Io sto con la sposa

19 Maggio 2014

“Ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza.
La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti”
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri


La questione della bontà delle nostre azioni e della cattiveria di quelle degli altri è una questione antica, ripresa da moltissimi pensatori e filosofi, non ultimo Friedrich Nietzsche  che in Umano, troppo umano spiegava come la continua attribuzione dell’immoralità agli altri (per essere noi i giusti e i dotati di bontà) fosse causa stessa di conflitto.

 


Susan Sontag aggiunge un pezzetto al ragionamento del filosofo: uno dei grandi strumenti di deresponsabilizzazione è la compassione. Se io soffro con te, non posso essere stata la causa del tuo dramma.
E’ su questo meccanismo che si fonda il nostro rapporto con una delle più grandi tragedie silenti degli anni 2000: le morti di migranti nel tentativo di esercitare un diritto sacrosanto, ossia il diritto alla mobilità, e la possibilità di scegliere dove vivere, o più semplicemente dove andare.


E’ di pochi giorni fa il video di Repubblica che mostra in esclusiva il recupero da parte dei sommozzatori dei corpi rimasti in mare dopo il naufragio del 3 ottobre. Il bilancio finale è stato di 363 morti, che si sommano a formare quei 19720 di cui si ha notizia (l’ultimo naufragio è del 12 maggio, con 17 cadaveri e 100 dispersi).

 

 

Il video annuncia che la visione potrebbe urtare la nostra sensibilità. E la urta, perché le immagini sono le immagini di quello che si rimuove: la morte vera, il mare. E ci riempie di compassione, e ci assolve, oltre che declamare la nostra impotenza, tramite la dimensione quasi pornografica della visione. Perché i corpi morti sono un rimosso dell’Occidente, e ne mostriamo la realtà solo per indignare, per compatire e per assolverci. Lo facciamo con le guerre, e con le tragedie.


In fondo, il passaggio importante non è quanto ci commuovono quelle icone, ma quanto ci assolvono. Per questo ci interessano i morti e non i vivi. Per questo l’allora prima ministro Letta aveva offerto la cittadinanza onoraria ai migranti morti, e non ai sopravvissuti.


Tra questi, tra i 155 che sono arrivati a riva, che sono stati mescolati ai morti perché stremati e affaticati, c’era anche un mio amico. Si chiama Abdalla, ha la mia età,  viene da Yarmouk, il campo profughi non ufficiale più grande della Siria. Abdalla è siriano palestinese, apolide. Non ha mai avuto un passaporto. Yarmouk è stata la casa dei palestinesi siriani a partire dal 1957. Se  c’è un posto da cui scappare oggi quello è la Siria. Se c’è un posto della Siria diventato celebre per l’assenza di cibo e acqua, quello è Yarmouk.

 


Si scappa via mare. L’Europa, compassionevole, sempre grazie all’idea dell’assoluzione, ha istituito un meccanismo di accoglienza per richiedenti asilo differenziato. Ogni Stato ha stabilito quote, in base alla “capacità” recettiva. Inoltre, ogni Stato offre un differente trattamento ai richiedenti asilo siriani. La Svezia ha scelto un piano di aiuti particolarmente articolato: accoglienza, dimora, sussidio economico, tempi di concessione del permesso e di acquisto di cittadinanza più brevi, possibilità di ricongiungimento familiare. Se fossi una siriana, vorrei andare lì. E questo è quello che ha pensato anche Abdalla. La questione vera è il come: perché se è noto il meccanismo di ingresso in Europa tramite gli sbarchi (con rischi vitali incredibili e un costo che si aggira attorno ai 3000 dollari), giungere a Lampedusa significa trovarsi nel punto d’Europa più lontano in assoluto dalla destinazione scandinava. Gli accordi di Dublino prevedono inoltre che i richiedenti asilo debbano essere identificati all’arrivo, con impronte digitali, e che possano fare richiesta solamente in un paese europeo, quello della loro identificazione.

