Sofora déshabillée

31 Luglio 2022

Elegante sempre. Anche in déshabillé, quando d’inverno dismette gli abiti della festa e mostra le linee sinuose dei rami. È la Sofora (Sophora japonica o Styphnolobium japonicum), giapponese solo nel nome, in vero originaria della Cina e introdotta in Europa nel Settecento per i suoi pregi ornamentali, tali da rendere ancor più esclusivi i giardini signorili. Oggi, democratica concessione, è essenza ben rappresentata nelle alberature e nei parchi urbani.

Così, d’estate, possiamo ammirare la leggera, nuvolosa fioritura color vaniglia dei grandi racemi all’apice delle fronde, portanti numerose, piccole sfarfallanti corolle tipiche della famiglia delle leguminose (o Fabaceae), cui pure la sofora appartiene. Lo spettacolo non vien meno quando, cadute, ricoprono il suolo di una polvere per un poco ancora luminosa e, al posto loro, pendono dai grappoli i frutti: legumi (lomenti) dalle caratteristiche strozzature che separano le sacche ovali dove alloggiano solitari i semi.

Attrattiva non minore sono le foglie d’un verde pastoso e al contempo brillante, composte da lamine lanceolate a margine intero, imparipennate e ad inserzione alterna. Somigliano a quelle della robinia (Robinia pseudoacacia), sua familiare, e per questo la sofora è detta anche robinia del Giappone, ma tanto più aggraziata, tanto più chic rispetto alla cugina yankee.

Come ben sanno i cinesi che la coltivano da tempo immemorabile, la sofora ha un uso farmaceutico: da germogli, fiori, foglie e semi si estrae la rutina, un principio attivo con proprietà diuretiche e depurative, usato soprattutto nella cura delle fragilità capillari. La rutina è un flavonoide, sicché la sofora è pure pianta tintoria, da cui si ottengono le tonalità del giallo.

Ne esiste una varietà pendula e, benché non simpatizzi con le piante ploranti, devo riconoscerle un fascino indubbio: i lunghi rami cascanti che toccano terra formano cupole verdi, naturali gazebo dove riposare in incognito, discrete alcove in cui amoreggiare in santa pace, schermati da sguardi importuni. I vecchi esemplari sono ancor più notevoli per le contorte nodosità che si diramano fino all’ultima e più sottile propaggine, come quello, monumentale, di Savorgnano del Torre (comune di Povoletto in provincia di Udine), degno del ritratto su seta di un antico pittore orientale.

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La letteratura cinese è folta di sofore, se ne incontrano in ogni piazza o slargo, strada di campagna o viale di città. Ne scegliamo un paio che ci vengono incontro da due dimensioni temporali e culturali lontane tra loro e diverse. 

Le prime sono tratte dalle Poesie del fiume Wang pubblicate da Einaudi nel 1957 nella traduzione di Martin Benedikter, ma che preferisco dare in quella di Giovanni Gallo, tratta dal suo sito. È un botta e risposta in versi tra Wáng Wéi, pittore e poeta paesaggista (699-759 d.C.)  tra i maggiori della dinastia Tang, e il collega P’éi Dí. Lo scambio in quartine si intitola Il sentiero delle sofore, dove le sofore sono dette «gōng huái», le sofore (huái) del palazzo (gōng), perché già in Cina erano alberi ornamentali destinati ai palazzi dei dignitari e ai cortili dei templi. 

 
 Wáng Wéi


Un sentierino obliquo all’ombra delle sofore,
quieto, nascosto, ricoperto di verde musco.                      
Mentre m’apron la porta, s’affannano a spazzare.            
Temono ch’io sia l’eremita della montagna.                 
 
Péi Dí


A sud della porta, il sentiero delle sofore                    
è la strada che conduce al Lago del Mastino.                  
Sono frequenti, sui monti, le piogge d’autunno.              
Cadono le foglie, ma nessuno le spazza via.              

La quartina di Wáng Wéi ha un che d’ironico: lui, alto funzionario di corte, poeta e pittore prestigioso, lontano dalla capitale è uno sconosciuto accolto con rispetto solo perché scambiato per l’eremita della montagna. La fama è sempre conquista precaria e relativa.

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Facciamo un gran balzo in avanti lungo l’asse temporale per il “prelievo” – è giusto il caso di dire – questa volta narrativo, e sfogliamo il romanzo di Yan Lianke, Il sogno del villaggio dei Ding (Ding shuan meng), pubblicato nel 2005 e censurato in patria, tradotto per i tipi di Nottetempo nel 2011 da Lucia Regola e, nel medesimo anno, fonte d’ispirazione per il film di Gu Changwei, Love for life (Mo shu wai zhuan). Come altri romanzi cinesi contemporanei di denuncia, anche questo narra di una tragica, scandalosa vicenda realmente accaduta nella Cina degli anni Novanta del secolo scorso. Qui il cadere delle foglie di sofora ha tutt’altro significato simbolico. 

