Oscar Tuazon: arte come abitare

24 Giugno 2012

Arte e architettura si incrociano spesso sullo stesso terreno e se i principi che regolano la prima sono labili e mutevoli, quelli che dovrebbero regolare la seconda sono dettati da ragioni specifiche e contingenti: organizzazione dello spazio e necessità di adattamento dell’uomo all’ambiente. Principi che dovrebbero andare di pari passo, ma la cui relazione è talvolta smentita e scardinata da artisti che prendono in prestito le forme dell’architettura e ne privilegiano l’espressione estetica a scapito dell’utilità, o viceversa realizzano opere con una forte connotazione funzionale. La mostra di Oscar Tuazon, in corso presso la Fondazione Giuliani a Roma, vive questa ambivalenza indagando il rapporto tra funzionalità ed estetica e le possibilità di far coesistere scultura, design e architettura.

 

Oscar Tuazon/Elias Hansen, “Untitled” (Kodiak Lamp), 2008, legno, corda, vetro, lattina, 94 x 27 cm. Collezione Giuliani, Roma. Foto di Giorgio Benni.

 

Come artista Tuazon si muove dall’arredamento all’ambiente, riassembla materiali di recupero e crea soluzioni per inutili oggetti o luoghi inaccessibili. Tuazon è originario di Seattle, ma la sua formazione è newyorchese, legata alla Cooper Union, e spazia dagli studi artistici a quelli architettonici. A New York ha appena preso parte alla Biennal of American Art del Withney Museum, con The Hire, un progetto di sculture modulari in cui elementi minori dell’architettura – scale o box doccia – sono trasformati in elementi strutturali.

 

In questo percorso romano, Tuazon sceglie di presentare, accanto ai suoi, i lavori di artisti progettisti e architetti che esprimono l’ambivalenza tra funzionalità ed estetica: Scott Burton (1939-1989), Jackie Ferrara, Beau Dick, Martino Gamper, Peter Fend, Bruce Goff (1904 – 1982).

Artista americano prestato all’architettura e al design di interni, Scott Burton è celebre per le sue sedute scultoree. A lui è dedicato il titolo della mostra e una delle opere di Tuazon, perché punto d’ispirazione di questo percorso visivo e della riflessione che ne sta alla base: “L’essenza di una sedia è che quando la stai usando non la stai guardando”. Table 1 (1973) è l’opera di Burton esposta: un objet trouvé dalle forme essenziali, poco più di un semplice tavolino.

 

Scott Burton by Oscar Tuazon, veduta della mostra presso la Fondazione Giuliani, Roma, 2012. Scott Burton “Table 1”, 1973, rovere verniciato: oggetto trovato alterato dall’artista, 54 x 53 x 45 cm. Courtesy Meulensteen, New York. Foto di Giorgio Benni.

 

Seguono i progetti degli anni ottanta e quelli più recenti di Jackie Ferrara per le furniture da giardino, come Courtyard (1981), Belvedere (1988) o Bench House (1987). Sofisticate sedute o passaggi in legno progettati per ambienti definiti, un passo oltre il design, e in antitesi con le sedie scultoree e nichiliste di Burton. Per Martino Gamper, figura in bilico che ha fatto del limite tra design e arte visiva il suo terreno privilegiato d’azione, la sedia diventa, con leggerezza dadà, supporto per una piccola libreria d’arte: Chair Shelf (2008).

 

Scott Burton by Oscar Tuazon, veduta della mostra presso la Fondazione Giuliani, Roma, 2012. Martino Gamper “Chair Shelf”, 2008, trucciolato melaminico e mobili riutilizzati, 143 x 49 x 45 cm. Courtesy Nilufar, Milano. Foto di Giorgio Benni.

