Paolo Rosselli: giocare con le città

10 Dicembre 2025

Come fotografare un’architettura senza tradirla, senza imbellettarla e renderla un estetizzante monumento fuori dal tempo e dal luogo in cui si trova? Come cogliere le rapide trasformazioni urbanistiche e sociali che sembrano rendere le città simili a esseri mutanti, dove basta cambiare quartiere per sentirsi precipitati in tutt’altro luogo, in tutt’altra storia? Questa impresa da equilibrista dello sguardo, capace di tenere assieme fotografie che inseguono i cambiamenti urbani e invenzioni visive mai scontate, certo non è facile. Eppure tale “miracolo” riesce a Paolo Rosselli, come si può vedere nella sua mostra allestita alla Triennale di Milano (Mondi in posa, fino al 6 gennaio, a cura dello Studio Paolo Rosselli, con la collaborazione di Francesco Paleari, Cecilia Da Pozzo e Giacomo Quinland, Catalogo Electaphoto). 

Una mostra il cui nucleo centrale è costituito da immagini scattate fra il 2000 e il 2025, ma con alcune digressioni fin quasi agli esordi dell’autore, come quelle dedicate agli interni delle case, al Rinascimento italiano e all’India. Un Paese quest’ultimo in cui Rosselli si reca nel lontano 1981, quando una rivista lo invia a fotografare i mitici edifici di Chandigarh, progettati da Le Corbusier. Ma che lui insisterà a visitare ripetutamente, assieme al Bhutan e al Nepal, quando viaggerà con lo storico dell’arte Arturo Schwarz che lo vuole al suo fianco per fotografare templi e sculture. Nutrito più a chicken tikka che non a pizze e tagliatelle, più avvezzo al caos vitale e cangiante delle smisurate megalopoli asiatiche che alla placida Pianura padana, Rosselli assorbe dall’India uno sguardo “diverso” da quello dei cosiddetti fotografi di paesaggio italiani, capeggiati da Luigi Ghirri. 

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Paolo Rosselli, Chandigarh 1981.

Uno sguardo che, anziché impegnarsi in una registrazione fedele e affabile del territorio, riesce a proporsi come un concentrato di esperienze molteplici, di segni sovrapposti, di elementi spuri da accogliere con un tocco giocoso. Laureato in architettura, assistente per breve tempo di Ugo Mulas, nipote di Giò Ponti e pure con un padre architetto, Rosselli ha certamente tutti gli strumenti per leggere e capire l’architettura e le città, ma sarà sempre “un battitore libero” che segue un proprio percorso molto personale, una sua visione ben distinta, pur conoscendo a fondo il mondo della fotografia nazionale e internazionale con cui si è sempre confrontato. Nonostante le immagini di Rosselli sembrino porsi quasi in antitesi con quelle rigorose e un po’ metafisiche di Gabriele Basilico, anche il nostro autore non tradisce mai una delle regole del buon fotografo d’architettura, cioè evitare sempre le linee cadenti degli edifici che ritrae. Per il resto, il suo motto sembra essere sempre stato: massima libertà di slanciarsi gioiosamente nello sperimentare di tutto e di più, compreso passare con entusiasmo dalla fotografia analogica a quella digitale, con annessi interventi in postproduzione, così da rendere le immagini più corrispondenti possibile alle sue idee, ai suoi desideri, e meno obbedienti invece ai voleri tonali e coloristici delle pellicole. Tant’è che a Tokyo, nel 2006, fotografa in primo piano una Porsche alle spalle della Prada Boutique di Herzog & De Mauron, edificio che, con la sua superficie composta di vetri romboidali concavi e convessi, pare ora divertirsi a riflettere il rosso dell’auto e l’azzurro del cielo. 

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Paolo Rosselli, Tokyo 2006.

Con lo stesso stile disinvolto, eccolo poi cimentarsi con il Bosco Verticale di Stefano Boeri: Certamente lo fotografa verticale, ma lo “mozza” e ne riprende solo 4 o 5 piani, non di più; di conseguenza, a notarsi maggiormente è una sfarzosa auto blu che in quel momento sta passando lì davanti e una vetrata retrostante protesa a riflettere i grattacieli del quartiere di Porta Nuova. Che cosa ci vuole mostrare allora un’immagine del genere? Ci sta indicando la città riflessa, o preferisce sottolineare l’auto in transito (il lavoro è composto da due immagini successive in cui la si vede avanzare), o piuttosto intende lasciar primeggiare, malgrado tutto, l’edificio verdeggiante di Boeri? Si direbbe che per Rosselli, più che fotografare con cura un singolo soggetto, conti in primo luogo eliminare ogni gerarchia, tenere tutto insieme e far prevalere il senso visivo d’insieme, che risulta dalla inopinata fusione tra edifici, persone, auto, riflessi e colori. A Bilbao, ad esempio, invece di riprendere da vicino il Guggenheim Museum di Frank Gerhry, Rosselli lo fotografa inopinatamente riflesso dalla vetrina di una pasticceria che sfoggia cialde da gelato, le cui forme paiono buffamente ispirate all’edificio stesso. D’altra parte i riflessi delle vetrate sembrano essere la sua passione, così come le automobili, tanto da proporci pure una serie d’immagini – Scena mobile – in cui spicca sul cruscotto dell’auto che sta guidando una bambolina manga, sorta di guida dotata di qualche magico potere. È infatti come se fosse la bambolina stessa a decidere dove guidarlo e che cosa mostrargli, mentre lui accetta la parte del visitatore divertito e smarrito in una labirintica città in trasformazione… Certo c’è dell’ umorismo giocoso in questo suo fotografare stravaganti cartelloni pubblicitari dispersi per le città piuttosto che , a Singapore, mucchi di mandarini davanti a due colonne simil romaniche a loro volta incornicianti un cupo portone metallico. Sommersi come siamo da una noiosa seriosità, lui ha il coraggio di trasformare la rigida razionalità dello sguardo sul mondo in qualcosa di più invitante e giocoso.