 

Se la prassi formale sarebbe questa, nella pratica sono moltissime le persone che transitano senza essere identificate, per non oberare le strutture d’accoglienza del primo paese d’arrivo e permettere la mobilità interna illegale. Così, arrivato a Lampedusa, Abdalla è stato trasferito senza essere identificato al Centro di accoglienza di Pozzallo, dal quale è uscito senza farvi ritorno. Da lì, ci sono tassisti abusivi e pullman che, pagati, trasportano fino alla prima stazione, e poi treni che salgono fino al nord. Da Milano, poi, centro nevralgico dal quale sono passati moltissimi siriani nell’ultimo anno, è possibile intercettare dei passeur, trafficanti che per una cifra che si aggira attorno ai 1000 euro trasportano persone promettendo la Svezia, molto spesso bloccati alla frontiera, o il più delle volte, truffatori che giunti a Lugano o a Innsbruck spacciano Svizzera e Austria per Svezia.  

 


La mobilità interna prevista da Schengen per i cittadini e le cittadine dell’Unione Europea impedisce la stessa possibilità ai soggetti presenti sul territorio che vedono impossibilitato il proprio accesso a diritti che ci sono, che li tutelano, ma a 3000 km di distanza. Non basta il lungo passaggio in mare, è necessaria un’ulteriore umiliazione, esporre le persone al racket, al traffico illegale e a rischi che potrebbero essere rapidamente risolti con una revisione degli accordi di Dublino.


Per questo, la compassione non è il sentimento giusto. Perché noi siamo soggetti politici, e il non farci carico delle questioni europee perché riguardano “gli altri” per i quali ci commuoviamo è ipocrita, e immorale come le azioni per le quali ci indigniamo.


Per questo, un gruppo di folli ha deciso di cambiare registro. Non più la lacrima come veicolo politico, deresponsabilizzante, ma la festa come strumento di battaglia. Disobbedire con sorrisi, abiti di gala, e situazioni rocambolesche. Perché nulla è più potente per esorcizzare la morte e la sofferenza, di un legame festoso.
Non stare da questa parte, e compatire, ma stare dalla parte giusta. Con la sposa.
Io sto con la sposa nasce così.  

 


Un poeta palestinese siriano (Khaled Soliman Al- Nassiry), un giornalista italiano (Gabriele del Grande)  un regista montatore (Antonio Augugliaro) incontrano a Milano cinque palestinesi e siriani sbarcati a Lampedusa in fuga dalla guerra (tra cui Abdalla, ma anche Manar, Abu Manar, Mona e Abu Nawar), e decidono di aiutarli a proseguire il loro viaggio clandestino verso la Svezia. Per evitare di essere arrestati come contrabbandieri però, scelgono di mettere in scena un finto matrimonio coinvolgendo un'amica palestinese che si traveste da sposa, e una decina di amici italiani e siriani abbigliati da invitati. Io sono stata invitata e ho deciso di partire. E così bardati, abbiamo attraversato mezza Europa, in un viaggio di quattro giorni e tremila chilometri.


Io sto con la sposa è un film, è un documentario, è la storia di una mascherata che ha dell'incredibile, ma che altro non è che il racconto in presa diretta (girato da Antonio Augugliaro, Gianni Bonardi, Marco Artusi e Valentina Bonifacio) di una vicenda realmente accaduta sulla strada da Milano a Stoccolma tra il 14 e il 18 novembre 2013.


Per essere distribuito, per portare il suo messaggio, Io sto con la sposa ha bisogno di un sostegno finanziario. Dal basso. Per essere noi, e non “gli altri”. Per non compatire, e non essere impotenti, ma per prendere parte ad un’azione collettiva. Piccola, per una volta spensierata. Perché dopo tutto, partire significa scegliere di vivere, e cercare di essere felici.


Io sto con la sposa, e tu?

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