Ucraina, vita di guerra

12 Dicembre 2025

“Nonostante le quotidiane notizie tragiche, gli ucraini non hanno perso il senso dell'umorismo. Scherzare è forse il modo più economico di mantenersi ottimisti”. C’è quasi tutto Andrei Kurkov in queste parole, c’è un paese e una storia, e c’è anche, scrivendo nel novembre 2025, una tristissima attualità. Leggendo La nostra guerra quotidiana, che esce con Keller in traduzione (dall’inglese) di Elisabetta Venturini, si fa un viaggio in quella cosa imprendibile, alchemica, che è il carattere, lo spirito di un popolo. Nel senso orwelliano, cioè nel senso di quell’amor di patria sempre ironico, non fanatico, mediato dallo scetticismo, che lo scrittore britannico riservava per esempio alle ragazze inglesi “con le gambe sempre livide dal freddo e i denti storti” che continuava ad amare osservandole sciamare al lavoro in bicicletta, o alla pianta di aspidistra, sciupata e squallidina, che faceva bella mostra sui davanzali londinesi e che nonostante lo smog e le intemperie e l’aspetto non esaltante andava fatta garrire come una bandiera, perché incarnava la resistenza indomita, l’attaccamento pratico alla vita dei suoi connazionali. Le bombe avrebbero reso più chiaro e nitido questo spirito, esattamente come i missili e i droni russi che filano sulla testa di Andrei Kurkov e degli altri milioni di persone con lui non fanno che rivelare di che pasta siano fatti, giorno dopo giorno, gli ucraini. Kurkov è autore, tra gli altri, di Death and the Penguin, romanzo pubblicato originariamente nel 1996 e tradotto in molte lingue (in Italia col titolo Picnic sul ghiaccio, con Garzanti e poi con Keller), e poi di L’angelo del CaucasoI pinguini non vanno in vacanza (che è il seguito di Picnic sul ghiaccio), mentre negli ultimi anni ha inaugurato la serie “I misteri di Kiev”, con Marsilio (primo episodio L’orecchio di Kiev, poi Il cuore rubato). La nostra guerra quotidiana, che è un diario, è il terzo a sua volta di una serie: questo copre il periodo 1 agosto 2022 - 22 aprile 2024, i precedenti, Diario di un'invasione (2023) e Diari Ucraini (2014), sempre per Keller, erano dedicati rispettivamente ai primi mesi dell’invasione russa e a Euromaidan. 

Il testo di Kurkov ci regala una panoramica unica della vita quotidiana in Ucraina durante il conflitto, al di qua del campo di battaglia, tra le difficoltà causate dalla guerra, come le interruzioni di corrente e i bombardamenti e la mobilitazione, ma evidenziando anche la continuità della vita civile attraverso il teatro, il volontariato, la musica. Vengono descritti atti di tradimento e collaborazione, insieme a storie di eroismo e solidarietà tra cittadini e militari. Assistiamo ai momenti salienti del conflitto: la liberazione della regione di Kharkiv nel settembre 2022; le prime terribili notizie sui campi di filtraggio putiniani; la liberazione di Kherson nel novembre 2022; le aspettative riposte nella controffensiva ucraina della primavera 2023 e il suo insuccesso; la “finestra di opportunità”, come Kurkov la definisce con esatto vocabolario kissingeriano, offerta dalla marcia verso Mosca di Prigozhin. Attraversiamo due inverni di guerra, due Natali. Nella prima parte del libro facciamo ritorno con l’autore e la moglie Elizabeth dal “villaggio” dove hanno una casa, a una settantina di chilometri a ovest di Kyiv, alla loro residenza nella capitale, con lei che carica l'auto mettendo nel bagagliaio un tappetino da yoga per stare più comodi nel corridoio di casa in caso di raid aerei. Appena entrati nella regione di Kyiv sentono un rumore anomalo alla macchina: un meccanico spiega poi che si trattava della risonanza causata dalle superfici stradali danneggiate dai carri armati e dai mezzi pesanti. Le “cose” che Kurkov accatasta vanno dalla stagione teatrale di Odessa ai taglialegna di Zhytomyr, dalle api di Bakhmut che un agricoltore consegna a un volontario quando il suo alveare si ritrova nella zona di guerra, e che si fanno settecento chilometri col nuovo proprietario, che è di Cerkasy, attraversando il paese, al Rosh ha-Shana, il capodanno ebraico, a Uman, dove è sepolto il mitico rabbino Nachman, con le frotte di pellegrini che non si fermano nemmeno sotto le bombe. E ancora, la stagione dei funghi in Transcarpazia, dove a fine settembre già è caduta la prima neve, fino agli anziani delle communalke di Kyiv la cui paura più grande è restare bloccati in ascensore durante il prossimo blackout. Contemporaneamente, l’occhio vispo di Kurkov si imbatte nelle piccole miserie della guerra, come la storia fantastica del camion fermato durante un controllo di routine alla dogana di Odessa, teoricamente diretto a un’organizzazione benefica ucraina per le vittime di guerra, e che invece contiene ventidue tonnellate di gamberi surgelati; o dell’altro tir che in luogo di aiuti umanitari viene ritrovato pieno di giacche e completi di Armani, Chanel, Hugo Boss, Louis Vuitton, Prada e Versace: “secondo una dichiarazione della dogana di Odessa, questi prodotti erano destinati al personale militare della centoventiduesima Brigata di difesa territoriale. Però nessuno si ricorda di aver visto i combattenti della brigata con indosso le giacche di Hugo Boss”. 

