Il libro e la vita / Piccole donne, di Greta Gerwig

14 Gennaio 2020

“Nessuno di noi avrebbe mai potuto amare tanto la terra, se la nostra infanzia non fosse trascorsa vicino ad essa; se non fosse quella stessa terra, dove ad ogni primavera rispuntano gli stessi fiori, che raccoglievamo con le nostre piccole dita […] Quale “nuovo” può valere quanto questa dolce monotonia dove tutto è noto, ed è “amato” proprio perché è noto?” È una citazione de Il mulino sulla Floss di George Eliot – pseudonimo maschile, come si usava in epoca vittoriana, della scrittrice Mary Ann Evans – e che Jo, la protagonista di Piccole donne, legge alla sorella Beth mentre sono in quella gita al mare, con tutta la famiglia e con l’amico di una vita Laurie, che diventerà momento esemplare di spensieratezza e felicità della famiglia March. E che nessuno poi nel corso del proprio approdo alla vita adulta riuscirà più a ricreare. 

 

 

Questa idea della nostalgia del passato e dell’oggetto perduto dell’infanzia, è solo uno dei tanti modi attraverso cui è possibile raffigurare il percorso tortuoso con cui soggettivamente si fa esperienza del desiderio o della ricerca della felicità. Poi ci sono quelli della mancanza, della frustrazione, dell’asimmetria e dell’enigma. O ancora quelli della creatività, dell’indistruttibilità, o persino della vita stessa, come vogliono le filosofie vitaliste e immanentiste. Alcuni insomma proiettano il desiderio al futuro, altri al passato (e altri ancora credono che possa essere sempre presente senza mai mancare). Eppure è profondamente lacerante e amaro, come accade in questo film, pensare che la nostra felicità dipenda tutta dal ritorno di qualcosa che è irrimediabilmente perduto. La gioia – ci parrebbe dire George Eliot – è qualcosa di monotono: è una ripetizione dello stesso. E invece – ahinoi – il tempo è destinato a spazzarlo via questo ritorno dell’identico e a farcelo sfuggire dalle mani. 

 

 

Non può essere un caso, se Greta Gerwig ha deciso di piazzare a metà del suo film questa citazione esplicitamente filosofica (che non c’è nel libro di Louisa May Alcott) di un passo di Il mulino sulla Floss dove il desiderio non è rivolto al futuro, ma è nostalgia di qualcosa che già si è avuto. Potrebbe essere una delle possibili chiavi per comprendere la più importante scelta stilistica di questa ennesima versione cinematografica di Piccole donne (sono almeno sei, senza contare le riduzioni televisive): quella cioè di strutturare il film con dei continui andirivieni temporali tra il presente di giovani adulte delle sorelle March (cioè di Piccole donne crescono) e quello del loro passato di pre-adolescenti nella casa di famiglia a Concord, Massachusetts. La sensazione è di avere a che fare continuamente con un passato idealizzato che continua – come un ritorno del rimosso – a riapparire nel disincanto del presente, dove tutte le scelte ormai sono già state prese. “Laurie ti manca?” chiede Beth malata e in fin di vita a Jo: “mi manca tutto” risponde lei. 

 

 

Il celebre incipit natalizio del libro arriva quindi solo dopo mezz’ora dall’inizio del film: dopo che abbiamo già visto Amy, la sorella aspirante pittrice, a Parigi con la zia; dopo che Jo ha già discusso col Professore Bhaer a New York riguardo alla sua carriera di scrittrice (assecondare o non assecondare i gusti del pubblico?); dopo che Meg è già madre di due figli e vive in una tale difficoltà economica da non potersi permettere un vestito nuovo da festa. La parte idillica di Piccole donne insomma compare già nella forma della memoria: già mediata dalla sua trasfigurazione nostalgica. Il cuore della vicenda ha in questo film le fattezze del passato: è un’esperienza che vediamo dal punto di vista della sua perdita. Dal punto di vista, per così dire, del passare e del morire delle cose. 