 

Cambiando registro, l’asserzione caustica e irriverente di Bea Schlingelhoff: Fuck the participant, ricorre ad un’estetica sprezzante del suo pubblico. La potenziale perfezione del linguaggio digitale è smentita dall’approssimazione dell’immagine. L’opera dal sapore punk avrebbe voluto essere il titolo della mostra. Lo sguardo prosegue sulle terribili e sofisticate maschere di Beau Dick. Untitled (2009) e Shaman (2009) sono oggetti d’uso della tradizione rituale e quotidiana Kwakiutl, un gruppo di tribù indiane d’America. Le loro fattezze sono impressionanti e richiamano ad una condizione primordiale d’esistenza.

 

I collage di Peter Fend, Über die Grenze: May not be seen or read or done (2012), sono tabelle grafiche ostentatamente artigianali; ricordano gli schemi delle ricerche delle scuole superiori realizzate con cifre e ritagli e ci parlano di risorse energetiche alternative, di mappe territoriali e di rapporti di potere. Questi collage tracciano delle linee guida, delle ipotesi di applicazione reale delle opere d’arte, come ad esempio la ruota di Duchamp. Tuazon considera questi progetti l’opera più “positiva” di tutta la mostra.

 

Bea Schlingelhoff, “Untitled”, 2012, serigrafia a due colori su carta 200 x 150 cm. Foto di Giorgio Benni.

 

La oscillazione tra l’arte e le sue possibilità di uso, immaginate, attuate o negate, si conclude con il richiamo alla visionaria – ed estremamente reale – Bavinger House (OK). Si tratta di un progetto abitativo degli anni cinquanta realizzato da Bruce Goff (1904-1982), a partire dalla scelta del sito e dall’utilizzo dei materiali del luogo stesso, su commissione di Nancy e Eugene Bavinger, artisti che l’hanno poi materialmente costruita. Significativo esempio di architettura ecologica, la casa è stata vissuta per decenni dal 1955, vivendo fasi alterne di abitazione, meta turistica, abbandono. Sebbene la Bavinger House sia attualmente chiusa al pubblico, negli anni la sua straordinarietà ha attratto folle di visitatori, rendendo necessario un recupero degli ambienti e una organizzazione delle visite.

 

Se le sedute di Jackie Ferrara esistono realmente, come la mensola di Martino Gamper, e la Bavinger House, l’utilità è invece retaggio di una tradizione nelle maschere di Beau Dick, poco più che feticci, e in potenza nei progetti di Peter Fend.

 

A questo ventaglio di opere di artisti di generazioni, linguaggi e stili differenti, Tuazon affianca le sue. Scott Burton (2012): sedile di cemento, libera interpretazione dell’opera di Burton, Pair of two-part chairs (1984, Withney Museum, NY), a cui sembra alludere anche il titolo delle Two possible chairs IV (2012), poltrone in pelle; The facts (2012), monumentale panca in cemento con modulo d’acciaio e neon alle spalle, che evoca quella progettata da Burton per il Massacchussets Institute of Technology. Oppure le due sculture composte da materiali di riuso Untitled (Kodiak Lamp) e Untitled (Kodiak Staircase), entrambe del 2008, rispettivamente una lampada non funzionante e una scala inaccessibile. Mentre la mostra si chiude sul grande contenitore in acciaioFormerly… (2012), opera dal titolo insolitamente esteso che evoca una potenziale funzionalità.

 

Oscar Tuazon, “Scott Burton”, 2012, cemento, 106 x 50 x 86 cm. Foto di Giorgio Benni.

 

Oscar Tuazon si lascia così andare al gusto per le costruzioni inutili, e si fa da parte cedendo il passo alle arti dell’architettura e della decorazione senza cadere nella dispersione dei linguaggi e degli stili, ma mantenendo una propria forma e una propria identità. Entra tuttavia in un solco battuto da secoli. Una questione, il dialogo tra utilità-estetica, arte-architettura-design, su cui molti artisti si sono interrogati e ancora oggi si interrogano e tocca la questione ontologica dell’arte.

