Speciale
Paesi e città. Lucca
Lucca è città medievale appartata, gelosa ancora oggi della propria indipendenza storicamente mantenuta, come repubblica, principato, ducato, fin quasi all’unità d’Italia. Il centro medievale intatto, su cui svetta la torre coronata di lecci dei Guinigi, è protetto da possenti mura rinascimentali, mai utilizzate a scopo difensivo, quasi simbolo del grande riserbo dei lucchesi. Tu vedi lunge gli uliveti grigi | che vaporano il viso ai poggi, o Serchio, | e la città dall'arborato cerchio, | ove dorme la donna del Guinigi. A raddoppiare oltre le mura le difese, cinge Lucca insieme al suo contado una cerchia di colline olivate che si fanno rapidamente montagne: i monti Pisani, gli Appennini, le Alpi Apuane.
Non si sa bene se le origini della città siano liguri o etrusche. Il toponimo stesso ha etimologia incerta: forse la radice è celto-ligure, luk, luogo palustre; forse è indoeuropea, leuk, luminosa radura in mezzo ai boschi. Quel che è certo è che il primo insediamento sorgeva su un’isoletta del Serchio, fiume dal corso plurimo che inondava tutto il territorio fin quando san Frediano, vescovo del V secolo cui è dedicata in centro una meravigliosa basilica romanica, non diede il via a imponenti bonifiche. Circola ancora il detto: È costato più del Serchio ai lucchesi. Oggi la piana è ricca d’acqua che corre in canali, fossi e fossetti, grazie ai quali è coperta di verde in tutte le sue forme, prati, frutteti, campi di granoturco, vaste pioppete di gattici, filari d’uva, pioppi neri e salici, più in alto distese di olivi, vigne, fitti boschi di acacie e di pinastri, tanto da tingere a volte la luce diurna di un riflesso fresco, fluviale. Acqua che corre usata dai lucchesi non solo per coltivare la terra ma per fabbricare la carta: già nel 1307 nasce la Corporazione dei Cartolai, dediti alla produzione di carta pergamena e libri mastri; a metà Cinquecento Vincenzo Busdraghi trasforma un vecchio mulino nella prima cartiera, nel Settecento viene inventata la carta paglia. Oggi il distretto cartario lucchese è il più importante d’Europa.
Acqua che corre. Lucca ha avuto per più di mille anni, fino praticamente a ieri, un porto fluviale che consentiva di raggiungere in barca la costa tirrenica. Più volte ho pensato quanto sarebbe bello poter arrivare così a Marina di Vecchiano: salpare con un barchino dall’antico porto sotto le mura rinascimentali e navigare prima sul Formica e poi sull'Ozzeri fra le ville storiche di Gattaiola e il castello di Nozzano, imboccare il Serchio sotto la rocca di Ripafratta e seguire il corso del fiume tra canneti e girasoli; a Vecchiano fermarsi a salutare Tabucchi, anche se non c'è più, e infine perdersi in mare perché Nuestras vidas son los ríos que van a dar en la mar.

Dai raffinatissimi etruschi Lucca potrebbe aver ereditato, oltre agli splendidi gioielli d’oro ritrovati in una tomba sulle rive del torrente Ralletta (a pochi metri dalla casa di mia nonna, ancora non me ne capacito), il cosiddetto garbo, che secondo il Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, significa «belle maniere, compitezza, cortesia, eleganza disinvolta»; tanto che nelle altre province toscane è diffuso l’adagio: «Vai a Lucca e impara il garbo». O forse lo diciamo noi lucchesi per lusingarci. E tuttavia è innegabile che la città mostra più cura di sé di altri capoluoghi vicini, e un sindaco viene giudicato anche da come tiene i fiori delle aiuole e il verde pubblico, i meravigliosi viali di tigli centenari che si irradiano dall’arborato cerchio in tutta la provincia (negli ultimi anni assai malamente potati, ahimè, quando non capitozzati o abbattuti). Sempre al garbo si può forse legare una certa tendenza al tatto, alla cautela, alla diplomazia, almeno rispetto al resto dei maledetti toscani. Nessuno alza mai la voce. Comunque io sto coi frati e zappo l’orto, concludono i lucchesi dopo aver espresso una qualche critica, sempre piuttosto pacata, al loro convento, qualunque tipo di convento esso oggi sia.
