Due libri, due storie / Gerda Taro e Vivian Maier

31 Ottobre 2018

“Cosa mi fa sentire forte?” si domandava Susan Sontag in un’annotazione del suo diario. “Essere innamorata e lavorare”. E, ancora, descriveva la “vita della mente”, con le parole: “avidità, appetito, desiderio, voluttà, insaziabilità, estasi, inclinazione”. Ci sono analogie tra amare e conoscere, “tra il modo in cui l’Eros agisce nella mente di chi ama e quello in cui la conoscenza agisce nella mente di chi pensa”, scriveva la poetessa e grecista Anne Carson.

È, questo, a mio parere, il punto di vista che hanno scelto Helena Janeczek e Francesca Diotallevi per raccontare le vite di Gerda Taro e Vivian Maier. La prima con il romanzo La ragazza con la Leica (Guanda, 2017), la seconda con l’altro romanzo Dai tuoi occhi solamente, (Neri Pozza, 2018). Entrambe le fotografe prestano attenzione al mondo e al loro tempo, ma il loro sguardo si pone a distanze diverse dalla realtà che rappresentano.

 

Per Gerda la fotografia ha origine nel centro delle cose, della sua vita e degli avvenimenti storici e politici. Gerta Pohorylle, nata nel 1910 a Stoccarda da una famiglia di ebrei polacchi, si trasferisce a Lipsia nel 1929 per frequentare la Gaudig Schule. Nel 1933 viene arrestata per aver frequentato attivisti antinazisti. Si trasferisce quindi a Parigi, dove incontra l’ungherese Endre Ernö Friedmann, di cui diviene la compagna, che le insegna a fotografare. Insieme, su Endre costruiranno il personaggio di un famoso fotografo americano, Robert Capa, mentre per sé adotterà il nome di Gerda Taro. Il 18 luglio del 1936 inizia la guerra civile in Spagna. Il 5 agosto i due arrivano a Barcellona, la città dove ha avuto inizio l’insurrezione popolare, e subito Gerda realizza una serie di immagini di donne della milizia che si addestrano sulla spiaggia fuori città. 

 

Le immagini delle volontarie in armi e non nelle retrovie a cucire e a cucinare, mostrano al mondo la cesura rispetto al vecchio ordine patriarcale e la svolta rivoluzionaria e libertaria in atto in Spagna e in Catalogna in particolare. Nel marzo 1937 comincia a firmare i suoi lavori “Photo Taro” e le sue foto vengono pubblicate da “Regards”, “Ce Soir” e “Volks-Illustrierte”. Il 26 luglio del 1937, al ritorno dal fronte di Brunete, un carro armato “amico”, sotto attacco aereo tedesco, urta la macchina a cui è aggrappata. Viene travolta e muore. Ai suoi funerali, il primo agosto 1937, nelle strade di Parigi, una sfilata di bandiere rosse attraversa la città.

Nella Spagna rivoluzionaria si ha la consapevolezza che la posta in gioco è tra libertà e fascismo, ben oltre i confini spagnoli; la lotta non è per un nuovo potere ma per un’utopia. “Noi portiamo un mondo nuovo qui, nei nostri cuori. Quel mondo sta crescendo in questo istante” dice Buenaventura Durruti, l’eroe indiscusso di questa tragica rivoluzione che vuole realizzare una nuova umanità, senza padroni, certo, ma anche senza politici, patriarchi e pregiudizi.

 

Gerda Taro, Miliziana repubblicana in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936.


Gerda Taro, Miliziane repubblicane in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936.


Le foto di Gerda restituiscono la forza di questo particolare momento. Le sue miliziane ne sono un evidente esempio. La fotografa sta ai loro piedi: cinque donne tagliano l’immagine in diagonale, quasi come uno sfregio. E lo stesso accade con la bella miliziana in ginocchio mentre si sta addestrando: lo sguardo deciso rivolto dinnanzi a sé, in mano una pistola che pare un’estensione del suo corpo, pronta all’inevitabile durezza di uno scontro frontale. Il profilo scuro, che si staglia contro un cielo opaco, la trasforma nel simbolo di un istante indimenticabile ed eroico. 

