Film

7 Novembre 2011

27 Ottobre 2011

Almeno 15000 persone, giunte a Coriano (Rimini) fin dall’alba, hanno voluto salutare per l’ultima volta il giovane campione, Marco Simoncelli, morto in un incidente durante il Gran Premio di Malesia.

 

 

Piano sequenza

Osservazioni sul piano sequenza è un breve scritto di Pasolini sul cinema del 1967. Pasolini ne parla da filosofo, con estremo pudore, non solo per la sua incompetenza disciplinare, ma soprattutto perché i tempi erano più inclini ad altri approcci, di tipo linguistico e semiologico, e disdegnavano invece la filosofia, che puzzava un po’ di accademia e di reazione. Pasolini invece azzarda un parallelo tra il cinema e la vita e tra il film, che del cinema in senso lato è la concreta manifestazione, e la morte. “La morte – scrive – compie un fulmineo montaggio della nostra vita”. Il cinema, infatti, non smettiamo mai di farlo: lo facciamo semplicemente vivendo alla prima persona dell’indicativo presente – e in che altro tempo e modo del verbo potremmo d’altronde vivere? Che cosa è lo scorrere della nostra vita se non un interminabile piano-sequenza del quale “io” sono la sorgente assoluta? La vita è cinema perché la vita, in ogni momento, è come doppiata da un occhio virtuale, un occhio-obiettivo fotografico, che è il mio stesso occhio che vede quello che sta di fatto vedendo. Cinema-verità, se si vuole utilizzare una categoria della storia del cinema. E la morte, sempre istantanea, sempre fulminante, anche quando fosse lungamente incubata, come interviene su quel piano sequenza infinito che ciascuno di noi è? Non, semplicemente, interrompendolo, ma – ed è qui che Pasolini assesta un magistrale colpo filosofico – “montandolo”, rendendo attuale quell’occhio-obiettivo cinematografico che mentre vivevamo era solo potenziale: “ossia – continua Pasolini – (la morte) sceglie i suoi (della vita) momenti veramente significativi”. La morte realizza insomma un film, non per me che non me lo potrò godere, ma per l’Altro che mi sopravvive e per il quale la mia vita diventa dotata di significato: diventa una storia che merita di essere raccontata.

 

Le foto di Simoncelli e Senna

Difficile resistere alla commozione rivedendo le foto del giovane e simpaticissimo campione. Già viste prima, distrattamente, ritornano dopo la sua morte con la potenza del segno dotato di un significato assoluto. Veri e propri memorabilia di una vita breve ma interamente vissuta. I primi a rendersene conto sono i pubblicitari che, con l’alibi (ma, speriamo, anche con la buona fede) dell’omaggio postumo, ne hanno riempito le pagine dei giornali, preoccupandosi però di lasciare sempre ben in vista il marchio a suo tempo pubblicizzato. Chi sfoglia i giornali sportivi sa bene che la stessa operazione era stata fatta recentemente, e, questa volta, in totale e fredda consapevolezza, con una strepitosa foto di un giovanissimo Ayrton Senna in tuta da corsa nera e con un numero appeso al collo come avviene in una qualsiasi gara ciclistica per dilettanti. La morte, proprio come scriveva Pasolini, trasforma il piano sequenza della vita in film, produce un’opera di quello che, mentre la vita viveva, era soltanto un insieme casuale di avvenimenti e, con gesto veramente magico, riesce addirittura a convertire il nesso puramente temporale che lega gli eventi della nostra vita (nient’altro che un e poi… e poi…) in un nesso logico (se questo allora quello). Alzi la mano, infatti, chi, quasi fosse un riflesso istintivo, di fronte alla foto di Ayrton o a quella veramente struggente di Marco che sulla moto in corsa festeggia una vittoria allargando le braccia come un Cristo abbracciante, non è ritornato all’antica spiegazione che di quel fatto in sé assurdo dava il mito greco: “Piace agli dei chi muore giovane”. Il film, dopotutto, racconta una storia ed una storia non si racconta se non presupponendo la sua fine, di cui quello che viene prima deve essere necessariamente una causa.

 

Esercizio di morte

Attribuendo alla morte la capacità di “montare” la vita come un film, Pasolini, si diceva, parla da filosofo. Infatti se si legge Aristotele in greco si scopre che per indicare ciò che i latini chiameranno essentia o quidditas (in italiano: essenza), vale a dire il “che cosa veramente è” di un fenomeno, al di là delle sue “apparenze” sensibili, Aristotele usava una formula complessa che tradotta letteralmente suona “ciò che era essere” (la si ritrova identica nella difficile prosa di Hegel). La filosofia, insomma, come la morte, opera una specie di trasfigurazione funebre della vita. Per coglierla nel suo significato (essenza) deve farla sprofondare nel passato. Finché la cosa infatti è, all’indicativo presente del piano sequenza infinito, il nostro sapere è incerto. Come potremmo dire, ad esempio, che un uomo è felice? La disgrazia potrebbe sempre coglierlo all’improvviso e mutare tutto. Bisogna attendere che non sia più perché ciò che è veramente stato appaia finalmente in piena evidenza (obiettivamente). Il montaggio del film lo fa la morte. Per questo e per nessuna altra ragione il maestro di Aristotele, Platone, diceva che la filosofia è “esercizio di morte”. 

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