Global Sumud Flotilla 3. La partenza
Pensavo a Ulisse, prima di partire. Alla mia piccola Odissea al contrario, dall’amore (e anche quello all’inverso: la sua fine, la non fedeltà) verso la guerra, l’assedio che non finisce. Invertita in ogni suo aspetto, nella mia Odissea è la partenza che prende una piccola eternità. Settimane di ordini e contrordini, aspettative e attese, mentre il numero dei morti a Gaza cresce ancora e con loro gli affronti di Israele agli accordi internazionali (bombardamenti in Tunisia e Qatar, sfollamenti in Cisgiordania e soluzione finale a Gaza), di modo che alcune risoluzioni ONU e EU sembrano cure palliative per un paziente in piena crisi psicotica di onnipotenza, a cui non viene somministrata nessuna farmaco che sedi il suo delirio, e anzi le sessioni di abbracci e di canto corale prescritte dagli psichiatri che dovrebbero intervenire (la comunità internazionale) non fanno altro che incoraggiare i suoi raptus incensurati o omicidi (sempre presentati come giusti legali e necessari).

Anche queste settimane di preparazioni mi sembra di averle passate in un ospedale psichiatrico, ma uno in cui ogni delirio corrisponde alla realtà: la giovane multimilionaria che ha dato tutta la sua fortuna in beneficenza (25 milioni), il ragazzo che è andato in bici dall’Italia alla Cina, la madre che qui imbarcata con le due figlie, la delegazione malese che sa di rischiare fino a un anno di prigione in Israele.

Ho deciso di venire per partecipare a tessere un filo che unisca, che colleghi le parole ai fatti, a livello individuale e planetario, quindi non dovrebbe stupirmi che le persone qui con me siano grandi e piccoli tessitori in questo senso, Moire di se stessi, pronti a rischiare che sia tagliato il filo della loro vita pur di continuare a intessere quell’altro. Eppure mi stupisce. Queste sono le rivelazioni di questi giorni, e la nostra barca veloce, vulnerabile, e la ciurma, un piccolo mondo siamo in 10 di tutti i continenti e sentiamo che insieme siamo pronti a andare fino in fondo.
Ma in questi giorni più dell’Odissea è il labirinto che mi invita a rispecchiarmi (anche grazie al Racconto del labirinto di Ieranò). Il labirinto, in cui si entra per i motivi più svariati, e da cui si esce, se si esce, proprio grazie al filo di cui sopra.
Mi è sempre piaciuto pensare che dal dedalo si esce grazie al filo, della memoria, o al volo, dell’immaginazione. Invece adesso mi dico che così si esce dal labirinto quando non si è nel labirinto. O comunque non in quello in cui mi trovo io. Qui non posso fare affidamento su chi sono stato (memoria) o sulle mie armi (immaginazione). Qui bisogna diventare chi si riesce a diventare è trasformativo.

Nel secondo capitolo ho raccontato, senza saperlo, il momento in cui sono entrato nel labirinto, dove volo e memoria hanno smesso di essere le mie vele. Da quel momento ogni passo che ci porta verso il pericolo ci porterà, se lo ripercorreremo al ritorno, alla salvezza. Ogni passo ci allontana da chi siamo, da chi ha attraversato quella soglia, e combacia con il passo di chi ne uscirà diverso, se ne uscirà (poi chi ha la luccicanza, lo Shining, li può anche fare a ritroso).
Al centro, la bestia vergognosa, il mostro ibrido: noi a metà del percorso di trasformazione, né carne né pesce (come noi che mangeremo ceci, e mentre scrivo, bevo illegalmente l’ultimo bicchiere di vino). Perché il labirinto decostruisce e confonde, fino al confronto diretto con la sfida alla ragione e il minotauro rinchiuso e nascosto, ma indica anche la via, l’andata e il ritorno, è un percorso iniziatico.
Dedalo ha tradito Minosse aiutando Arianna, e introvabile in Sicilia verrà scovato dal re che ha lanciato una sfida di ingegno, alla quale l’artefice geniale e orgoglioso del suo genio non sa resistere.


Forse Dedalo non è uscito dal suo labirinto o, lui che l’ha architettato, non c’è neanche entrato. Forse perché è troppo meraviglioso il suo volo per non ripercorrerlo ancora e ancora. (Noi persone normalissime imbarcate in questa missione, i folli pronti a sacrificarsi per rivelare la psicosi bugiarda del nostro tempo, abbiamo più chance di essere trasformati dal labirinto – e tra l’altro io trovo che la mia scrittura è già cambiata, meno dedalica, dal capitolo 1 al 2). Perché la sfida di Minosse è di far passare un filo da una conchiglia intricata. Dedalo la fora e lega il filo a una formica che uscirà dall’altra parte. Arianna. E noi, formiche sulla scacchiera del mondo. E la conchiglia: il labirinto. Labyrinthos era chiosato con “luogo a forma di conchiglia”.
Lo dico a Sil, il nostro meccanico, olandese ventenne che in genere naviga su tre alberi tradizionali, suona la tromba quando salpiamo e canterà Sea Chanties quando navigheremo, perché è un conchigliologo.
“Ah really?”, mi dice. “Nice”.
E di colpo mentre finisco di scrivere è stato deciso che stanotte salpiamo davvero.
O no.

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