A sconvolgere la vita tranquilla del villaggio dei Ding, nella provincia del Henan, è la sconsiderata campagna, avviata dal governo centrale, per la compravendita del sangue che, in cambio del miraggio di denaro facile, diffonde l’AIDS condannando a morte gran parte degli abitanti. A narrare la storia della famiglia più implicata nello scandalo è la voce di un suo giovane componente, un ragazzino dodicenne morto avvelenato per vendetta contro il padre, Ding Hui, che sul commercio del sangue ha lucrato, e senza le dovute precauzioni igienico-sanitarie, come lucrerà poi sulla vendita delle bare e sui matrimoni postumi. La vicenda, gravida di sviluppi nefasti, si apre sulla figura del nonno Ding Shuiyang, vecchio maestro di scuola che, consapevole delle responsabilità sue e del clan famigliare, cerca vanamente di convincere il figlio, avido e senza scrupoli, a chiedere scusa ai compaesani per le sue colpe. Sarà invece il vecchio a prostrarsi per tre volte davanti alla collettività e implorare il perdono e la remissione dell’odio verso la sua famiglia. Sarà sempre lui a dire la verità e ad attuare le indispensabili ma tardive pratiche di isolamento dei malati nella scuola del villaggio che, tuttavia, non fermeranno l’epidemia. 

Il nonno è un gran sognatore, e fin dalle prime pagine leggiamo di un suo sogno ricorrente e rivelatore:

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Le città di Weixian e di Dongjing, dove lui era stato, erano attraversate da una rete sotterranea di canali, come una tela di ragno, e in ognuno di quei canali scorreva sangue. […] Nelle città e nelle campagne i dottori piangevano disperati di fronte all’avanzare della malattia, ma al Villaggio dei Ding un medico, seduto tutti i giorni in strada, rideva. Sotto il sole dorato, nel villaggio muto dove tutti se ne stavano dietro le porte sbarrate, si vedeva solo quel dottore sulla quarantina, indossava un camice immacolato, posava a terra la borsa delle medicine e poi, poi si sedeva sulla strada ai piedi del vecchio albero di sofora e rideva. Sedeva su un sasso ai piedi della sofora e rideva. Rideva a crepapelle. Rumorosamente. La risata sfavillava emettendo un bagliore dorato e, proprio come il vento d’autunno che sferza senza posa il villaggio, scuoteva le foglie ingiallite che cadevano a terra l’una dopo l’altra.

 

Ed è sempre in sogno che rivede «nitida, chiarissima, la storia della vendita del sangue», una campagna partita nel villaggio come «un delirio», rapida e, si può ben dire, capillare. In poche ore nel villaggio sorgono numerosi centri di raccolta, tutto sa di sangue, anche l’aria:

 

Il terreno era tutto macchiato di sangue e di schizzi rossi di plasma, l’aria era costantemente impregnata dell’odore greve del sangue. E le nuove foglie verdi spuntate sui rami degli alberi di mogano, sugli olmi e le paulonie nella stagione primaverile, a furia di respirare ogni giorno l’aroma rosso scuro del sangue, avevano cominciato a tingersi leggermente di rosso. Le tenere e sottili foglie della sofora, nate da poco, che di solito in quella stagione la luce del sole dorava leggermente, facendo rilucere il verde scuro delle venature, quell’anno avevano assunto una nuova tinta rosa, mentre le venature erano diventate viola. Il centro di raccolta dell’ambulatorio veterinario si trovava sotto una sofora e, con tutto il sangue che avevano assorbito, le foglie gialle dell’albero nel giro di breve tempo erano inaspettatamente diventate rosse come quelle del cachi in autunno e anche parecchio più grandi e più spesse degli altri anni.

 

È poi da sotto la sofora posta al centro del villaggio che Ding Hui, fondata la sua banca del sangue, lancia la sua offerta al rialzo per sottrarre clienti alla concorrenza. Dieci anni dopo coloro che avevano venduto il sangue si ammalano e moriranno «come le foglie che d’autunno cadono a terra volteggiando». Anche la vecchia sofora «che tre uomini insieme non riuscivano ad abbracciare», e che era sempre stata «il luogo di raccolta dei compaesani ogni qualvolta era stato necessario convocare una riunione», cadrà, come tutti gli altri alberi del villaggio, sotto i colpi d’ascia degli abitanti, stretti dalla necessità di costruire le bare per i morti. 

Libro di sentimenti estremi, e doloroso, questo di Yan Lianke che, nella postfazione, chiede persino scusa al lettore per il carico di afflizione procurato. Ma libro dove, nel terribile flagello dell’epidemia e pure della siccità (come ci riguarda!), trova posto anche una trasgressiva, disperata, struggente storia d’amore, unico spiraglio di luce nel buio pesto. In un paese così legato alla medicina tradizionale basata sulla fitoterapia, vien quasi da pensare che, in questo romanzo, la sofora, pianta come si ricordava dalle note virtù curative del sistema venoso, non sia per accidente protagonista dei primi sanguinosi sogni del nonno Ding, velandoli di un effetto ossimorico, ironico e paradossale.

Comunque, sotto le sofore pendule intratteniamo rapporti erotici protetti, e non soltanto grazie alla loro cortina verde. 

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TAGGED: sofora , botanica , piante