Intelligenza ed eros si incontrano nel momento in cui il desiderio esige la rivoluzione e la rivoluzione libera il desiderio. Non importa se la morte è vicina. Quale mezzo migliore per testimoniare questa esperienza se non una macchina fotografica?

 

Con le sue immagini Gerda riesce ad elevare il gesto al di sopra del contesto, in uno stadio estremo di consapevolezza. La forza delle sue fotografie non risiede nella loro qualità estetica, ma nel tentativo di voler anticipare il futuro, quasi come se immaginasse la vittoria dei rivoluzionari. Gerda vive con le persone che combattono, fotografa bambini e contadini, ma anche scene di vita quotidiana, con il loro contenuto prosaico ed il tono dimesso. Non è semplicemente solidale con il soggetto, ma ciò che mette in immagine diventa parte di sé, come lei stessa è parte dell’evento che sta fotografando. Il celebre motto di Capa: “se le foto non ti sono venute bene vuol dire che non sei abbastanza vicino”, è indice del suo essere partecipe a un destino comune, manifesta una forma di responsabilità che coincide con il suo bisogno di autonomia e audacia, che si origina da una libertà di coscienza e azione possibile solo in certe situazioni eccezionali.

 

Gerda Taro, Soldati repubblicani, La Granjuela, fronte di Cordoba, Spagna, giugno 1937.


Gerda Taro, Vittime di un raid aereo all’obitorio, Valencia, maggio 1937.


Tre settimane dopo Guernica, nel maggio del 1937, fotografa le conseguenze delle incursioni notturne sulla popolazione civile di Valencia. Scatta in un obitorio: inquadra le ferite, i morti che non smettono di sanguinare, i sopravvissuti. Alcuni cadaveri di donne stese sui tavoli, con aria quasi serena, pare dialoghino a distanza con l’immagine delle miliziane. Questi morti, travolti apparentemente da un destino incontrollabile, sfuggono ad ogni ordine temporale, paiono non voler morire. Sono il volto in cui il tempo delle passioni e quello del pensiero possono coincidere. Fotografare significa non credere che la morte vinca sulla vita. Per questo le sue immagini riescono a conservare l’integrità di quel momento storico, tanto negli istanti euforici, quanto in quelli drammatici. Gerda è sempre presente a se stessa, ma le sue fotografie esprimono idealità che trascendono il suo particolare presente e riescono a farsi strada, ancora oggi, negli occhi di chi vuole e sa guardarle.

Se per Gerda, dunque, fotografare significa gettarsi a capofitto negli eventi ed aprirsi ad un mondo nuovo, per Vivian Maier ciò che conta è stare a una certa distanza. Per lei la verità è legata al silenzio, alla riflessione, alla solitudine.

 

Tutti conoscono la sua storia. Nasce a New York nel 1926 da madre francese e padre austriaco. Il suo primo contatto con la fotografia avviene nel 1930, in tenera età, poiché la madre divide l’appartamento con la ritrattista Jeanne Bertrand. In seguito trascorre l’infanzia in Francia e nel 1951 torna negli Stati Uniti dove lavora tutta la vita come baby sitter. “Disse che fin da giovane aveva scelto di diventare bambinaia perché le sembrava che le potesse garantire una certa libertà e perché qualcuno le dava un tetto sopra la testa”, ricorda Chuck Swisher, membro di una famiglia presso la quale lavorò negli anni Novanta.

 

Essere soli per Vivian Maier significa muoversi in continuazione. Solitudine e movimento coincidono. Camminare e guardare non sono disgiunti, fanno parte del medesimo gesto. Nella sua Rolleiflex entra ciò che vede per strada a New York e Chicago: un uomo raggomitolato su un marciapiede, due bambine che si abbracciano guardandosi negli occhi, un uomo che dorme sulla spiaggia. E molto altro: volti, strade, edifici. 

