Speciale

Diario russo 22. La trimurti nera

10 Settembre 2022

Esiste un futuro dopo la guerra? È una domanda che assilla molti, e nel caso russo è inquietante porsela, a causa del progetto nazional-imperiale del Cremlino e delle sue peculiarità. L’autunno appena iniziato si è aperto con la lezione di Putin a Kaliningrad, seguita dal Forum economico dell’Estremo oriente, dove anche qui il presidente ha nuovamente ripetuto le sue convinzioni sul rafforzamento della Russia come conseguenza dell’operazione speciale, forse rinvigorito dal mancato avverarsi di previsioni catastrofiste nell’immediato avanzate con ostentata sicurezza nei media stranieri, ma di sicuro ignorando come si stiano aprendo crepe, probabilmente ancora piccole, all’interno del paese.

E non si tratta solo degli indicatori socioeconomici, che iniziano ad apparire gravi e pesanti, con gli stabilimenti dell’AvtoVaz ancora in prostoj, specie di cassa integrazione alla russa, perché non si riescono a rimpiazzare ancora migliaia di componenti, e i calcoli della Banca centrale, ma del credere alla propria missione e a ore di propaganda televisiva, che porta a far temere un ulteriore inasprimento della situazione. Certe volte, ascoltando Putin e il suo entourage, tornano alla mente le parole di una canzone dei Massimo Volume, Seychelles ‘81, quando si dice Ma io non ho speranza, io ho fede, in un atto di autoconvinzione necessario a scacciare brutti pensieri.

Vi è però chi è sinceramente convinto di dover andare avanti nell’opera di distruzione dell’Ucraina, invocando la mobilitazione generale e l’estensione della guerra a Ovest, perché vedono nel conflitto la realizzazione delle proprie idee di rigenerazione nazionale, di palingenesi imperiale, in una parola, di una nuova era segnata da richiami aperti al neofascismo europeo, da pulsioni misticheggianti e da un ultranazionalismo messianico. Konstantin Gaaze, politologo di non comune acume, in un articolo sulla rivista web Republic ha definito quest’area la “Terza via”, o “Terza posizione”, alludendo nemmeno tanto implicitamente all’adesione del suo rappresentante più noto, Aleksandr Dugin, all’eredità del neofascismo e della Nuova Destra europea.

Spesso e volentieri erroneamente indicato (anche per propria vanità) come ideologo di Putin, Dugin nello scenario politico russo non ha mai occupato un ruolo centrale, anche quando ha provato con tutte le proprie forze a emergere, riuscendo però a trovare un influente protettore e alleato in Konstantin Malofeev, oligarca monarchico e nazionalista, finanziatore di campagne complottiste in Russia e di forze nazional-populiste all’estero. A questi si aggiunge un altro biznesmen alquanto opaco, il patron della Wagner e proprietario di holding nel mondo della ristorazione Evgenij Prigožin, e la vicinanza tra i tre è balzata agli occhi in occasione dell’ultimo saluto a Dar’ja Dugina, uccisa nell’esplosione della sua macchina il 20 agosto: Malofeev per tutto il tempo della cerimonia non si è mosso dalla bara, dove sedeva con i genitori della giornalista, e il “cuoco di Putin” si è recato a rendere omaggio al feretro.

Un trio particolare, dove Dugin è l’ideologo, Malofeev lo sponsor e Prigožin il braccio armato, figure che nelle atrocità della guerra sono avanzate di grado nell’establishment russo, rappresentandone la parte più radicale e risoluta. Una trinità, ironie della storia, molto vicina alla tripartizione tanto cara a Dugin della società tradizionale, in grado di poter giocare la propria pericolosissima partita sulla pelle dei russi e degli ucraini: i battaglioni della Wagner hanno una funzione importante nella guerra, e reclutano nelle prigioni condannati a crimini d’ogni tipo promettendo loro libertà, onori e il dominio della vita e della morte nei villaggi e nelle città d’Ucraina, al fianco di quei combattenti delle varie formazioni ultranazionaliste e neonaziste tempratisi in otto anni di battaglie.

Una convergenza che ricorda più alcune esperienze delle dittature latinoamericane, dalla Tripla A argentina alla Patria y Libertad cilena, di quanto sia stato prodotto dal nazionalismo russo finora, e con contatti internazionali in Europa e negli Stati Uniti con organizzazioni sociali e politiche all’insegna della xenofobia e dell’estremismo religioso. Una marea nera il cui nemico non è il 1917 o il Nuovo ordine mondiale, ma il 1789, come enunciato in una riunione voluta da Malofeev nel 2014 per i duecento anni dalla Santa Alleanza, e ancor più decisa nel voler costruire la propria retrotopia ad ogni costo, cementata dal culto della morte come sacrificio supremo. Oggi in Russia se improvvisamente Putin scomparisse per qualsiasi motivo nessuno saprebbe cosa fare con la guerra, constata Gaaze, a differenza della trimurti nera, pronta a sprofondare il pianeta nelle fiamme della distruzione totale.

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