Anniversario / Frankenstein 200, 44 e il sesso

1 Gennaio 2018

Se l’originale compie oggi 200 anni, la sua versione comica ne fa 44. Partorito nella Villa Diodati a Ginevra nel 1816 nel corso di un consesso letterario da alcuni personaggi oggi celebri, l’originale di Mary Wollstonecraft Godwin in Shelley s’intitola Frankenstein ovvero Il Prometeo moderno. Il suo discendente, più semplicemente, Frankenstein junior. La leggenda vuole che Gene Wilder abbia parlato dell’idea del film a Mel Brooks sul set di Mezzogiorno e mezzo di fuoco e abbia ricevuto un primo secco diniego: “Un altro ancora! Ma abbiamo già avuto il figlio di, il cugino di, il cognato di. Non c’è bisogno di un altro Frankenstein!”. Wilder propose il nipote del creatore del mostro, un medico che vive a New York, e che si vergogna del nonno. Non si sa cosa scattò nella mente di Brooks, forse la questione della vergogna, forse altro, fatto sta che esclamò: “Ma è divertente, si può fare!”. La Creatura di Mary Shelley è figlia della scienza settecentesca e della ricerca profana dell’Assoluto. La scrittrice inglese presenta ai suoi lettori un mostro, in un romanzo con cui inizierebbe, a detta di un illustre anglista, il genere fantascientifico. Mel Brooks e Gene Wilder invece propongono qualcosa di diverso: la Creatura come archetipo del Capitalista. Nella scena finale l’ex-mostro ora acquistato al consorzio umano è nel letto, indossa un paio di occhialini da lettura e ha aperto davanti a sé una copia del “Wall Street Journal”; la moglie, l’ex fidanzata del dott. Frankenstein neurologo, si prepara a entrare nel talamo dopo una cena mondana con suocero e famiglia. Sono sposati e lui appartiene oramai alla lobby newyorkese.

Anni fa Franco Moretti in un suo saggio propose il mostro-senza-nome di Mary Shelley quale immagine del Proletariato indomito in lotta con il nascente Capitalismo, prodotto abnorme dei nuovi sistemi di produzione che schiavizzano le masse contadine espulse dalle campagne e le aggiogano alla tecnologia del Capitale.

 

I due burloni di Hollywood mettono in scena il rovesciamento perfetto: l’ex proletario, il reietto, diventato il Padrone: un finanziere. Se ne saranno accorti? In realtà erano partiti per rifare in chiave comica l’intera progenie dei film scaturiti dal Frankenstein del 1931 interpretato dal magnifico Boris Karloff, al secolo William Henry Pratt, e tutti i suoi succedanei: La moglie di Frankenstein (1935), Il figlio di Frankenstein (1939) con Bela Lugosi, fino a La casa di Frankenstein (1944) con Glenn Strange nei panni dell’orribile creatura e Boris Karloff finalmente sollevato dal ruolo abituale di Mostro. Come ha sottolineato la critica, Frankenstein Junior riprende varie scene proprio dal secondo film della serie, e la recitazione di Gene Wilder risente dalla visione di tutte quelle opere cinematografiche: puro espressionismo tedesco pre-Hitler. Persino le scenografie usate dai due autori sono le stesse utilizzate dal regista del film del 1935, James Whale, conservate in un garage per quarant’anni. Per quanto Mel Brooks, interrogato dai critici, abbia negato di aver voluto fare una parodia di quei vecchi film dell’orrore, a tutti gli effetti è di questo che si tratta. L’etimo del termine “parodia” è: “vicino al canto”. In origine la parodia derivava dalla rapsodia, dalla poesia, e ne rovesciava il senso: dal serio al comico. Tutto il cinema di Brooks è fondato sul rifacimento e soprattutto sul rovesciamento. Si tratta di cinema sul cinema. Per questo piace: fa ridere. E fa ridere perché abbassa il modello cui s’ispira.

La seriosa storia di Mary Shelley diventa un film dell’orrore, e questo è già una variazione del modello di partenza; Brooks la trasforma a sua volta in parodia dell’orrore. Come ha fatto? Un’intera generazione di spettatori ha imparato a memoria le battute che Gene Wilder e Marty Feldman pronunciano nel corso del film; la loro origine si trova nell’umorismo ebraico, nella Freedonia hollywoodiana. Tuttavia l’umorismo ebraico non è sufficiente a spiegare il tema sottotraccia del film. Quello che fa scattare il Witz, il motto di spirito, è infatti il sesso. Certo, dietro alla parodia di Frankenstein Junior c’è il dottor Freud, seppur orecchiato in articoli e discorsi ascoltati nella mecca del cinema. Non è infatti necessario aver letto Freud per essere freudiani, basta essere ebrei e spiritosi.

