La luce di Rosalia
“Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità”. La massima, attribuita a Confucio, è da sempre il motto di Amnesty International, e quella candela, pur se avvolta nel filo spinato, brilla da più di sessant’anni. Alla necessità di mitigare l’oscurità ha fatto riferimento di recente anche Zohran Mamdani nel primo discorso ufficiale da sindaco di New York, rivolgendosi non soltanto ai cittadini della Grande Mela, ma all’America tutta: “in questo momento di oscurità politica, New York sarà la luce”. Su un piano retorico meno esposto ho pure registrato una dichiarazione della cantante Carmen Consoli in occasione della presentazione del suo ultimo disco Amuri luci: “la luce è la conoscenza, la verità, la bellezza. E anche questo, come l’amore, ahimè, non è nell’agenda dei nostri governanti”.
Il disco di Carmen Consoli è solo uno dei tanti progetti musicali apparsi negli ultimi mesi che sentono la necessità di evocare l’accensione e la tutela di una fonte luminosa. Shirley Manson, cantante del gruppo americano Garbage, nel presentare al giornale argentino Clarìn il disco Let all that we imagine be the light, ha dichiarato: “rifiuto le forze oscure perché sento che se permettiamo loro di travolgerci, cadremo nell'abisso. Dobbiamo immaginare qualcosa di meglio di ciò che abbiamo, qualcosa di più grande che possa portare la luce a più persone”. Quanto al cantante senegalese Youssou N’Dour, fra i protagonisti a fine anni ’80 della tournée Human Rights Now!, destinata a una raccolta fondi proprio per Amnesty International, sempre quest’anno ha pubblicato un disco intitolato Eclairer le monde – Light the world (illuminare il mondo). Ultima in ordine di tempo la cantante catalana Rosalìa, firmataria di un disco che si offre all’ascoltatore con un titolo che anziché preludere a una raccolta di frizzanti canzoni pop, pare uscito dal catalogo di un compositore colto e austero come l’estone Arvo Pärt: Lux.

Sulla copertina del disco, fasciata da un jersey firmato da ALAINPAUL, Rosalìa si presenta nei panni di una mistica fresca di vestizione e di trucco, come costretta in una camicia di forza, in quello che diremmo uno stato di estasi o forse di rassegnazione di fronte alla penitenza o alla mortificazione che la attende. Difficile non sovrapporle il fermo immagine quasi centenario della Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer o, meglio ancora, trattandosi pur sempre di un disco, la copertina di Fire of Love’s God di Sister Irene O’Connor, una vera suora che nel lontano 1973 pubblicò una raccolta di canzoni d’impianto folk psichedelico con un semplice sorriso stampato in volto, un disco riapparso, vedi il caso, una settimana dopo la pubblicazione del lavoro di Rosalìa.
Lux è suonato in buona parte dai musicisti della London Symphony Orchestra, posti sotto la direzione del compositore e direttore islandese Daníel Bjarnason. Gli arrangiamenti sono affidati fra gli altri alla compositrice portoricana Angélica Negrón, docente al Lincoln Center di New York, e alla compositrice, cantante e violinista americana Caroline Shaw, prima donna a vincere il Premio Pulitzer per la musica nel 2013 con l’opera Partita for 8 Voices, nonché musicista a suo agio in ambito di musica pop ed elettronica (si veda il recente Lady on the bike sotto il nome di Ringdown, a fianco di Danni Lee Parpan). Fra le/gli ospiti brillano, su tutte/i, la cantante islandese Björk e tre stelle della vocalità femminile contemporanea come la cantante di flamenco Estrella Morente, la catalana Silvia Pérez Cruz e la cantante portoghese di fado Carminho. A ciò va aggiunto che il disco è frutto di una gestazione di più di due anni e che è cantato in ben tredici lingue, fra cui l’arabo, l’ebraico, il giapponese, il latino, il mandarino, l’italiano (la canzone o, se preferite, il Lied Mio Cristo piange diamanti, che ha richiamato, in chi scrive, certe pagine di Franco Battiato) e il dialetto siciliano (la canzone Focu ‘Ranni).

