Babel Festival 2018 / Sola come Clarice Lispector

14 Settembre 2018

Non so perché ho raccontato questa storia. 

Avrei potuto benissimo raccontarne un’altra. 

Anime vive, vedrete come si assomigliano tutte

Samuel Beckett, Lo sfrattato

 

Clarice Lispector è sola – «sola come Kafka», è lecito affermare, adattandole una formula famosa. Sola come Sylvia Plath. Come Anna Maria Ortese. Come un cane. E d'altra parte, come scrive in La mela nel buio, è il cane che è in noi che sa riconoscere la strada. Fin da giovane, quando era famosa per la sua bellezza e la sua eleganza da diva del cinema, tanto da far pensare a uno strano ibrido di Virginia Woolf e Greta Garbo, Clarice ci appare prigioniera di un'intensità sovrumana, assorta sul bordo di un abisso interiore, di un fuoco centrale che è anche un nulla, una mancanza, l'ombra di un perpetuo fallimento («ogni storia di una persona è la storia del suo fallimento», osserva ancora in La mela nel buio). Più ancora che nelle fotografie, questa dolorosa forza centripeta è evidente nel ritratto che le fa Giorgio De Chirico nella primavera del 1945, mentre le voci degli strilloni che annunciano la fine della guerra irrompono nella quiete dello studio romano del grande pittore, a piazza di Spagna. Clarice ha venticinque anni, ed è la moglie di un diplomatico brasiliano di stanza a Napoli. De Chirico sicuramente sa ben poco della sua modella, che solo un anno prima ha pubblicato un'opera prima folgorante, Vicino al cuore selvaggio, arricchendo la letteratura brasiliana di tonalità inaudite, sorprendenti, ricche di una tale sapienza stilistica e psicologica che tutti si chiesero come avesse fatto quella giovane donna, studentessa di legge, a scavare così a fondo, e con tanta lancinante precisione. Il titolo le era venuto da Joyce, citato in esergo («Era solo. Era abbandonato, felice, vicino al cuore selvaggio della vita»). Ma il fibrillante, imprevedibile modernismo dell'autrice rifugge da un impiego sistematico del flusso di coscienza. Se ogni tecnica è una specie di specchio nel mondo, qui la superficie riflettente appare deliberatamente infranta in minuscoli pezzi. La prima e la terza persona si accavallano creando prospettive multiple, dal monologo che scaturisce dal più buio fondo dell'identità allo sguardo dall'alto di una voce narrante che sa tutto – e quasi se ne rammarica. Non c'è regola apparente nei trapassi, e ogni espediente impiegato vale come un tentativo, per sua natura illusorio e frustrato, di afferrare per la coda il divenire. Si può scrivere così bene il proprio primo libro da far pensare più a un miracolo che a un debutto, ma alla fine bisogna ammetterlo: non c'è nulla di più disumano della vita umana, dal momento in cui tentiamo di farne l'oggetto di un racconto. Molto più di quella di Joyce, la lezione decisiva per Clarice è quella di Spinoza, studiato a fondo in un'antologia francese –  Le pages immortelles de Spinoza – curata da Arnold Zweig.

 

Come farà Elsa Morante su una copia dell'Etica, Clarice sottolinea e chiosa con passione le pagine del grande filosofo olandese. Piantate come altrettanti semi in un terreno disposto a farle germinare, sono idee che la accompagneranno per tutta la vita. Decisiva, soprattutto, è quell'identità di Dio e Natura assoluta e libera, per necessità filosofica, dai vincoli del bene e del male. L'assenza di moralità, in effetti, è il carattere più evidente in Joana, la protagonista di Vicino al cuore selvaggio, e rimane un fatto costante nell'immaginazione di Clarice Lispector. Ogni frammento, ogni aspetto dell'esistenza, ogni singola vita è una parte di questa grandiosa immagine di un Dio privo degli attributi antropomorfi che gli conferiscono le religioni, comprese la volontà e il giudizio. È una presa di coscienza di quelle che possono rivelarsi decisive, per un artista impegnata nella costruzione del suo mondo. Non un'opinione e tantomeno una semplice suggestione culturale, che sono fatti per loro natura transitori, ma un criterio di conoscenza totale e definitivo – quello che si potrebbe chiamare un autentico orizzonte. Tutta l'opera di Clarice Lispector è pervasa dal sentimento innominabile dell'unicità della vita, e il fascino dei singoli personaggi consiste nel fatto che nel loro sangue si agitano correnti e maree che trascendono la loro l'illusione dei confini individuali, di un destino nettamente separato dal Tutto. Anche se ha tutte le apparenze del sintomo privato, il loro male di vivere è sempre un aspetto, una temporanea variabile di un dolore universale, cosmologico. Più del flusso di coscienza, allora, conta il trascorrere, di quella coscienza, da un individuo all'altro, tanto più vicina alla sua natura selvaggia quanto più indifferenziata, molteplice come i colori ma unica come la luce che li genera. Ed è così che nel suo primo libro Clarice può disegnare un autoritratto che è anche il racconto di un sofferto ménage à trois, sovrapponendo ed alternando con grande sapienza i punti di vista, come se pensieri e sentimenti fossero malattie virali che circolano fra gli attori del dramma corrodendo i limiti dell’identità e dell'alterità, facendo di ognuno lo specchio segreto di chi gli sta di fronte. 