Guardando ad esempio all’Italia il pensiero cade immediatamente su maestri come Bruno Munari che riassunse il binomio tra utilità ed estetica nella “logica forma”, solo per citarne uno e senza tornare troppo indietro nel tempo. Ancora - attingendo alla tradizione anglosassone – la declinazione anarchica dello Splitting (1974) di Gordon Matta Clark (1943 – 1978) o del suo Conical Intersect (1975). Proseguendo si potrebbero ricordare le sedie in equilibrio precario della coppia di artisti Peter Fischli e David Weiss (1946 – 2012): Equilibre/Quiet Afternoon (1984).

 

Oscar Tuazon, “Two Possible Chairs IV”, 2012, steel, oak, leather/acciaio, quercia, pelle, 50 x 61 x 60 cm. Foto di Giorgio Benni.

 

Mentre nella tradizione anglosassone per Oscar Wilde l’utilità pratica e quella spirituale non potevano coincidere, fino ad affermare che: “L’unica scusa per colui che fa una cosa inutile è che egli l’ammiri intensamente”, arrivando a concludere che: “Tutta l’arte è completamente inutile” (The Picture of Dorian Gray, 1890). Tuttavia qualche decennio prima, proprio in Inghilterra, la dialettica tra teoria e pratica, quella relazione tra cultura e vita che avrebbe caratterizzato la modernità, era stata alla base della nascita dell’Arts and Crafts Movement, legato alla figura di John Ruskin e, successivamente avrebbe costituito il perno dell’opera di William Morris per il quale era responsabilità dell’artista rendere il mondo un posto migliore in cui stare. Movimenti, questi, che si legavano alla necessità di restituire umanità ai prodotti industriali, spersonalizzati e seriali, e di risollevare la dignità artistica di oggetti di manifattura. Lo stesso spirito che avrebbe continuato ad animare la nascita dei movimenti modernisti in tutta Europa e del Bauhaus nella Repubblica di Weimar.

 

Se, successivamente, negli anni sessanta Andy Warhol avrebbe simbolicamente accolto e utilizzato la serialità dell’immagine, la figura di Scott Burton si colloca nichilisticamente in questo filone. In Burton la suggestione dei movimenti modernisti del De Stijl e del Bauhaus è contraddetta con ironia da un processo creativo che allude agli oggetti d’arredamento, ma che nel celebrarli ne smentisce la democratica destinazione originaria e ne fa dei monumenti. Dal 1970 con Theater as sculpture and Furniture/landscape le sculture di Burton hanno assunto le forme di sedie e di tavoli, combinando le rigorose geometrie minimali, con i materiali e con i luoghi. Il presupposto originario della scuola di Weimar di coniugare stile, arte, bellezza, e funzionalità è con Burton smentito.

 

Scott Burton by Oscar Tuazon, veduta della mostra presso la Fondazione Giuliani, Roma, 2012. Oscar Tuazon, “The Facts”, 2012, acciaio, acciaio inossidabile, cemento, neon, 240 x 120 x 240 cm. Foto: Giorgio Benni.

 

In termini diametralmente opposti alle aspirazioni moderniste Tuazon recupera quindi le “sculture pragmatiche” di Burton e ne sposa l’intima emozione: “ho provato a diventare Scott Burton”. La mostra sembra diventare non solo la risposta allo stimolo interiore di uno stato d’animo tendente al nichilismo; ma il trait d’union con una poetica – quella di Tuazon - che riconosce, provocatoriamente, “nel whiskey e nella pornografia”, oltre che nell’amata moglie, le sue fonti di ispirazione, come ha notato Alessia Fattori Franchini in “L’Uomo Vogue”.

 

In conclusione, volgendo lo sguardo alla Storia, c’è da chiedersi quali siano oggi, agli esordi del ventunesimo secolo, le forme di questo dualismo tra l’arte e le sue applicazioni pratiche, in una società fondata sul flusso di comunicazione e sullo scambio di merci “immateriali”, e segnata da parole come “crisi”, “debito” e “sacrificio” da un lato, “riuso”, “sostenibilità” e “decrescita” dall’altro.

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