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Comincia quasi sempre così Kurkov, da un episodio, una vicenda apparentemente irrilevante, per poi darle la dignità di una storia, e con una digressione divagare, zigzagare tra argomenti, e ritornare infine, ad anello, nelle ultime righe della pagina di quel giorno, all’episodio originale. Ci si è esercitati per descrivere di volta in volta questo espediente in Joseph Roth o Sebald, quando trasformano un dettaglio minimo in una chiave d’interpretazione del mondo. Ma a cosa serve un diario, si pensi a quello straordinario di Samuel Pepys sulla Londra seicentesca, oltre ovviamente alla natura di documento storico? Finita la lettura di La nostra guerra quotidiana si ha la sensazione che quello che abbiamo fatto in questi quasi quattro anni, e cioè seguire giorno per giorno la cronaca della guerra attraverso giornali e televisioni, magari anche sforzandoci di approfondire, di leggere riviste di geopolitica o di strategia militare, non sia stato lontanamente esauriente. Non l’avevamo davvero capita, nel senso che è questo un caso in cui la scrittura dà un bagaglio di informazioni talmente diverso rispetto alla compilazione delle notizie da farci vedere qualcosa in più. È la descrizione di quella che, pur tra mille eccezioni, chiamiamo di solito “routine” delle nostre vite di moderni. Solo che qui la routine è invasa dalla guerra, schiacciata, compressa. Assomiglia a quel nodo alla gola che prende chi prova ansia o angoscia. A differenza di altre condizioni psicologiche, l’ansia può non essere invalidante rispetto alle attività del giorno, anzi, spesso acutizza i sensi e stimola all’azione, quasi frenetica. Ma è come un fondo che non abbandona il tempo finché c’è, e lo condiziona. “Perfino durante una guerra l’avvicinarsi dell’anno nuovo fa sentire più rilassati”, scrive Kurkov il 31 dicembre 2022: è Capodanno. Come si concilia l’essere in festa con l’essere in guerra? Ci sono alcune belle pagine in cui lo sguardo del narratore si muove da un luogo all’altro della sua Kyiv subito dopo un bombardamento, da una giovane oncologa uccisa da un missile a un’inserviente di un salone di bellezza che continua a fare la manicure alla cliente nonostante stia suonando l’allarme bomba (“verrebbe da pensare che la bellezza sia più importante della vita!”), e poi musicisti e contadini, professori universitari e negozianti… La danza di Kurkov tra figure di un’umanità intensa, nella loro pluralità, costruisce l’affresco. Alla fine li vediamo in faccia, gli ucraini, con la stessa chiarezza con la quale il cielo di Kyiv si rivela in una notte funestata da un blackout, o dal razionamento elettrico.