 

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In fin dei conti, non è la convinzione filosofica ad essere determinante, ma la visione che questa produce. Come per tutti i temperamenti mistici, anche per Clarice questa visione è il contenuto supremo della scrittura, la sua ragion d'essere. Ed è il contenuto supremo della vita, perché vivere è scrivere, scrivere è vivere. In entrambi i casi, accedere alla visione significa accedere alla verità. Ma non sarebbe esatto dire che questa verità comporti una liberazione dalle apparenze. Nella luce della visione, l'apparenza e la verità producono una specie di corto circuito, collassano l'una nell'altra. Intesa come attività suprema della mente, e criterio unico e privilegiato di conoscenza, la scrittura tocca il suo limite quando le è dato «cogliere il simbolo delle cose nelle cose stesse». Memorabile formula, che dal cuore del primo libro, dove è ripetuta ben due volte, si proietta sull'intera opera di Clarice – producendo innumerevoli variazioni e sfumature. Non si può estrarre impunemente il simbolo dalla cosa. Clarice lo spiegherà bene in un passo della Mela nel buio – il libro che, datato «Washington 1956» segna il pieno ingresso nella maturità artistica. Si tratta di compiere una scelta: permanere nei pressi della «zona sacra intatta» delle cose, e riuscire a viverne; oppure accontentarsi di ciò che è «raggiungibile». La differenza è quella che passa tra il fiume e l'acqua raccolta nella concavità delle mani per dissetarsi. Lì, fra le mani, non c'è più nulla del «gelido movimento» del fiume, nulla della «delicata avidità con cui l'acqua tortura le pietre». E quello che si beve, alla fine, è sempre «poco», mentre di «ciò a cui si rinuncia» si vive davvero.

 

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Si potrebbe dunque affermare che, nella prosa di Clarice Lispector, il massimo della visionarietà coincide con il massimo del realismo. E ancora: raggiunto un determinato livello di sensibilità – linguistica e nervosa – non c'è che prendere atto dell'arcana, infallibile, prodigiosa coincidenza della Lettera e dello Spirito. Ma quando si parla di un così potente e raffinato metodo di conoscenza, e lo si apparenta a una forma di misticismo, bisogna anche aggiungere che, nell'opera-vita di Clarice, c'è anche un altro aspetto che la apparenta all'esperienza di tutti i grandi mistici: la discontinuità. Per sua natura, uno stato di grazia è qualcosa di reversibile, transitorio, accordato a intervalli irregolari. Non è possibile ricostruirne le circostanze con un atto di volontà. Chi ne è fuori, ha la sensazione di parlare dalla propria tomba. Così si esprime la stessa Clarice nella sua unica intervista televisiva, concessa a Julio Lerner nel febbraio del 1977, pochi mesi prima della morte. È una confessione terminale, quest'intervista, una specie di testamento dialogato di grandissima intensità – anche per merito di un bravissimo giornalista. Del resto, fu la stessa Clarice a esigere che andasse in onda solo dopo la sua morte. L'ombra della bellezza svanita ancora aleggia sui lineamenti stanchissimi della scrittrice, che parla con la sua voce roca, da fumatrice accanita, facendo molte volte scorrere qualche secondo di sospensione fra la domanda e la risposta. Come tante stelle di prima grandezza del firmamento letterario del suo secolo, nemmeno lei può dirsi una scrittrice professionale, afferma senza esitazione.

 

I periodi di latenza, in effetti, si alternano a quelli di fertilità creativa tanto da far pensare che quella di Clarice Lispector, che in apparenza può sembrare una bibliografia come tutte le altre, con i suoi titoli e le sue date, consista in una serie interminabile di esordi. Andranno anche messe in conto le due maternità, e quell'infelicissima quindicina d'anni passati accanto al marito diplomatico fra Napoli, Berna e Washington, fino al divorzio e al sospirato ritorno a Rio de Janeiro, nel 1958, dove vivrà e scriverà fino alla morte. Ma ogni tipo di circostanza esterna, considerato un carattere come quello di Clarice, risulta ambiguo al momento di interpretarlo. Ci sono vite che scorrono certamente, come tutte le altre, dalla nascita alla morte attraverso innumerevoli accidenti di varia importanza – ma con una fondamentale, e sconcertante differenza: i rapporti di causa ed effetto diventano poco chiari, sempre più imperscrutabili via via che il tempo passa. Anche agli occhi di chi le era più vicino, Clarice ha sempre incarnato un enigma, una specie di sfinge nevrotica, una forma d'essere in bilico fra il possibile e l'impossibile. Non sbagliava uno dei suoi figli quando la paragonava a un animale che unisse in sé i caratteri della tigre e quelli del cervo. Il dolore che si portano appresso gli animali di questo tipo è che per loro, nel mondo, non ci sono simili. Tutta la specie si incarna e si esaurisce nel caso individuale. 

