Cembra / Paesi e città

15 Luglio 2011

Da ragazzo, guardando dal poggiolo verso il fondo della pianura, incontravo con lo sguardo solo la casa di un elettricista, che di sera restava l’unica luce accesa verso sud ovest. Di lì in poi, duecento metri più avanti, il pendio riprende a scendere fra i vigneti che arrivano fino all’Avisio, torrente nascosto, lontano, che scorre sul fondo segnando questa terza valle dopo aver solcato a monte quelle più fortunate di Fassa e di Fiemme. Sul finire degli anni Settanta la pianura, ora ricoperta di case, era coltivata per lo più a granturco, mentre il paese si concentrava dall’altra parte, verso la montagna. Dunque, i monti, le case a mezzacosta, la piana che gli abitanti chiamano ancora “Campagna rasa” e infine il luogo di una fatica pressoché priva di evoluzione: il ripido versante che scende con pendenze inesorabili verso il fondo, tutto ricoperto di vigneti al punto da non aver conservato quasi nulla del paesaggio naturale, un versante conquistato nei secoli al lavoro con la costruzione di più di cinquecento chilometri lineari di muri a secco su un’estensione, quella dell’intera valle, che ne misura a stento trentatré. Il panorama di questi manufatti, la testimonianza dello sforzo compiuto dagli abitanti per sfuggire alla miseria, si imprime nella memoria senza intenzione; chi ci vive la assume poi come un dato reale, trasformandola in costume. Qui il lavoro non si è meccanizzato: se si eccettua l’innovazione dei mezzi di trasporto agricoli e quella degli impianti centralizzati, la novità più rilevante per agevolare l’intervento nel vigneto si è rivelata forse la sostituzione del legno con la plastica. In questi terrazzi, stretti fra un muro e l’altro, gli abitanti ripetono ogni giorno a se stessi gli interrogativi della realtà rurale.

 

D’inverno, tutti questi muri si mostrano nudi, sotto la neve che copre le vigne e il terreno, strisce nere che solcano in orizzontale la valle come isoipse (o livelli di uno scavo stratigrafico della fatica), quasi al punto da poter dire che il territorio porta incisa nel corpo la propria carta geografica, oltre che la propria storia. Qui non c’è mai stato grande spazio per l’avventura, non c’era nulla di segreto. I ragazzi la cercavano fuggendo in bici, più tardi in moto, sulle strade che attraversavano i campi di mais vicino alle abitazioni, fra i meli, oppure più a monte, ai margini dell’abitato, sui sentieri di montagna o sulle vecchie strade carraie abbandonate, ma soprattutto nei tanti cantieri edili che allora si aprivano ovunque e che avrebbero coperto quel che restava della pianura. In queste case in costruzione, arrampicandosi sulle impalcature a dispetto di ogni normativa, si incontrava davvero uno spazio indefinito, non del tutto rivelato, uno spazio in corso d’opera che forse poteva corrispondere alle aspirazioni di allora. Lì il territorio era davvero ancora tutto da esplorare. Di fronte al paese, sull’altro versante – come pure, da qualche parte, anche a monte – le cave di porfido avevano aperto il fianco delle montagne facendo crescere i centri abitati, con maggior forza a partire dalla fine degli anni Sessanta, invitando a tornare chi era emigrato in Svizzera, in Belgio o in Germania.

 

L’evidenza di ciò che conta in questa terra finisce per confondere: è difficile prescindere dai suoi limiti materiali, che mostrano come sia stato necessario trasformare il paesaggio per produrre il vino – oggi in primo luogo il Müller Thurgau – e per estrarre il porfido. Tuttavia lo spazio più vivo lo si dovrebbe cercare fra le nuove costruzioni, al di là dei colori copiati dalla riviera ligure, o in qualche strada di campagna asfaltata da poco, nelle ringhiere dei camminamenti. Forse è proprio per la necessità di conservare il paesaggio rurale dei vigneti, decisivo per le sorti della comunità, che molti quando possono cercano di creare vicino a casa loro, o con la loro stessa casa, l’immagine di un altrove lontano dal contesto, immagine rotta talora da qualche espressione più consapevole. In un rapido giro per le strade nuove si possono vedere dettagli da cui si coglie la volontà tesa verso un traguardo che possa spezzare, anche solo in apparenza, il vincolo di continuità generazionale, che possa produrre un compenso simbolico per i sacrifici che non sembrano mai ripagati e che forse non lo sono. Sui tetti delle case, fra le antenne paraboliche, ritorna invece la saggezza contadina, con molti pannelli solari e fotovoltaici.

 

Anche questa terra, come tutte le altre, non basta mai a se stessa: non bastava un tempo, quando partivano gli emigranti, o i distillatori clandestini; non è bastata a chi scendeva in corriera fino a Trento, per frequentare le scuole superiori e l’università e non basta neppure oggi, che accoglie macedoni e maghrebini, arrivati per impiegarsi nel settore del porfido e raggiunti in breve dalle loro famiglie.

Più in alto, la montagna sopravvive rimboschita dopo la scomparsa di mucche e capre dai cortili del paese, presenze abituali fino agli anni Sessanta del Novecento e sui sentieri, oltre alle baite, resta solo il confronto personale con un ambiente in cui misurare i propri limiti. D’estate vi si incontrano molti camminatori, spesso di lingua tedesca, che attraversano queste montagne in un percorso che li porta dal Lago di Costanza fino a Venezia, ma nonostante tutto, partendo da Cembra, l’immagine migliore resta forse quella della valle che prosegue scendendo verso la piana che conduce a Trento, verso altre strade, ponti e altre promesse.

 

Un tardo pomeriggio dei primi anni Ottanta, seduti sul poggiolo di una casa in rovina, destinata da poco alla ristrutturazione, io e due amici osservavamo il solco della valle snodarsi tortuoso verso ovest. Come detto, cantieri allora ce n’erano ovunque. Ci eravamo arrampicati fino lì per saltare sugli enormi mucchi di sabbia fatti accumulare dall’impresa nel cortile prima dell’inizio dei lavori. Di lì a poco non sarebbe più stato possibile entrare; non solo, la casa stessa, almeno nella forma che avevamo conosciuto, sarebbe scomparsa. Rivedo ancora il grande mucchio scuro, formato dai cumuli diversi scaricati dai camion a più riprese, mucchio destinato anch’esso a sparire dai cantieri, con l’evoluzione delle macchine edili. Giunto il momento buono, davanti al crepuscolo, ci dicemmo che per quella volta non era il caso di saltare ancora e restammo a pensare a dove saremmo finiti, un giorno o l’altro; poi rientrammo in casa e scendemmo per le scale, quasi al buio.

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