Global Sumud Flotilla 4. In viaggio
L’attesa dopo l’attesa dopo l’attesa è estenuante, quando si è riusciti a liberare qualche settimana dal groviglio della vita quotidiana – con vacanze, congedi, accordi con le madri dei propri figli, promesse ai propri figli, permessi di soggiorno, genitori o nonni morenti, appuntamenti importanti, ci saranno anche cani e gatti ma di quelli nessuno parla.
Con la sensazione che ti danno i vecchietti che all’alba nei parchi di Hong Kong fanno Tai. Chi insieme, senza conoscersi o parlarsi, senza badare alla coreografia che proprio per quello è toccante: un conglomerato di concentrazione. Ecco, un po’ così tutti qui abbiamo consumato buona parte del tempo che abbiamo liberato soltanto per attendere.
C’è chi si è ritirato per questi motivi, ma sono una minoranza rispetto ai tantissimi scartati dall’organizzazione perché non c’è abbastanza spazio effettivo sulle barche, e perché la sicurezza e gli atteggiamenti sono importanti, anche se con un sistema di “Red flag” omologanti si è finiti per scartarne tanti tra quelli validi ed esperti.
Ma anche quelli che si sono ritirati per motivi pratici non si sono mai ritirati solo per quelli: sono la necessità e l’urgenza della missione che ci hanno permesso di districarci nelle vite in cui facciamo fatica ad avere un weekend libero, ma proprio per questo sono pure un’arma a doppio taglio. L’organizzazione dopo tre settimane di attesa ribadisce che ognuno è ancora libero di rinunciare, ma alludendo sempre anche alla gravità di cosa andiamo a contrastare, la grande forza ridimensionatrice. Che così ridimensiona pure la mancanza di trasparenza, decisioni che non vengono prese, motivazioni che non vengono date, per giorni e settimane. L’organizzazione è molto complessa, è impressionante vedere l’impegno che ognuno ci mette, ma vale anche per i partecipanti in attesa.

Siamo qui da fine agosto perché saremmo dovuti salpare il 4 settembre. Il 15 settembre, con le nostre barche pronte da tempo e nessuna conferma se non il ricorrente “domani” da quelle a Tunisi, dei capitani fanno il giro della nostra flottiglia di 17 barche all’ancora in Sicilia. Propongono di partire la sera: solo così si evita il Meltemi che incrocerà la nostra rotta con venti di 30 nodi e onde di 4 m. La ciurma della Wahoo!, la mia barca, aderisce e promuoviamo un’idea flessibile di flottiglia a ondate successive, che cercheranno di riunirsi prima di raggiungere Gaza, perseguendo obiettivi strategici diversi nel tragitto. Altre otto barche sono d’accordo, quando arriva la sera, però, non risponde più nessuno.
Nei giorni successivi noi continuiamo a proporre l’idea che le diverse onde formano un unico mare, che stiamo perdendo troppe persone, 2, 3, 5 ogni giorno, e l’attenzione dei media, e la passione popolare. E la nostra fiducia, e amori, lavori, eccetera.

Alla fine ieri, il 18 mattina, la Wahoo! salpa con altre sette navi verso il Peloponneso, se ne vedono solo tre dietro di noi, però. L’organizzazione ha parlato di ammutinamento, di espulsione. Promettono una riunione operativa appena torniamo e la partenza, di nuovo, domani.
Appena usciti dalle acque del porto sulla Wahoo!, accompagnati dalla tromba di Sid e dai saluti infiammati o dubbiosi delle altre ciurme, abbiamo sentito la gioia, la gioia covata per tre settimane nel fango del pollaio dell’attesa: è uno stupore lancinante, prendere il mare verso Gaza. È come un incubo bituminoso tornarcene in rada.
Ho dovuto dire a me stesso e alla mia ciurma che se il giorno dopo, il 19, oggi, non si salpa, avrei lasciato la missione. Ho dormito sul ponte per l’ultima volta (o perché me ne vado, o perché per mare mica si può fare…).

Oggi alle 8.30 UTC partiamo. Poca emozione, è uscita dal guscio ieri. Poche barche con noi, ma col benestare dell’organizzazione. Poi una seconda ondata parte alle 10.30, poi la nave madre ha un guasto e fa marcia indietro con altre navi di rifornimento.
Possono dirci di tornare indietro.
Non lo fanno.
La flottiglia si riunisce, più di 30 barche a vela in formazione, venute da tutti i porti dell’Europa, dall’Africa, scafi di legno vele e il vento. Il colore cobalto del mare. Le comunicazioni via radio. Il sole che splende, il sole che scende. Più di trenta barche in formazione, le minacce e le promesse del mare. I capitani fanno quello che sanno fare. Al mio è cambiata la voce e gli occhi di mare. Vele a perdita d’occhio intorno a noi. Sappiamo cosa siamo venuti a fare. Non siamo soli, siamo una flottiglia.
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