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Paolo Rosselli, Bilbao 2006. Guggenheim Museum, Frank Gehry.

Però, come tutti i giochi, anche quello cui si dedica Rosselli ha la sue belle regole e i suoi perché. Lui non ha uno sguardo nostalgico, non vuole giudicare nulla (l’ironia con il suo tocco critico, distaccato e mordace, è ben lontana da lui), non riordina il caos cittadino anzi lo mima, lo moltiplica con giochi di riflessi (come nella serie Specchi, riflessi) come se dovesse comprimere in una sola immagine un groviglio urbano fatto di strade, persone, auto, capannoni, negozi, luci, cartelli stradali, rumori e quant’altro. Invece di scattare immagini placide e ben composte, cercando di dare una forma armonica al caos, lo accetta come un elemento vitale, anzi lo insegue lasciando che la sua fotografia si dilati in ogni direzione, accogliendo intrusioni e intrusi, elementi casuali o divertiti. Per Rosselli la città è un conglomerato o una miscela di ingredienti interconnessi e spesso disordinati , eppure per certi versi attraenti, dotati di tratti molto umani. Lui è una sorta di flâneur che percorre le metropoli del mondo, le osserva, le ascolta, “le annusa”, ne coglie il “clima” – come lui stesso ama definirlo. 

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Installation view della mostra,foto Giancluca Di Ioia © Triennale Milano.

A volte addirittura pare volerne moltiplicare la complessità, come nella serie Behind the Camera, in cui riprende varie città del mondo inquadrate dietro il mirino di una fotocamera o raddoppiate dallo schermo posteriore delle macchine fotografiche digitali. Tale operazione potrebbe sembrare una trovata divertente e pure un po’ spiazzante. Certo un po’ lo è, ma c’è ben di più, come rivela la sua serie Montaggi, dove dall’alto riprende vedute di città lasciando sempre ben in evidenza il punto stesso da cui le riprende, sia esso il bordo di una finestra, un balcone o una vetrata un po’ sporca. Il fotografo, per lui, non dovrebbe infatti simulare di non esserci, fingere di avere una visione imparziale e oggettiva. Rosselli dichiara i suoi singolari punti di vista, mettendo sempre in gioco il suo specifico approccio personale. Eppure non c’è niente di narcisistico e autocentrato in tale operazione visiva, se mai l’opposto. È un po’ come se volesse “mettere le carte sul tavolo” e dirci: io ero lì quel giorno, e ve lo faccio sapere, ma avrei pure potuto essere da tutt’altra parte, su un altro grattacielo o affacciato su un balcone diverso. Sottolineare il proprio punto di vista d’osservatore si rivela infatti un modo per avere un primo piano visivo che introduca la vista panoramica e funzioni come una sorta d’invito all’osservazione. E non finisce qui. Soprattutto di fronte alla serie Behind the Camera, viene da pensare che lui si stia divertendo a dichiarare di non essere lui il responsabile di tali strane immagini, ma una sorta di suo «alter ego indisciplinato che lo ha temporaneamente soggiogato» o che è «l’apparecchio a fotografare e non lui»– come scrive in una delle varie interviste presenti nel catalogo della mostra.

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Paolo Rosselli, Tokyo 2006.