 

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Quanto alla discontinuità, non bisogna solo pensare all'alternarsi di fasi felici della scrittura e di intervalli di stanchezza, di inibizione, di eccessiva insicurezza. Clarice sperimenta anche questi fatti comuni a tanti altri scrittori, ma non sembra esserne determinata oltre un certo limite. Tutto sommato, nella sua breve vita ha scritto molto, e fin da giovanissima ha avuto il riconoscimento che meritava. Soprattutto i libri maggiori (Vicino al cuore selvaggio, La mela nel buio, La passione secondo G.H.), nonostante l'impervio tessuto stilistico e l'aristocratico disprezzo per la trama che li caratterizza a una prima impressione, hanno trovato subito lettori convinti, con tutte le ragioni, di trovarsi di fronte a dei capolavori. Ma c'è un altro tipo di discontinuità, molto più potente e sottile da considerare: quello che si annida nel tessuto stesso dell'opera, come un'aritmia che si incunea fra sistole e diastole, o una momentanea amnesia che lacera il filo della memoria. Il fatto è che in tutti i suoi libri Clarice Lispector non fa che girare sul tornio la stessa identica materia, che potremmo definire, un po' genericamente, la coscienza umana. Che all'interno di quel Tutto che è come dire Dio, rappresenta pur sempre una pericolosa anomalia, una fonte inesauribile di errore ed illusione. Noi non possiamo accontentarci di esistere, come sanno fare una mosca o un cavallo. Per noi, esistere significa continuamente inventare la nostra esistenza. Che il pensiero prenda atto delle cose del mondo, in virtù di una specie di tacito patto, non è che un'illusione verosimile, come quella che ci fa credere che sia il Sole a girare intorno alla Terra. La realtà è molto più complicata, perché noi siamo costretti, per così dire, a procedere su una strada che noi stessi tracciamo con i nostri passi. Martim, l'eroe della Mela nel buio, è da questo punto di vista il rappresentante più elaborato e complesso (assieme alla G.H. della Passione) di questa strana esistenza umana, costretta a trasformarsi senza tregua nella filosofia e nella gnoseologia di se stessa.

 

A causa di un delitto destinato a rimanere sullo sfondo del racconto (il tentativo di uccidere sua moglie per gelosia), Martim è un fuggitivo, un individuo che si è lasciato alle spalle il suo mondo, i suoi averi, e soprattutto le sue abitudini di pensiero e di linguaggio. Quella della fuga è l'efficace allegoria di una specie di auto-genesi, di rifondazione dell'individualità a partire da un grado zero assoluto, una forma produttiva di «stupidità» che libera la mente da ogni sapere ereditato. Come si fa un uomo è il titolo della prima parte del romanzo, in cui le ambizioni di Martim sono messe a dura prova dallo scorrere del tempo, che gli impone di portare a termine il compito che si è assegnato prima che la polizia, messa sulle sue tracce, arrivi a catturarlo nella sperduta fazenda dove lavora come bracciante. Non meno ambizioso di quello del suo personaggio è il proposito di Clarice Lispector di dare forma a una specie di storia della coscienza umana, riflessa nella vicenda del suo eroe e delle due donne (la proprietaria della tenuta e una sua giovane parente) che sono come l'apice di questa minuziosa presa di possesso della realtà. 

 

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Come si fa un uomo? E soprattutto: qual è il prezzo di questa impresa? A partire dalla Mela nel buio e da alcuni racconti raccolti in Legami familiari, una profonda corda iniziatica inizia a vibrare nell'opera di Clarice Lispector per raggiungere il diapason nella Passione secondo G.H. Dell'iniziazione alla scrittrice non interessa la possibilità di ottenere qualche tipo di conoscenza esoterica o salvifica, ma la necessità, raccontata nella prima parte della Mela nel buio, di completare l'itinerario dell'individuo aggiungendo al puro fatto biologico di essere venuto al mondo (sufficiente per tutti gli altri animali) una seconda nascita, quella che Mircea Eliade definisce nascita mistica. Ovviamente, di questa suprema esperienza religiosa Clarice Lispector può considerare solo la dimanica fondamentale, che è quella di un accesso traumatico alla verità, successivo a una morte simbolica, insomma alla cancellazione violenta e definitiva della vecchia identità "naturale". Clarice condivide con gli spiriti più intensi e visionari del suo tempo un processo fondamentale di riduzione dei vecchi contenuti religiosi a contenuti puramente psicologici. Non è detto che questo sia necessariamente da interpretare come uno scadimento. Quello che è certo, è il fatto che gli iniziati delle società primitive o delle religioni antiche morivano per rinascere, ma sempre all'interno di un sistema condiviso di credenze, mitologie, immagini del cosmo. Il loro itinerario individuale prendeva posto in una tradizione, che si tramandava immutabile di padre in figlio e che era il cemento di una comunità.