Ai liguri, ruvide tribù apuane che scendevano dalle montagne del marmo sulla piana, si fa risalire una certa tendenza all’oculatezza dei lucchesi, che a carnevale per risparmiare tirano i coriandoli con l’elastico, o almeno questo giurano i viareggini, gente di porto che sa come divertirsi. L’oculatezza, d’altro canto, ha favorito il risparmio e con esso la nascita di banche e fondazioni, tra cui la Banca del Monte di Lucca, una delle più antiche al mondo, istituita come Monte di Pietà il 25 maggio 1489 per combattere l’usura secondo gli insegnamenti del Beato Padre Bernardino da Feltre. Perché Lucca è città religiosa (di baciapile, accusano i pisani) come dimostrano le cento chiese presenti dentro le mura, e di princìpi e di costumi austeri, tanto che nel Cinquecento accolse con favore la riforma protestante e non consentì mai l’insediamento di un tribunale dell’Inquisizione, anche se poi molte famiglie “eretiche” scelsero l’esilio volontario a Ginevra, dove comunque erano già di casa per la loro attività di mercatura. A partire dal Duecento, infatti, Lucca si era data a produrre sete ancor più preziose dei tessuti orientali: dagli zendadi, finissimi scialli femminili, a stoffe intessute d’oro per le vesti dei principi e dei papi. I mercanti lucchesi si erano spinti a venderle nelle piazze e nelle corti di tutta Europa: i Cenami a Parigi, i Deodati a Lione, i Balbani ad Anversa e a Londra, gli Arnolfini a Bruges... Forse qualcuno ricorderà lo splendido Ritratto dei coniugi Arnolfini, con lo specchio convesso sulla parete alle spalle della coppia, del maestro fiammingo Van Eyck.
A partire dal Quattrocento le grandi ricchezze accumulate vendendo sete furono investite dai mercanti nel contado, sulle prime colline, costruendo ville sfarzose con giardini all’italiana, e bei casali dove alloggiavano i contadini a mezzadria, e poderi che dovevano fornire al padrone in città vino e olio, e frutta e verdura, polli, conigli, maiali. Il contado lucchese, contrariamente a quello di capoluoghi vicini, non ha visto latifondi: storicamente parcellizzato in campi e campetti, piccoli oliveti, minuscole vigne, offre una varietà che, oltre a essere una gioia per gli occhi, si cerca adesso di valorizzare nella produzione di vini di terroir da vigneti storici.

Là dove villeggiavano i mercanti o dove faticavano i mezzadri oggi troviamo sempre più spesso tedeschi, inglesi, olandesi, americani e russi, oltre a milanesi arrivati da Forte dei Marmi, che comprano le proprietà per trascorrervi piacevolmente i mesi estivi, per di più a un passo dal mare, e qualche settimana nella bella stagione, quando non expats che le abitano tutto l’anno tranne che nel piovoso inverno. Lucca è sempre stata parte del Grand Tour – John Ruskin dipingeva la chiesetta di Pozzuolo all’acquerello – ma nulla aveva preparato i lucchesi a una tale invasione di acquirenti internazionali, che ha scosso il mercato immobiliare fino nel centro storico, insieme al dilagare degli affitti brevi, complice un aeroporto che collega la vicina Pisa, a prezzi modici e più volte al giorno, con tutte le capitali europee. Ancora più inaspettata, e particolarmente contronatura per i riservati lucchesi, è l’aggressione dell’overtourism a una città che, come scrive Tobino, nonostante i marmi è un villaggio.
L’immigrazione di lusso degli expats sembra quasi il contraltare dell’emigrazione forzata che Lucca ha conosciuto a partire da metà Ottocento. Poveri ma con un’antica tradizione di viaggi, organizzati nel paese d’arrivo in piccole comunità accoglienti, sono partiti più emigranti da Lucca che da tutto il resto della Toscana. In queste mura non ci si sta che di passaggio. / Qui la meta è partire. / Mi sono seduto al fresco sulla porta dell’osteria con della gente / che mi parla di California come d’un suo podere, scrive Ungaretti, figlio di emigranti lucchesi ad Alessandria d’Egitto. Semplice manodopera, braccianti agricoli, taglialegna, figurinai, perfino balie, hanno cercato una vita migliore soprattutto negli Stati Uniti e in Argentina. Molti di loro hanno fatto fortuna, tanti sono tornati e ritornati per poi quasi sempre ripartire. La sera del 13 settembre, quando Lucca si veste a festa con una suggestiva luminara per celebrare il Volto Santo, delegazioni dei “Lucchesi nel mondo” sfilano orgogliosamente in processione, ciascuna col suo stendardo azzurro dalle scritte oro: Glasgow, Londra, Edimburgo, Liegi, Bruxelles, Ginevra, Basilea, Berlino, Toronto, Vancouver, New York, San Francisco, Chicago, St. Louis, Washington D.C., Buenos Aires, Córdoba, Rosario, Mendoza, Salta, Tandil, La Plata, San Paolo, Rio de Janeiro, Porto Alegre, Curitiba, Lima, Montevideo, Adelaide, Sidney, Melbourne, Perth, Wellington, Johannesburg, Cape Town, Bangkok... Forse è così per tutti, qualunque sia la città dove si è nati, certo nessun lucchese se n’è mai andato lontano senza pensare al ritorno. Pietro Fatinelli, nel Cinquecento, scriveva dall’esilio in un sonetto: S'io veggio in Lucca bella mio ritorno, / che fi' quando la pera fie ben mezza, / in nullo cuore uman tant'allegrezza / già mai non fu, quant'io avrò quel giorno. / Le mura andrò leccando d'ogn'intorno / e gli uomini, piangendo d'allegrezza.
Mi accorgo solo adesso di non aver parlato della bellezza di questa città e delle sue campagne, una bellezza da primitivi toscani o da preraffaelliti. Perdonatemi, è pudore lucchese.
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