La canzone cantata in italiano e scritta dalla stessa Rosalìa ci svela chi sia il suo Cristo che piange diamanti:
Mio re dell'anarchia
Mio astro imprudente preferito
E, più avanti:
Mio caro amico
L'amore che non si sceglie non si lascia cadere
Mio caro amico
Con te la gravità è graziosa e la grazia è grave
Che la luce di cui canta Rosalìa emani da una fonte divina risulta evidente in quasi tutti i brani del disco. Dall’apertura di Sexo, violencia y llantas (“Se solo si potesse vivere tra i due / Prima amare il mondo, e poi amare Dio”), in Berghain, dove c’è un po’ Vivaldi e un po’ i Carmina Burana (“Il solo modo per salvarci è attraverso l'intervento divino”, canta Björk in inglese), in Dios es un stalker (“Il mio silenzio colpisce, signora del mondo e delle idee / Tutti mi vogliono dalla loro parte, la mia casella di posta è piena / Vivo tra le nuvole lassù e il diavolo dà una mano”) o ancora in Divinize (“Attraverso il mio corpo puoi vedere la luce / Feriscimi e ingoierò tutto il mio orgoglio / So che sono stata creata per divinizzare”). Ogni canzone è ispirata a una santa, da Ildegarda di Bingen a Olga di Kiev, da Santa Rosalìa, patrona di Palermo, a Giovanna d’Arco. Dire che si tratta di un progetto ambizioso e dal respiro monumentale, quasi faraonico, è dir poco. È, anche, un disco che chiama fatalmente l’iperbole. Qualcuno ha scritto di misticismo femminista, sullo sfondo del perenne conflitto fra carne e spirito. Più prevedibile il dubbio sul quale molti recensori hanno pure indugiato: ma è un disco di musica pop o un disco di musica classica?, risolvendosi, come nel caso del New York Times, a rintuzzarne le ambizioni colte accostandolo, sul piano estetico, a Céline Dion o ad Andrea Bocelli piuttosto che a Donizetti o Mozart.

Alle perplessità del NY Times (la recensione era firmata da Joshua Barone, recensore di musica classica della testata), si sono contrapposte, poche ore dopo la pubblicazione del disco, e quasi a raffica, una serie di recensioni che annunciavano a gran voce il capolavoro. Quasi tutte, va detto, ad opera di critici d’ambito non colto. Sull’edizione brasiliana di Rolling Stone, ad esempio, si è potuto leggere che Lux “ridefinirà il dibattito sulla musica per gli anni a venire”. Su Pitchfork, testata di riferimento della musica indipendente, che Lux “diventa un luogo in cui pop e religione possono convergere sul terreno di una comprensione più profonda”. Per il resto, e limitandoci ai punteggi: The Guardian, 5 stelle su 5; The Independent, 5 stelle su 5; MusicOMH, 5 stelle su 5; NMR, 5 stelle su 5; Rolling Stone, 5 stelle su 5, The Times, 5 stelle su 5, e via di questo passo. La quasi unanimità nel riconoscere in Lux un capolavoro. La luce emessa dal nuovo disco di Rosalìa pare insomma aver folgorato buona parte della critica di settore.
Dopo aver ripetutamente ascoltato Lux mi sono accorto che lo stesso, dopo l’abbaglio iniziale, non aveva lasciato una traccia profonda in me, proprio come la scia di un fuoco d’artificio svaporato in cielo. La luce che emana, più che a una rivelazione mistica, a me pare piuttosto evocare uno straordinario spettacolo pirotecnico. Lo dico da spettatore ammirato, sia ben chiaro. Questo disco è straordinario, da qualunque punto di vista lo si consideri, e mi sentirei di dire persino qualunque sia il giudizio che se ne porti. È anche un disco esposto in modo particolarmente audace. Siamo tutti imperfetti agenti del caos, canta a un certo punto Rosalìa. Proprio come Björk, musa ispiratrice della cantante catalana, anche Rosalìa è perfettamente consapevole che la sua musica per colpire l’ascoltatore deve presentarsi come un combattimento all’ultimo sangue con il demone del disordine, sia questo d’ordine spirituale, emotivo o sentimentale. Da qui l’eccesso, che è poi forse, chissà, soltanto la visceralità del flamenco applicata al pop ed elevata alla massima potenza grazie alle orchestrazioni classiche. E se poi questo fosse frutto di un delirio de grandeza (titolo di una canzone dal disco precedente, Motomami) o di una felice intuizione che cambierà i destini del pop, lo dirà il tempo.