 

Il tipo di esperienza religiosa al quale la scrittura di Clarice Lispector continuamente allude, è, al contrario, una specie di contraddizione in termini, poggiando totalmente sul singolo individuo, alle prese con il sentimento, sempre destabilizzante, della sua unicità. Anche quando può prendere le movenze e addirittura la forza di persuasione di un autentico annuncio, la scrittura letteraria è un ordine del sapere irrimediabilmente profano, incapace di far leva su una verità valida per tutti. E come in quel capolavoro dell'arte del racconto che è L'imitazione della rosa (titolo palesemente ispirato dall'Imitazione di Cristo) l'esito della rivelazione individuale, anziché con la santità, si identifica con la follia. I vecchi prodigi e tutte le altre manifestazioni del sacro si trasformano in sintomi e deliri. A mio parere, è alla luce di queste considerazioni che si deve interpretare anche il più vistoso ed eloquente silenzio dell'opera di Clarice Lispector, frequentemente segnalato e interpretato in vari modi dalla critica. Alludo alla quasi totale assenza di riferimenti alle sue origini ebraiche, e alla storia drammatica della sua famiglia. Clarice era nata, nel dicembre del 1920, in un piccolo villaggio dell'Ucraina insanguinata da anni di guerra e guerra civile. Durante quei disastrosi sconvolgimenti, si verificò un'impressionante serie di pogrom, nei quali morirono centinaia di migliaia di ebrei. Solo i campi di concentramento nazisti furono capaci di perfezionare ulteriormente l'immonda macchina della pulizia etnica, ma quello che successe in Ucraina viene ormai unanimemente considerato dagli storici come la vera "prova generale" dell'Olocausto. Il padre, la madre, Clarice e le sue due sorelle maggiori si salvarono al termine di una serie di avventurose traversie, e dopo un periodo trascorso in Romania arrivarono finalmente in Brasile, finendo per stabilirsi a Recife. Di tutta quell'odissea, nella memoria di Clarice, che aveva pochi mesi, non rimase nulla. Ma durante l'infanzia poté a lungo osservare sua madre, morta tra atroci sofferenze di sifilide dopo che, durante i giorni della fuga, era stata stuprata da un gruppo di soldati. Nonostante i lunghi viaggi in Europa, Clarice non mise mai piede nella sua terra natale, e considerò sempre il Brasile come la sua vera ed unica patria – tanto da provare, durante i lunghi anni trascorsi fra l'Italia, la Svizzera e gli Stati Uniti, un sentimento acutissimo di nostalgia e sradicamento. Un amore altrettanto intenso la legò al suo strumento di lavoro, la lingua portoghese. Rimane il fatto che questo silenzio riguardo alle origini è ancora più eloquente di ogni possibile confessione. L'autobiografia è esiliata dai confini del dicibile come se nascondesse in sé qualche tipo di colpa inconfessabile. Si tratta forse della consapevolezza che affiora in una lettera scritta da Berna nel 1946 alle sorelle Elisa e Tania (e non a caso, si tratta di un documento privato): «Buffo, ma a pensarci bene, non esiste un vero luogo dove vivere. Tutto è terra altrui, dove gli altri vivono contenti». Buffo e terribile insieme, viene da aggiungere, come molti fatti essenziali dell'esistenza umana.

 

 

Ma se ogni terra è «terra altrui», dove sono sempre gli altri a vivere felici, allora toccherà all'individuo inventare il proprio radicamento, arginando in qualche modo le conseguenze catastrofiche di quella consapevolezza. Da qualunque parte si osservi quel minerale opaco (o meglio: splendente e opaco nello stesso tempo) che è il carattere di Clarice, sempre ci troviamo di fronte alla stessa legge: non si può accettare nulla che provenga in modo naturale dal passato, dal sangue, da quella parte del nostro destino che ci è consegnato, al momento di nascere, dai nostri padri e dalle nostre madri. Non si può, insomma, ereditare nulla che sia realmente valido per il singolo, che faccia da bussola alla sua solitudine. Al contrario, è necessario inventare una propria religione così come è necessario inventare una patria e fare della stessa lingua madre una lingua che sia totalmente figlia – una lingua orfana e inaudita. 