 

 

La frattura temporale – che il film rende quanto di più palpabile continuandoci a passare sopra scena dopo scena, saltandoci avanti e indietro – è quella che si porta dietro la definitività delle scelte (e degli inevitabili rimpianti): Jo ha già rifiutato Laurie, e la Gerwig quasi a voler aggiungere un surplus drammatico si inventa persino una lettera (che mai gli verrà recapitata) dove gli confessa di essersi pentita di aver respinto in passato la sua proposta di matrimonio; Amy ha già dovuto rinunciare alle sue velleità di artista e si è adattata all’idea di un matrimonio senza amore (e anche quando deciderà di sposare Laurie, percepiremo la sensazione agrodolce di essere lei una scelta di ripiego); Meg si è dovuta adattare a un matrimonio in povertà (dopo che sia la zia March che Jo avevano tentato in tutti i modi di dissuaderla perché “il matrimonio è sempre un contratto economico”); mentre Beth naturalmente farà da allegoria con la sua malattia alla fine di un’epoca della vita.

 

Eppure sarebbe sbagliato ridurre unicamente il film a un Bildungsroman disincantato, perché l’idea di fare di Piccole donne un ricordo nostalgico del passato ha anche un altro effetto, più postmoderno per così dire: quello di mettere a distanza la vicenda e renderla già da subito indistinguibile da una materia letteraria. Cosa che per altro ci viene mostrata già a partire dall’incipit del film che si apre su una contrattazione con un editore, e a cui segue – a mo’ di titolo del film – proprio la copertina della prima edizione di Piccole donne. È come se Greta Gerwig in quest’opera si pensasse soprattutto come lettrice e si accostasse alla vicenda già con un effetto di raddoppiamento e di distanza, secondo la sua tipica estetica autoreferenziale e citazionistica. 

 

 

Nonostante, trattandosi di una storia così ingombrante, sia inevitabile il confronto con gli adattamenti passati del libro della Alcott (su tutti, quello di Cukor del 1933), l’operazione di Greta Gerwig andrebbe confrontata alle caratteristiche che da sempre definiscono il suo cinema. Con l’idea, ad esempio, di mischiare volontariamente i piani tra la Louisa May Alcott scrittrice e il personaggio Jo March, fino a renderli indistinguibili, e includendo lo stesso romanzo di Piccole donne nel film, Gerwig fa un ulteriore passo in quella riflessione sulla narrativizzazione della vita che abbiamo visto in altre sue opere. Più di Lady Bird, c’è qualcosa in questo film delle sue precedenti sceneggiature con Noah Baumbach, o persino dei suoi trascorsi mumblecore con Joe Swamberg: quella sensazione di continua messinscena di se stessi e di narrativizzazione della propria vita che rende vita e arte così confusi e indistinti, e che caratterizza nel bene e nel male l’auto-riflessività narcisistica ed egocentrica dei ceti urbani contemporanei. Ma se in Mistress America o Frances Ha questa sensazione finiva per intrappolare claustrofobicamente i personaggi, qui l’epilogo è stranamente liberatorio e il confine tra il libro e la vita (e tra Louisa May Alcott, Jo March… e forse persino Greta Gerwig) finisce per smussare tutti gli spigoli più drammatici. 

 

 

È così che Greta Gerwig decide di risolvere il cuore del romanzo, e cioè l’enigma del desiderio di Jo: tanto volitiva, aggressiva e pronta a combattere quando si tratta della vita pubblica e della sua carriera di scrittrice, quanto timida e incerta quando si tratta di interrogare sé stessa e capire la natura del suo desiderio. “Lo ami Laurie?”, le chiede la madre; “Se mi chiedesse di nuovo di sposarlo, credo che gli direi di sì” risponde lei; “ma questo non vuol dire amare”. Ed è proprio quando Jo scopre che è troppo tardi per tornare indietro e che le scelte sono irreversibili, che la scrittura, frenetica e inarrestabile, entra nella sua vita a suturare quello che altrimenti sarebbe l’esposizione di un vuoto radicale (che è forse una delle migliori definizioni di ciò che nella modernità si è definito come soggetto). Lì mischiando tutti i piani, e chiudendo la distanza che separa la storia dalla vita, Greta Gerwig scioglie le aporie soggettive su cui si sono identificate generazioni di lettori e lettrici con quello che ha il sapore un po’ di un gioco delle tre carte. È una fuoriuscita che più che peccare di poca fedeltà alla lettera del romanzo – come qualcuno le ha fatto poco generosamente notare – rischia di depotenziarne un po’ lo spirito e di inventarsi una soluzione magari esteticamente efficace ma forse un po’ frivola. Una tentazione a cui spesso ha rischiato di soccombere il suo cinema anche in altri episodi. D’altra parte che importa – ci sembra dire la Gerwig – di come va a finire: non si trattava alla fine soltanto di un libro? Forse – ci verrebbe da rispondere – non si tratta mai solo di un libro. 

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