Più che un disco di canzoni, come ha argutamente annotato Kelefa Sanneh sul New Yorker, Lux si presenta in verità come un film d’autore o addirittura come un’installazione. Rosalìa come regista, prima ancora che come interprete. E questo mi pare l’aspetto più intrigante dell’operazione, ciò che in parte spiega da un lato l’entusiasmo di fronte a un’opera diversa da tutte le altre, dall’altro le riserve di fronte al fatto che il disco non si deposita in noi in quanto canonica esperienza d’ascolto. Un brano come Berghain, ad esempio, più che da movimenti pare composto da scene o da sequenze, da situazioni che sono insieme sonore, narrative e sceniche. Pare pensato col respiro di un racconto, di un cortometraggio o di un trittico di Bacon, come se la forma musicale avesse non tanto una funzione accessoria, ma fosse chiamata a vestire una narrazione di cui la musica è soltanto uno degli elementi. Il più importante ed evidente, ma non il solo. In questo senso sì, la domanda se Lux è in qualche modo un disco operistico, può trovare risposta affermativa. Si presenta sotto forma di disco, ma è probabilmente riduttivo misurarlo soltanto in termini musicali. È qualcosa di più, una performance che svolge una sua liturgia, un movimento che necessita di posture ieratiche e plateali, a immagine sì del melodramma ma prima ancora del flamenco (non dimentichiamo che Rosalìa viene proprio da lì, dal flamenco, che l’ha studiato fin da giovanissima alla Escola Superior de Música de Catalunya, e che il suo secondo disco El mal querer, fu nel contempo il suo lavoro di diploma e un successo globale), ma anche una sequenza di scene capaci di coniugare nel miglior modo le arie e i recitativi, l’epica e il lirismo, gli effetti speciali e la sostanza.

Lux si presenta soprattutto come un atto di fede nell’arte e nel potere salvifico della musica, al netto degli eccessi o dei difetti che potremmo cogliervi. Dopo aver terminato l’ascolto del disco mi è venuto spontaneo aprire la Breve storia eretica della Musica Classica di Alessandro Baricco pubblicata da poco, e riandare all’ultimo paragrafo. Sembra, ma si tratta sicuramente di un ulteriore e imperdonabile riflesso eretico, che l’autore stesse alludendo proprio a questo disco, di cui ancora ignorava l’esistenza: “incantano, le Madonne del Quattrocento, ora che sono vibrazioni di mondo e hanno cessato di essere spot di un potere, e ancora: un intero, fantastico patrimonio di bellezza si renderà disponibile a chi, disegnando con coraggio il suo presente, amerà farlo al riverbero della luce ereditata dai padri”, e ancora: “decisivo sarà il gesto di cui saranno capaci gli innumerevoli musici che ancora continuano a nascere”, e infine: “non succederà nulla se non a umani eleganti e audaci”. Nei suoi momenti migliori Lux di Rosalìa evoca questo: audacia, riverbero di antico chiarore, vibrazione di mondo. Alessandro Baricco non stava certo pensando a Lux quando scriveva queste parole, ma c’è da augurarsi che il futuro appartenga pur sempre a degli artisti eleganti e audaci, a condizione di lasciar loro tutta la libertà possibile e di non smettere mai di considerarci, noi tutti, degli imperfetti agenti del caos.