Il sesso comincia con la scena sul binario del treno che porta il neurologo in Transilvania per raggiungere il Castello del nonno e riceverne l’eredità. Friederick Frankenstein (Gene Wilder) e la fidanzata Elizabeth (Madeline Kahn) devono congedarsi. Lui tenta di baciarla, ma lei con varie scuse lo blocca. Elizabeth, che appare carica di eros e apparentemente pudibonda, gatta morta, accetta il bacio con il gomito: comica allusione. All’arrivo nella Transilvania Station appare Inga (Teri Garr), oltre allo spassoso Igor (Martin Feldman) vero motore di battute e scherzi del film, lui stesso scherzo di natura. Il viaggio sul carro di fieno del dottore e di Inga è pieno di allusioni sessuali, sino a quella in cui il dottor Frankenstein allude ai due battenti del portone, mentre aiuta Inga a scendere dal carro (“Mai visti due così”), e lei ritiene l’osservazione riferita ai suoi seni. Insomma, tutto procede di allusione in allusione, compresa la figura di Frau Blücher (Cloris Leachman) dall’aspetto terribile – quasi una Kapo – ma anche amante innamorata del defunto Barone Frankenstein, quello che abbiamo visto nella scena iniziale mummificato dentro la sua bara: amore e morte. Eros e Thanatos sono svolti da Wilder e Brooks, autori della sceneggiatura, in chiave comica. Questa coppia dà il là al film e alla sua parodia; si passa dal “come se” della storia originaria, il film del 1935, al “così è troppo” di Junior. L’aggettivo-sostantivo Junior sta per “minore”, e anche per “più piccolo”, e il tema delle “dimensioni” è uno degli altri nuclei comici di questa pellicola. Che la chiave sia sessuale lo racconta anche un altro dettaglio: la gobba di Igor. Si racconta che Feldman l’abbia spostata a destra e poi a sinistra in diverse scene del film, e che inizialmente la troupe non si sia accorta di questo suo gioco. Non è difficile leggere in questa “malformazione” che cambia orientamento una delle varie allusioni sessuali.

Il tema delle coppie è uno dei meccanismi narrativi più importanti del film: Frau Blücher e il Barone, Inga e Fredrick, Fredrick e Elisabeth, Fredrich e Igor, Elisabeth e il Mostro. Ma anche Elisabeth e Inga: la prima è la donna virago, carica di eros prorompente, la seconda la donna-ancella dalla sessualità più sottile, ma non per questo meno evidente, dedita agli amori ancillari. Nella scena di sesso tra lei e il dottore – scene pudiche, in cui non si vede niente, in stile anni Trenta – i due prendono il posto del Mostro sul tavolo del laboratorio trasformato in talamo amatorio. A interromperli arriva Frau Blücher con la notizia che la fidanzata di lui, Elisabeth, sta per arrivare.

Ma è la Creatura, il Mostro, a definire l’aspetto sessuale dell’intera parodia comica. Il suo cervello è stato tratto da un “Abnormal”, invece che dal titolato Hans Delbruck, per un errore di Igor (si è spaventato della propria immagine specchiata e ha lasciato cadere il cervello buono). È lui il “minore”: il Mostro. Ha paura del fuoco. Si tratta della ripresa di un motivo del film del 1931, in cui Fritz, il servo, nano diabolico con accenti sadici, tormenta Boris Karloff-Mostro con una fiaccola. Il fuoco è una chiara metafora del desiderio sessuale, che la Creatura teme e da cui è nello stesso tempo attirato. La folla stessa dei cittadini a caccia del mostro (l’assemblea dei cittadini è una delle scene più divertenti del film) esprime la volontà di trovare il maniaco-sessuale. Ce lo conferma la scena con la bambina dove velatamente si allude alla pedofilia. Il Mostro è il “perturbante” del film, per dirla con Freud. La mostruosità della creatura è manifesta attraverso la forma del suo cranio, lo sguardo, le dimensioni del corpo, ma anche celata: la potenza sessuale. Il finale farà andare tutto a posto: quadratura del cerchio. Prima di arrivarci c’è però il rapimento di Elizabeth, oggetto del desiderio della Creatura, e la scena di sesso nel bosco. Elizabeth rivela la sua vera natura e dà sfogo al desiderio che tratteneva a fatica: tutto rinviato alla prima notte dopo il matrimonio. Il Mostro possiede doti sessuali che Elizabeth, ancora vergine in attesa del matrimonio, ha intuito, ma ancora teme. Il passaggio all’atto svela la natura del desiderio della ragazza. Fanno l’amore con soddisfazione. Lo rifanno sette volte (numero preferito di Elisabeth). Le due coppie, infine, si ridistribuiscono. Il dottor Frankenstein decide di conferire normalità al Mostro e s’immola sull’altare della scienza. La Creatura diventa così umana acquisendo la parola che gli mancava e anche il senno. Cosa riceve il dottore in cambio della parte del suo cervello donato da lui al Mostro? Lo scopre la moglie-assistente Inga, che finalmente convola a nozze con l’amante. Tutto finisce in gloria. Il gioco è fatto. Con la sua sottile comicità allusiva, probabilmente Mel Brooks ha reso visibile il non detto del Prometeo moderno di Mary Shelley. La sessualità è il vero rimosso di quella storia concepita da Mary Shelley con trasformazioni e manipolazioni, così come dei film che ne sono stati tratti, qualcosa che c’era ma restava sottotraccia e che lo spassoso film di Wilder e Brook rende invece perfettamente visibile usandolo come motivo comico. Ci fa l’occhiolino, come più volte Igor nel corso del film, ammicca, è malizioso, allude a qualcosa d’altro. La comicità è proprio questo, come nel perfetto freudismo hollywoodiano. Si ride utilizzando i luoghi comuni. Alla faccia del politicamente corretto.

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