 

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Jorge Luis Borges, parlando della Relazione di Arthur Gordon Pym, osservò una volta che il capolavoro di Poe possiede due argomenti: «uno immediato, le vicissitudini marittime; un altro infallibile, tacito e crescente, che si rivela soltanto alla fine». Si potrebbe dire che tutta la narrativa moderna si sviluppa nel difficile e mutevole equilibrio fra l'«argomento immediato» e l'altro – «infallibile, tacito e crescente». Assumendo questo punto di vista, l’opera di Clarice Lispector rappresenta un caso notevolissimo. L'equilibrio si rompe fin troppo facilmente, ai danni dell'argomento «immediato» che risulta rapidamente polverizzato, o ridotto al ruolo di semplice cornice o pretesto del discorso. Qualcosa di «infallibile, tacito e crescente» occupa puntualmente il centro della scena, esige tutta l'attenzione per sé. Questo non comporta, d'altra parte, che il narratore, o i suoi personaggi, sappiano definire esattamente ciò di cui pure si affannano a parlare. Contraddicendo il famoso monito di Wittgenstein, l'argomento privilegiato del discorso è proprio ciò di cui non si può dire nulla. E se la caratteristica più eminente dello stile di Clarice Lispector è una sapientissima, ipnotica miscela di ripetizioni e variazioni, ciò si deve al fatto che il linguaggio finisce sempre per infrangersi sul limite dell'impossibile – e per ricominciare di lì, ancora e ancora. Molto più che quello con Kafka, frequente ma generico, è il paragone con Beckett a risultare convincente, con tutti i limiti e le cautele con cui vanno considerate queste analogie tra spiriti ribelli, che sembrano intenti a scavarsi la propria strada come se mai nessuno li avesse preceduti. È pure vero che un tale atteggiamento impone di alzare sempre l'asticella, di tentare qualcosa di più nella direzione dell'intentabile. Perché scrivere, nonostante tutti periodi di latenza, è pur sempre un modo di vivere la propria vita fino in fondo. Nel 1960 Clarice, dopo aver terminato le pratiche di divorzio ed essersi stabilita definitivamente a Rio, ha compiuto quarant'anni e pubblicato la sua raccolta più memorabile di racconti, Legami familiari

 

L'anno dopo è la volta della Mela nel buio, il libro più difficile e ambizioso, rifiutato da molti editori. Ma non sembra un periodo particolarmente propizio alla concentrazione necessaria alla scrittura. Ci sono due figli da crescere, il lavoro per i giornali, e i primi sintomi di un'instabilità nervosa capace di ingigantire ogni tipo di difficoltà. Eppure, è una vocazione più efficace e resistente di ogni avversità quella che nei primi anni Sessanta sprona Clarice. «Io sono più forte di me», avrebbe scritto qualche anno più tardi: perfetta sintesi di un carattere sempre capace di alzare la posta quando tutto lascia presagire che la partita sia chiusa. È da questo irripetibile crogiolo di energie interiori che viene fuori, pubblicata nel 1964, quella straordinaria resa dei conti, quell'implacabile e ardente confessione, quella visione suprema che è La passione secondo G.H. Come definire questo libro che da molti è considerato il capolavoro di Clarice Lispector? Un lungo racconto, un monologo tragico, un trattato filosofico, il resoconto di un'esperienza mistica destinata a conseguenze profonde e irreversibili? Forse, la definizione più adeguata potrebbe essere quella di confessione estatica, così come fu elaborata da Martin Buber in una sua celebre antologia, pubblicata la prima volta nel 1909. Buber spiega alla perfezione come il carattere estatico si dibatta fatalmente nella più insidiosa delle contraddizioni: da una parte, egli «non può dire l'indicibile», ma dall'altra parla, «non può fare a meno di parlare perché la parola arde dentro di lui». Perché è proprio l'estasi che, morendo nel tempo umano, «ha gettato nell’uomo la parola». E dunque la volontà di dire dell'estatico «non è solo impotenza e balbettio: è anche forza, è anche melodia. L'estatico vuole creare una memoria per l'estasi che non lascia traccia: vuole salvare, nel tempo, ciò che non ha tempo». 

 

 

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G.H. è una donna sola, che vive in un grande appartamento all'ultimo piano di un palazzo signorile. È un'artista, una scultrice per l'esattezza, alla quale la mancanza di preoccupazioni economiche ha concesso il supremo privilegio del dilettantismo. La sua è una vita serena, scandita dai riti e dai piaceri che condivide con i suoi simili. Almeno, tutto ciò è vero fino al grande trauma che ha devastato la percezione di se stessa e del suo posto nel mondo. Questo evento è accaduto appena il giorno prima di quello in cui G.H. lo racconta, implorando la «mano» di un interlocutore che la sostenga nell'impresa. Questa prossimità temporale del racconto all'evento, tipica di molta letteratura mistica, fa sì che il discorso di G.H. sia ancora tutto vibrante dell'accaduto. Il quale, se se ne escludono tutte le ripercussioni interiori, si può riassumere in poche parole. Dopo aver fatto colazione, G.H. decide di dedicare la giornata a mettere ordine in casa, attività che svolge sempre volentieri. È sola, perché ha appena licenziato la sua cameriera e ne aspetta una nuova. Ed è proprio dalla stanzetta di servizio dove per sei mesi ha dormito la domestica che G.H. decide di iniziare il suo lavoro. È una stanza destinata a ripostiglio, che la padrona di casa immagina ridotta al più assoluto disordine.