 

Vivian Maier, New York, 27 luglio 1954.


Vivian Maier, New York, 1952-1959.


Eppure Vivian non sviluppa che poche immagini. Sta qui il mistero del suo lavoro. Forse nell’idea la fotografia possa rappresentare la perfezione del gesto rubata a un mondo che la disconosce. “Ho scattato così tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo”, scrive Vivian. Eppure non è affatto ambiziosa. Non intende toccare alcuna vetta, bensì esprimere il desiderio di preservare, prima di tutto per se stessa, lo spazio di un altrove nel cuore del presente, lasciandosi sconvolgere fino in fondo dal suo silenzio. 

 

E se per gli altri le sue immagini sono il segno di una lontananza, di un segreto intraducibile, per se stessa costituiscono la forma di un’esperienza interiore, in una relazione così stretta con la vita, da poter essere talvolta lette come un profilo autobiografico. La solitudine non comporta paradossalmente un’esposizione di sé e della propria vulnerabilità? Il silenzio non può forse divenire spazio per un nuovo sguardo, che si lascia attraversare proprio in virtù della sua estraneità? Vivian fotografa per essere raggiunta, ma anche per marcare una distanza. Forse per lei è davvero l’unica possibilità di vivere, di far dialogare il mondo esterno e le voci che abitano dentro di lei. Vivian lascia parlare dentro di sé i soggetti che fotografa e nel contempo dà modo agli stessi di divenire il suo corpo, il suo sguardo, il principio della sua identità. Con un movimento analogo a quello dell’autobiografia, si preoccupa di comporre la frammentarietà degli istanti che va conservando senza mostrarli, in un tutto omogeneo. Ogni immagine diventa anche un momento della sua vita, non è importante che gli altri vedano. Fotografare è stare all’ombra dell’originale, ma è anche accogliere l’originale in una zona d’ombra, come se guardare fosse una sorta di appropriazione silenziosa.

 

Entrare in contatto con il mondo, desiderare di possederlo, per Vivian è conoscere se stessa. Scattare incessantemente per lei è amare ciò che guarda, non mostrarlo è un segreto che solo la fotografa può conoscere. Conoscenza ed eros per Vivian si consumano nel rifiuto di rendere pubbliche le sue foto. Non stamparle significa sottrarle ad una sfera economica e riproduttiva aperta ad un pubblico o ad un altro da sé, è la scelta consapevole di chi compie un atto autoerotico votato alla sterilità. Forse è per questo che in un’epoca che fa del mercato un elemento naturale e della riproducibilità un ideale imprescindibile, ci seduce la scelta spiazzante di conservare tutto in un posto segreto.

Il silenzio delle immagini, direbbe Erling Kagge, contiene in sé “lo stupore, ma anche una specie di violenza, un po’ come l’oceano o una distesa sconfinata di neve”. Così se per Gerda la fotografia è un occhio gettato nella tempesta, un’appassionata, disperata risposta che si spinge oltre ogni orrore e desolazione, per Vivian è un’isola in cui preservare la risposta al silenzio della sua vita. Per entrambe significa pensare e sentire l’esperienza immediata di ciò che le circonda; ognuna giunge a un contatto diretto con ciò che le sovrasta e le opprime. Eppure fotografare vuol dire generare occasioni di libertà da situazioni di costrizione.

 

Va sottolineato, infine, che i libri considerati non sono saggi, ma romanzi. Il loro merito, prescindendo dal giudizio della critica o da quello che il pubblico ha già accordato o potrà accordare, è quello di riproporre, all’attenzione di chi si interessa di fotografia, le storie di due donne così diverse, ma in fondo accomunate dal medesimo profondo bisogno di esprimere se stesse.

Per questo, le fotografe, mostrandoci due diversi modelli di formazione, possono ancora suggerirci sentieri mentali da imitare o da evitare, costringendoci comunque a riflettere.

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