), opera in cui la cartina della metropolitana, così complessa e così precisa, si fa emblema di una mancanza di fiducia fra il personaggio e lo spazio urbano. Per la Smith il movimento rapido e inafferrabile della città, con il suo caos e la sua tecnologia di ferro e cemento, si oppone a quello infinitesimale delle percezioni emotive.
Come in questo passaggio, ad esempio:

 

“Un treno li superò a tutta velocità, catapultandolo sul sedile che stava per raggiungere. Per un po’ i due treni sembrarono procedere affiancati. Felix guardò il suo omologo sulla carrozza di fianco. Una donnina che avrebbe giudicato ebrea senza saper spiegare bene perché: scura, attraente, un sorrisetto dipinto in faccia, con un abito azzurro anni Settanta: colletto largo e un motivo di uccellini bianchi. Guardava la sua maglietta con espressione corrucciata. Cercava di decifrarla. A Felix venne spontaneo: sorrise! Un largo sorriso che accentuò le sue fossette e rivelò tre denti d’oro. Il faccino scuro della ragazza si tese come una borsa di rete. L’altro treno passò avanti, poi rimase di nuovo indietro.”

Nel movimento parallelo e poi discontinuo dei due treni, nel loro incrociarsi e poi distanziarsi, Zadie Smith sovrappone due ordini di tempo, due velocità, uno sguardo complessivo e uno soggettivo. Cinematograficamente, è come se girasse una scena due volte e poi sovrapponesse i due momenti. Nell’attimo dell’incontro, il romanzo rivela l’unione fra l’occhio, l’anima e lo spazio della metropoli. Ma è solo un attimo, per l’appunto, e per il resto la parola e lo spazio restano separati, e il tempo si dilata o si comprime rendendo possibile eppure vana ogni discesa nel passato alla ricerca di una Storia e di un’origine che abitano in realtà il regno dell’indicibile.

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