 

Ed ecco che, appena entrata in quell'ambiente dove raramente ha messo piede, la attende la prima sorpresa. La stanza è perfettamente linda, ordinatissima, invasa dal sole del mattino. Immediatamente G.H. è pervasa dall'acuta sensazione dell'alterità di quel luogo, sospeso tra la terra e il cielo, come fosse un pezzo di un'altra dimensione nascosto nel perimetro della casa. Le viene in mente un «minareto», che è un luogo di preghiera che esprime nella sua stessa forma uno slancio verso l'alto. Ma la seconda sorpresa è molto più sconvolgente. Prima di andarsene, quella cameriera di cui non ricorda nemmeno i lineamenti ha disegnato a carboncino tre rozze figure su uno dei muri: un uomo, una donna e un piccolo cane ai loro piedi. È un'immagine arcaica ed inquietante, una specie di graffito da caverna neolitica che trasmette a G.H. un indefinibile senso di angoscia, come l'annuncio del ritorno di qualcosa che era stato relegato, da sempre, ai margini della coscienza. E il graffito, con tutta la sua ermetica forza di persuasione, è l'ideale premessa al centro del trauma, al gorgo nero che attirerà tutto nel suo mulinare. G.H. apre la porta dell'armadio e si trova davanti, all'altezza degli occhi, un'enorme blatta solitaria, che procede verso l'esterno. Il raccapriccio è naturale, ma da questo momento in poi le reazioni del lettore e quelle della protagonista iniziano a divergere senza più possibili punti di contatto. Entriamo definitivamente in un altro ordine della realtà, in una specie di volo sciamanico alle sorgenti del tempo, al nucleo indifferenziato dell'esistenza. Le vecchie idee con tanto entusiasmo assimilate nell'antologia francese di Spinoza riemergono con la forza d'urto di un'onda che stravolge e sommerge. E la filosofia si trasforma in quella che il Conrad di Tifone aveva definito, con espressione tanto semplice quanto illuminante, «the real thing», la cosa vera, quella che non sta in nessun libro e che è necessario, arrivati a certe svolte capitali del destino, affrontare mettendo in gioco fino all'ultima fibra dell'essere. 

 

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«La cosa che io vedevo», afferma G.H., «era la vita che mi guardava». Non quella pallida convenzione che è la vita umana, e meno che mai la vita individuale. Ciò che dell'immondo insetto paralizza di terrore G.H. è il senso antichità, la permanenza di una volontà di esistere che precede l'umano, adattandosi e resistendo ad ogni avversità. Qualcosa che pertiene più alla mitologia che alla zoologia. «Era una blatta vecchia quanto un pesce fossile. Era una blatta vecchia quanto salamandre e chimere e grifoni e leviatani. Antica quanto una leggenda». Con un sentimento che non ha nome, e non può averlo perché appartiene al nucleo più intimo e inviolabile della soggettività, è verso l'Origine assoluta che G.H. è sospinta. Ma questa Origine non è forse il «nulla»? La stanzetta–ripostiglio della cameriera è un «minareto», ma anche – ce ne rendiamo conto via via che G.H. ci avvolge nelle spire del suo monologo – uno spazio teatrale, e più precisamente uno spazio tragico. Un luogo dove quel fragilissimo e opinabile rituale che è stato la vita della protagonista è sottoposto all'onda d'urto della follia e della profanazione. Perché l'Origine che la blatta annuncia, come un angelo nero che aspettava il suo momento acquattato nell'armadio, è talmente insostenibile da parte della ragione, che tutte le sue difese ne risultano annientate. «Ogni caso di follia», afferma G.H. con stupefacente consapevolezza, «significa il ritorno di qualcosa». Dal punto di vista umano, inoltre, questa vita che ritorna rappresentata dall'insetto può essere, biblicamente, definita immonda. «L'immondo», infatti, «è l'origine» – tutto ciò che si è conservato identico fin dal momento della sua creazione. L'essere umano non può che provare un'istintiva, indomabile repulsione per questa dimensione amorfa, indifferenziata della vita che è come uno specchio che gli rimanda un'immagine insostenibile. Che è l'immagine del suo peccato, o meglio di una tentazione che si affaccia nitida alla coscienza di G.H. : «vivere la vita invece di vivere la propria vita è proibito. È peccato entrare nella materia divina. È quel peccato ha una punizione inappellabile: chi osa entrare in questo segreto, nel perdere la vita individuale, disorganizza il mondo umano».