Grande fotografo d’architettura, Rosselli ha collaborato con le più celebri riviste di settore, come “Abitare”, “Lotus” guidata dal bravissimo Pierluigi Nicolin , e “Domus” quando era direttore Stefano Boeri. Riviste che, oltre a lasciarlo libero d’interpretare a modo suo l’architettura, lo stimolano – come farà Boeri – a creare qualcosa di nuovo, d’inaspettato, di personale. E lui di certo non si sottrae: così si diverte a incorniciare, tra due portoni metallici arzigogolati e vecchio stile, la bianca e rigorosa Casa da Música di Rem Koolhaas a Porto; o a rispecchiare sul cofano di un’auto la colorata Louis Vitton Foundation di Frank Gehry a Parigi; oppure a far emergere da dentro un’automobile, nel traffico, una smagliante Agbar Tower di Jean Nouvel a Barcellona, con il suo smagliante luccichio di vetrate: un gioco di riflessi che, per di più, lui ha esaltato in postproduzione aumentando saturazioni e contrasti – come racconta soddisfatto nel suo libro Sandwich digitale. La vita segreta dell’immagine fotografica ( Quodlibet, 2009). Certo per i “puristi” della fotografia documentaria tali interventi sono un po’ blasfemi, ma Rosselli ha fatto proprie le riflessioni di Osip Maksimovič Brik, critico letterario e teorico dell’arte negli anni gloriosi della rivoluzione russa, Il quale scriveva: «Il cinema e l’occhio fotografico ci possono mostrare le cose in una configurazione nuova e dovremmo mettere a profitto questa possibilità». Dunque perché, grazie al digitale, non lanciarsi in visualizzazioni nuove, sperimentali? Cosa che Rosselli fa alla grande e a volte in modo evidente, come nella splendida immagine di una veduta di Tokyo alla quale ha sovrapposto, creando un’unica immagine, la piantina della città (non a caso tale foto campeggia pure sulla copertina del libro Sandwich digitale).

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Paolo Rosselli, Rotterdam 2024.

Altra regola d’oro che Rosselli segue sempre: mai fotografare un edificio come un oggetto suggestivo che sembri saltar fuori dal nulla, ma mostrarlo nel contesto urbano in cui si trova e con cui mantiene una relazione anche temporale. In effetti, il tema del tempo è un’altra “passione” di Rosselli, come già si può notare fin dalle sue prime immagini delle opere di Le Corbusier a Chandigarh. Propone infatti due scatti del medesimo edificio osservato dallo stesso punto di vista, ma con le persone che gli si muovono attorno nel trascorrere del tempo. Un’operazione, questa, che egli riprende con insistenza anche più di recente, come nel caso del battello che scorre davanti al Bonnefanten Museum di Aldo Rossi (Maastricht 2016), mentre le nebbie del fiume si diradano. È come se tali immagini d’architettura ci dicessero: l’edificio è lì immobile, ma attorno a lui scorre la vita, tutto si muove e cambia nel tempo, anche la nostra visione. Una visione che sembra così anche voler suggerire qualcosa di aperto verso un futuro solo vagamente immaginabile . Certo, tale approccio visivo è stato influenzato anche dalla sua passione per il cinema, cui affianca quella per la letteratura, tanto da fargli dire: «Per la comprensione del mondo non posso fare a meno dei libri, degli scrittori(…). Tolstoj in Anna Karenina t’insegna a vedere forse più di un fotografo, come nella gara ippica a San Pietroburgo in cui racconta la scena sia dal punto di vista del pubblico sia da quello di chi corre in sella. Gli scrittori hanno una sensibilità molto sviluppata che mi aiuta a capire dove e come vivo oggi». (da un’intervista di Manuel Orazi “Klatmagazine”, 2018).

Ben allestita, con opere che meritavano di essere esposte proprio alla Triennale, la mostra di Paolo Rosselli non solo offre uno “spaccato” sull’architettura e sullo sviluppo contemporaneo delle città e delle megalopoli del mondo, ma giustamente valorizza l’opera di un grande autore un po’ trascurato dal mondo fotografico italiano perché fuori dalle correnti dominanti. Unico piccolo appunto: forse qualche opera architettonica avrebbe meritato più di un’unica immagine in mostra. Del Kiasma Museum di Helsinki, progettato da Steven Holl, è esposta in Triennale una singola fotografia che, certo, di per sé funziona, ma fa capire poco la complessità movimentata dei volumi rettilinei e curvilinei che, in questo edificio, si compenetrano l’uno dentro l’altro. In sintesi, io che ho perlustrato il Kiasma in largo e in lungo, come se fosse una calamita visiva, da questa specifica fotografia non l’avrei riconosciuto. Il Kiasma (dal greco chiasmós, incontro e incrocio di significati) è infatti una sorta di centro gravitazionale, un potenziatore di forze aperto verso la verdeggiante baia di Töölo e al contempo proteso verso la città. Da quell’unica immagine di Rosselli tutto pare invece solo rettilineo e semmai colpisce la folla di giovani protesi a prendere il sole nei tavolini esterni. Con le critiche mi fermo qui, per ricordare invece – grazie proprio a questa fotografia – la gioia dei cittadini di Helsinki quando finalmente esplode l’estate e la città quasi si ferma, si siede, addirittura si sdraia, per godersi quel sole che, nelle notti bianche, pare non voler tramontare mai.

In copertina, Paolo Rosselli, Helsinki 2001, Kiasma Steven Holl.

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