Nel commentare la liberazione di Kherson, l’autore menziona quell’episodio incredibile e macabro, notato anche da Anne Applebaum, e cioè che prima di ritirarsi i russi hanno riesumato e sottratto le ossa del principe Potëmkin. Commenta: “con tutta probabilità sono state portate a Mosca. Magari la chiesa ortodossa russa sta pensando di elevare alla santità quel donnaiolo edonista”. E aggiunge: “hanno razziato anche il minuscolo zoo di Kherson… hanno rapito un asino, due pavoni e un procione. Quest’ultimo non voleva mica andarsene e ha opposto un’agguerrita resistenza”. Kurkov ha spesso fatto notare che il sense of humor è una parte essenziale della cultura ucraina. Prendiamo questa frase che nel suo stile laconico sembra tratta da quei repertori di battute di sopravvivenza che facevano i cittadini sovietici: “benché le statistiche indichino che i giovani ucraini in generale non siano credenti, è convinzione comune che il numero degli angeli nel cielo d’Ucraina stia crescendo”. Il “black humor” ucraino è un umorismo che nasce contro la tragedia, non per negarla ma standoci dentro, per prenderne le misure, per non esserne schiacciati. E non solo si accompagna come un guanto al carattere di Kurkov, è proprio manifestazione del mood nazionale, abituato a sopravvivere a carestie, conflitti atroci, l’Holodomor, il regime sovietico, e ora questa guerra di aggressione... Già centocinquant’anni fa Ivan Nechuy-Levitsky, nel bellissimo “Destino di una famiglia ucraina”, tradotto ora per Bonfirraro da Alessandro Achilli, esplorando la vita assai agra delle campagne zariste nell’Ottocento riusciva a scherzare e far ridere (molto), con i giovani fratelli protagonisti che commentavano le ragazze del paese: «Se fosse per me, io mi sposerei Palažka». «Palažka ha gli occhi all’infuori come le rane, poi è gobba come una vecchia». «E allora sposati Chivrja. Chivrja è perfetta». «E sì che è perfetta! Cammina così leggera che sembra che stia schiacciando i semi nel mortaio». «Ma quanto sei capriccioso! E allora sposati Chotyna Korčakivna». «Sei impazzito? Se Chotyna guarda fuori dalla finestra i cani vanno avanti ad abbaiare per tre giorni, sembra che il diavolo l’abbia presa a mazzate», e così via. C’è un video che circola online, prodotto da Tytanovi, un’iniziativa dedicata a sostenere persone che hanno perso gli arti a causa della guerra (https://tytanovi.com/). In esso si vede un soldato che dice: “il mio sogno da ragazzino era un pene che arrivasse a terra”. La camera allarga il campo, e si vede che il soldato è amputato dalle ginocchia in giù. E lui: “bisogna stare attenti a quello che si desidera, nella vita”. Scherzare si può, forse si deve, anche sull’orrore della guerra. Anche se lo stesso elegante cimitero monumentale asburgico di Lyčakiv, nel quale si davano appuntamento gli hipster galiziani nel romanzo di Kurkov del 2014 Jimi Hendrix a Leopoli, oggi è affiancato dall’enorme camposanto dove è seppellita sotto un mare di bandiere gialloblù la gioventù del paese.

Gli ucraini vanno avanti. Kurkov va avanti. Senza nemmeno nascondere i drammi che lo attanagliano. Come la questione della lingua. Kurkov è, lo ricordiamo, un autore ucraino di lingua russa, che a febbraio 2022 ha deciso di smettere di pubblicare le proprie opere di narrativa nella loro lingua originale. La lacerazione non potrebbe essere più evidente, e l’autore non la nasconde. Da una parte, come molti, animato dal migliore degli intenti, vorrebbe che si potesse per le vie di una città discutere tra nativi in due idiomi diversi, in pace. Dall’altra, come ha notato Javier Cercas, le lingue hanno smesso di essere considerate neutrali almeno all’alba degli Stati nazionali, cioè secoli fa. Figurarsi oggi, durante una guerra di aggressione. Figurarsi quando il vicino di casa è un totalitarismo che rivendica l’identità tra lingua parlata e affiliazione nazionale come scusa per invaderti. In tutto questo, tenere una posizione cristallina come quella di Kurkov dev’essere un’impresa difficilissima. E non si può non fermarsi col fiato sospeso, pieni di ammirazione, di fronte a righe come queste: “Moralmente sono preparato al fatto che i miei libri non saranno pubblicati nella lingua in cui li scrivo. Il russo diventerà la mia lingua ‘interiore’, proprio come l’ucraino era la lingua interiore del mio amico di scuola obbligato a parlare russo tra i banchi, mentre usava l’ucraino a casa con i genitori. A essere sincero, capisco che per me autoidentificarmi come ucraino è più importante della mia lingua madre. Essere ucraino, soprattutto adesso, significa essere libero. Io sono libero. Esercitando questa libertà, mantengo il diritto alla mia lingua madre, anche se questa si è guadagnata lo status di ‘lingua del nemico’”. 

È in questo contesto che l’autore rivendica la sua intimità, che non è certo opposizione polemica al rinnovato patriottismo o “fronda” ambigua verso una democrazia in guerra, anzi (il libro è dedicato “ai soldati dell’esercito ucraino” e si chiude significativamente con le parole “…la vittoria”); semmai è un rifugio personale, estremo e disperato, intoccabile, dove mettere gli affetti, i pensieri, la famiglia, l’orticello, le abitudini, il buonumore. Nel commovente discorso di accettazione di un premio di letteratura islandese, riportato nel libro, Kurkov si ritrova a “sognare un’isola”. Un po’ bambino che fantastica di Robinson Crusoe e un po’ preso dal desiderio di evasione, non tanto per sé stesso ma per il proprio paese, sempre preda di ambizioni e desideri di conquista: “vorrei che domani l’Ucraina fosse un’isola, ma non come la Corea del Nord, un’isola di democrazia”.

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