 

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Un'ambivalenza fondamentale in tutta l'opera di Clarice Lispector si insedia anche nella Passione. La forza dell'«immondo» e del «peccato» è quella di destare repulsione e attrazione nello stesso tempo. Ma ciò che accade nel «minareto» non è solo contemplazione, non è solo meditazione. Il meccanismo stesso della tragedia ha bisogno di un atto di violenza e delle sue conseguenze irreversibili. L'incontro fra la donna e la blatta non sarebbe stato capace di sprigionare tutto il suo significato se a un certo punto, sbattendo l'anta dell'armadio, G.H. non avesse schiacciato l’insetto, ferendolo a morte. Una materia bianca, molliccia, rapida a ingiallirsi al contatto con l'aria, inizia a fuoriuscire dal corpo dell'insetto, quasi spezzato in due. Se ogni autentica visione comporta un apice e un punto oltre il quale non si può andare, è questa materia organica che rappresenta il culmine dell'esperienza di G.H. Come se dovesse mettere in scena, al colmo della sua esaltazione nervosa e metafisica, una parodia del rito eucaristico, G.H. si porta alla bocca «la pasta della blatta». Del tutto insapore, questa «pasta» è una materia alchemica, filosofale. Mangiarla significa sopperire a una carenza, riappropriarsi di quel «lato inumano» dell’esistere che alla coscienza di G.H. appare come l’Eden perduto («sono stata espulsa dal paradiso quando sono diventata umana»). 

 

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Non ci sarebbe più nulla da aggiungere; eppure, noi sappiamo che in qualche modo la protagonista della Passione è uscita dal «minareto», si è sottratta al suo stesso vangelo. Il giorno prima è un’esperienza conclusa, se è vero che solo a chi torna indietro è possibile raccontare. E questa via del ritorno è una rinuncia, la rinuncia è un’ulteriore «rivelazione». È il «grande sacrificio» di chi desiste dal desiderio del Tutto, e si rende capace di ammettere che l’unica gioia di cui gli è concesso godere è «la gioia umana». Le ultime pagine della Passione sembrano la premessa all’ultimo periodo della scrittura di Clarice Lispector, a partire da Un apprendistato o il libro dei piaceri, pubblicato nel 1969. Il monologo tragico, nell’Apprendistato, è sostituito dal dialogo tra un uomo e una donna che si amano, riuscendo alla fine a ritagliarsi quel tanto di «gioia umana» che è loro concessa. Più che di un’abiura, bisognerà parlare di un movimento di riflusso, come se, con la vicenda di G.H., la mente di Clarice avesse toccato un limite invalicabile, e adesso si assestasse nell’alveo di una saggezza che ha un sapore quasi induista, tanto è basata su un atto di rinuncia. Non sarà un caso che si affacci con prepotenza, nell’Apprendistato e nei libri successivi, un’attenzione al corpo, ai suoi piaceri e alle sue miserie, molto più accentuata che in precedenza. Dei limiti dell’umano, la vita corporea è il ricettacolo più evidente – ancora una volta, un simbolo della cosa che non può essere separato dalla sua cosa stessa. Nella fioritura di piccoli libri che scandisce gli ultimi anni di vita di Clarice, spicca per felicità espressiva una raccolta di racconti come La passione del corpo (A via crucis do corpo nell’originale), pervaso di ironia e malinconica leggerezza. Indimenticabili alcuni ritratti, come quello della puritana Miss Algrave, che cambia radicalmente la sua morale sessuale dopo la visita di un extraterrestre, o quello della signora Candida Raposo, ottantunenne, alla quale «il desiderio di godere non passava mai».

 

Ma tra i personaggi del libro si affaccia volentieri anche lei, Clarice, che regge i fili di tutte le storie e nello stesso tempo condivide la sorte di tutti i suoi personaggi, in un vincolo sigillato dalla mortalità. Si approfondisce anche in Acqua viva, il romanzo-poema pubblicato nel 1973, questo gusto dell’autoritratto, che può apparire sorprendente in una scrittrice celebre per il suo riserbo, tanto da buttare nella disperazione, con la sua elusività, la maggior parte dei giornalisti che provarono a farle un’intervista. Ma non si tratta di un soprassalto di narcisismo, dettato magari dal presentimento della fine imminente. Se fa apparire volentieri la sua ombra tra le altre ombre dei suoi racconti, ciò si deve al fatto che Clarice, nella fase estrema della sua creatività, è sempre più interessata a quello snodo fondamentale del processo creativo che è l’irrompere di un dato personaggio nella vita della coscienza. Che l’esistenza vada sempre inventata, ripartendo ogni volta da zero, le era stato chiaro fin dai tempi dell’apprendistato. Ma cosa significa, esattamente, quest’ulteriore artificio, questo sortilegio di secondo grado che costringe lo scrittore a partorire i fantasmi che popolano il suo mondo? È questa la domanda che ispira l’ultimo capolavoro di Clarice, L’ora della stella, pubblicato ormai postumo nel 1977. Per l’ultima volta, in questo testo straordinario e letteralmente strappato alla morte, l’arte si afferma come il centro della coscienza e il luogo supremo in cui la vita si manifesta e si rende interpretabile. Ma è lo scrittore, questa volta, ad assumersi totalmente la responsabilità del suo gesto e le conseguenze della sua follia, raccontandoci non una storia, ma il modo in cui questa storia si è insediata nella sua mente costringendolo a darle una forma. Lo scrittore, ho detto, e non la scrittrice, perché è una maschera maschile, quella di «Rodrigo S.M.», che Clarice indossa per quest’ultimo corpo a corpo con un personaggio.

