Global Sumud Flotilla 2. L'attesa

9 Settembre 2025

È la mattina del 5 settembre, il momento in cui avremmo dovuto salpare. La flotta da Barcellona ha avuto svariati problemi, ma una ventina di navi sta arrivando all'altezza di Tunisi. Da Tunisi non sono ancora salpati, non si sa quando e quante barche lo faranno, lo stesso vale per noi in Sicilia. 

L'attesa: lo sapevamo che parte del lavoro sarebbe stato attendere, e adattarsi. Invece è una scoperta misurare, in me e in queste centinaia di persone, il grado di accettazione delle attese all’oscuro dei fatti (nel sole della Sicilia), l’accettazione di così tanti elementi contraddittori e perfino assurdi. 

Per esempio, se fossimo partiti oggi, noi e le barche saremmo stati decisamente impreparati a molti livelli. Oppure, a ben altro livello, Israele ha minacciato di trattarci come terroristi (carceri di massima sicurezza, detenzioni prolungate), quindi di ignorare il diritto internazionale per cui siamo "persone da difendere" (Convenzione di Ginevra), il diritto internazionale che noi siamo qui a difendere,  mentre i nostri governi convenzionati e convenzionali non si premurano di difendere con decisione né il diritto internazionale né noi (l'Italia a denti stretti un po’ di più della Svizzera, dove si trova Ginevra...). 

Eppure questo gruppo estremamente misto di persone (giovani e vecchi, religiosi e anarchici, nani e giganti) prende una cosa alla volta, un giorno dopo l'altro, in un modo difficile da descrivere perché non è "come un sol uomo", è davvero in tanti modi diversi (chi prega, chi legge, chi medita, chi analizza, chi mangia, chi digiuna, quasi tutti fumano), eppure tutti, e fatico a scriverlo ma è così, sono tranquilli; sereni?

Come inconsapevoli seguaci di una dottrina stoica: occupati di ciò di cui ti puoi occupare e lascia perdere il resto. Deve avere a che fare con il presente: anche se è pieno di vuoto, anche se da ciò che succede o NON succede adesso può dipendere la nostra vita. 

Questo sembra essere l’apparato circolatorio condiviso, mentre carne ossa e pelle sono diversi per ognuno.

Io sono passato dallo slancio iniziale (slancio della missione, qualcosa che accade, paure e euforia, scontri, incontri) a un giorno di fragilità — non tanto nella testa, che i dubbi o le preoccupazioni razionali ci sono e rimarranno, ma nel corpo. Come un'eruzione al contrario, che ha smosso cose dentro, un dolore, la solitudine, convinzioni, vanità, rivalse, speranze, immagini, responsabilità, gli occhi di mia figlia — e anche qui in modo quasi inconsapevole, corporeo. 

E oggi mi sento diverso. Più fermo, in tutti i sensi. Una calma all'erta. Un reset di storie personali, proiezioni mentali, emozioni intrecciate, che mi porto dietro dalla mia vita tutta e quella recente. Un reset. Una determinazione irriflessa, figlia di se stessa, concentrata. Anche lei, un vascello della flotta di stati d'animo che naviga verso Gaza.

E, mentre le campane del duomo si danno da fare, capisco un’altra cosa: siamo tutti chiamati a fare quello che dobbiamo fare, a essere nelle condizioni migliori per poterlo fare, la posta è alta e alta è la responsabilità verso gli altri e la missione. E c’è qualcosa che risponde senza che nemmeno avessi percepito, fino a adesso, la chiamata. Nell’intimo, la risposta è forte e chiara, è ferma. Appena fuori, tutto è mobile, liquido e frenetico. Ci saranno altre chiamate. Ci saranno altre risposte. E c’è ben poco al di fuori di questo (beh, sì, gli occhi, così veri, di mia figlia).

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