 

Tra digressioni, ripensamenti e fulminanti intuizioni filosofiche, l’ironico e disperato Rodrigo non ci risparmia nulla del processo attraverso il quale la figura indistinta del suo personaggio assume la sua consistenza fantastica. Macabéa, la sua eroina, è un’immagine della miseria e della privazione, quasi indistinguibile fra le migliaia di ragazze del Nordest che come lei sono scese a Rio de Janeiro a cercare un qualunque lavoro per sopravvivere. Non sa nulla, non ha nulla, e tanto poco riesce a immaginare un’esistenza migliore della sua, che non riesce nemmeno a provare infelicità o rimpianto, tutta occupata com’è a perpetuare la sua esistenza. «Io non ho inventato questa ragazza», ci assicura Rodrigo: «lei ha forzato la sua esistenza dentro di me». E se i suoi lettori difficilmente potranno identificarsi nelle condizioni derelitte di Macabéa, perché leggere è un lusso che non appartiene a nessun derelitto, riflettano su quante forme di carenza e privazione affliggono la vita di ognuno, prima di considerare del tutto estranea a loro la storia che gli viene raccontata. L’ora della stella è un estremo tributo all’immaginazione, a quella parte della vita della mente che è consacrata ad accogliere in sé l’immagine dell’altro e la sua storia, a girarle intorno fino al momento di intravedere, nel caso particolare, nulla di più che una minima variante del destino di tutti. Ed è così che quello che unisce Rodrigo e Macabéa è un arco voltaico, un ponte di energie potenti e ingovernabili. E far morire un personaggio così concepito, scrivere la sua tragedia fino all’ultimo atto, non può che significare una specie di suicidio. «Macabéa mi ha ucciso», può finalmente affermare Rodrigo. Ma che i morti, ci aveva avvertito appena prima, non si lamentino: «loro sanno quello che fanno».   

 

NOTA

Seul comme Franz Kafka è il titolo di un libro di Marthe Robert pubblicato nel 1969 (trad.di Marina Beer, Editori Riuniti, Roma 1982). Ma la geniale espressione, che fa di se stesso l'unico termine possibile di paragone per la propria solitudine, è dello stesso Kafka. Sul ritratto di De Chirico («piccolo: perfetto, molto bello, espressivo e tutto») si legga la lettera Clarice alle sorelle scritta da Roma il 9 maggio del 1945, in La vita che non si ferma. Lettere scelte (1941–1975), a cura di Lisa Ginzburg, Archinto, Milano 2002. Anche le altre citazioni epistolari provengono da questa antologia. Per ogni circostanza della vita di Clarice, si può ricorrere al lavoro fondamentale di Benjamin Mostre, Why This World. A Biography of Clarice Lispector, Oxford University Press, New York 2009. Vicino al cuore selvaggio si legge nella traduzione di Rita Desti, Adelphi, Milano 1987. Nella ristampa economica del romanzo, apparsa presso la stessa casa editrice nel 2003, la data di nascita di Clarice è erroneamente indicata nel 1925, anziché nel 1920, con la conseguenza che l'autrice avrebbe avuto «diciannove anni» al momento della pubblicazione del libro, composto effettivamente fra marzo e novembre del 1942. Sull'intensa reazione di Elsa Morante alla lettura di Spinoza (molto affine a quella di Clarice Lispector), è da leggere il saggio di Giorgio Agamben in Categorie italiane. Studi di poetica e letteratura, Marsilio, Venezia 1996. Sulla seconda nascita che consegue al processo di iniziazione, si legga, di Mircea Eliade, La nascita mistica. Riti e simboli dell'iniziazione [1958], trad. di Armido Rizzi, Morcelliana, Brescia 1974. La frase di Borges sul Gordon Pym si trova in Discussione [1932]: si veda il vol.I delle Opere complete, a cura di Domenico Porzio, Mondadori, Milano 1984. Delle Confessioni estatiche di Martin Buber, pubblicate la prima volta nel 1909, e in versione definitiva nel 1921, si veda l'edizione italiana a cura di Cinzia Romani, Adelphi, Milano 1987. 

  

Sola come Clarice, in Clarice Lispector, Le passioni e i legami, Feltrinelli, Milano 2013.

 

Emanuele Trevi sarà a Babel, Festival di letteratura e traduzione, sabato 15 settembre 2018 alle ore 16.00 al Teatro Sociale.

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