I cannibali delle risorse umane

7 Aprile 2024

“Lombard fa un piccolo passo di lato e sposta un tappetino persiano sul pavimento. Sotto appare una botola, completa di un grande anello metallico. Solleva il coperchio. Mea distingue vagamente i contorni di una scala. ‘Vogliamo concludere il resto della trattativa di sotto?’, propone Lombard indicando il foro con la mano. ‘Mettiamo giusto un paio di scarabocchi. Poi ti diamo una mano per ambientarti nella tua nuova funzione. Abbiamo in mente un incarico nel quale puoi ancora essere preziosa all’azienda’. Mea si alza. Ha le gambe pesanti. La testa vuota. Barcolla in direzione della botola. ‘Lavoro davvero volentieri qui’ dice Mea con un filo di voce. ‘Davvero, quella storia dei pisolini era solo una battuta, mi creda’. ‘Potrai rimediare, Mea. Ti renderai incredibilmente utile, tu. Insieme a molti tuoi colleghi’. Con le spalle scosse dai singhiozzi Mea scende i primi gradini della scala. […] Lombard fa un cenno per calmarla e le indica di proseguire. Mea scende e appena è scomparsa nel buco nero del pavimento, Lombard richiude la botola con un gran rumore”. E questo senso figurato e narrativo esprime bene come si eliminano anche nella realtà le risorse umane in esubero. Usa e getta, de-mansionamento, ri-collocazione, quando non è licenziamento secco – tutto secondo i principi e le regole del management quando i lavoratori diventano un costo e vanno appunto buttati via o rimossi verso nuove funzioni ovviamente più basse delle precedenti.

E questo mentre il management spreca molte parole retoriche – oggi come ieri – per illuderci di poter svolgere finalmente un lavoro di qualità, con una vera valorizzazione di noi stessi, in un lavoro davvero creativo – e per questo usa abilmente parole come enrichment, empowerment, collaborazione, lavoro intelligente e di conoscenza, self-management e altro ancora ma soprattutto capitale umano – o risorsa (economica) umana – quando in realtà tratta sempre gli individui come forza-lavoro da cui estrarre il massimo della produttività e generare il minimo di opposizione e di conflitto. Parole retoriche sempre finalizzate alla massimizzazione del pluslavoro di ciascuno (per il plusvalore dell’impresa), capitale/risorsa umana da usare quanto più è possibile e da cui estrarre quanto più valore possibile per l’impresa/piattaforma (non solo i rider, non solo i raccoglitori di pomodori), salvo poi buttarla via, appunto, senza tanti problemi. Ieri come oggi, noi tutti forza-lavoro sempre dimenticando che ogni certo numero di anni il management rinverdisce le solite e vecchie tecniche di human engineering, offrendole però come nuove rispetto al passato (è la sua grande abilità psicologica) quando nuove non sono: perché da ieri a oggi, dalla catena di montaggio al taylorismo digitale il management e l’impresa si basano sempre su qualcuno che decide organizzazione, comando e sorveglianza sul lavoro (lo stesso management, oggi algoritmico), e qualcuno che deve e-seguire, appunto al massimo della sua produttività e del suo pluslavoro. 

E allora, a chi crede alle retoriche applicate dal management e insegnate dalle scuole di management, rileggiamo una riflessione dello scrittore Luciano Bianciardi contenuta nel suo romanzo La vita agra – libro del 1962 ma attualissimo ancora oggi: “Come qualcuno forse ricorderà, in quegli anni si parlava moltissimo di automazione, di produttività, di seconda rivoluzione industriale e di relazioni umane. Pareva che tutti i rapporti, produttivi e umani, dovessero cambiare, mentre poi hanno ricominciato – e forse non avevano mai smesso – a prendere gli operai, senza tante inutili storie, a calci nel culo”. 

E se volessimo andare ancora più indietro, potremmo rifarci a Taylor e alla sua organizzazione scientifica del lavoro e a quando ricordava come aveva fatto a convincere l’operaio Schmidt a caricare su un vagone non più solo 12,5 tonnellate di materiale al giorno ma 47,5 agendo non tanto sull’aumento di salario (anche) ma soprattutto sulla attivazione della sua autostima (tu sei un uomo di valore, non sei come gli altri che valgono poco), cioè usando la psicologia e ottenendo un aumento di produttività del 280%, riconoscendo però a Schmidt un aumento salariale solo del 60%, la differenza essendo il profitto per il capitalista. Perché “il primissimo principio innovativo del modo capitalistico di produzione è stata la divisione del lavoro e, in una forma o nell’altra la divisione del lavoro è rimasta il principio fondamentale dell’organizzazione industriale”, scriveva Harry Braverman in un fondamentale saggio degli anni ’70, Lavoro e capitale monopolistico (Einaudi), principio che oggi si replica nelle piattaforme del capitalismo digitale e della sorveglianza, anche se molti insistono a dire che con il digitale saremmo arrivati a un radicale cambio di paradigma rispetto al passato. Niente di più falso.

E da uno spunto di storia del management e soprattutto da uno splendido romanzo che parlava anche di lavoro (La vita agra, appunto), arriviamo a un romanzo di oggi che pure parla di lavoro (di oggi e tanto simile a quello di ieri, anche se oggi diciamo di essere nella quarta rivoluzione industriale, tanto simile alla prima, a parte il digitale) e da cui abbiamo tratto la citazione di apertura. È Il cannibale, di Tom Hofland – scrittore e podcaster olandese – libro edito da Carbonio Editore (pag. 199, € 18). Storia grottesca, un po’ orrida, a volte divertente, molto surreale ma molto vera al di là del fatto che sia una realtà descritta appunto in forma di romanzo per denunciare la “dittatura del profitto” e la compulsiva ricerca dell’efficienza produttiva da parte del management di ieri e di oggi (e anche consumativa: il marketing è infatti l’organizzazione scientifica del nostro lavoro di consumatori, anche qui a produttività consumistica nostra sempre maggiore) cioè da parte del capitalismo. Perché l’imprenditore umanista di un tempo (ce ne sono stati, ultimo Adriano Olivetti, per il quale “cosa assolutamente da non fare è licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione di nuovi metodi di lavoro”) è scomparso e oggi il cinismo è la nuova forma dell’efficienza e della razionalità strumentale e calcolante.

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Nella storia di Hofland il protagonista si chiama Lute ed è il responsabile del reparto Vendite e Qualità di una impresa olandese di nome Aletta che produce capsule per farmaci, con gli uffici affacciati sui boschi della Veluwe, dando lavoro a dipendenti “devoti e tutelati da splendidi contratti”. L’edificio della Aletta “è in stile Dudok, tardo modernista. Ciascuno dei sei piani è caratterizzato da grandi vetrate bordate di marmo bianco. Lo zoccolo alla base è in granito spagnolo lucidato. Sopra l’ultimo piano c’è una costruzione il cui retro sporge oltre la facciata. Lì è ospitata la direzione. Appena sopra l’ingresso c’è la torre con in cima un orologio dorato” – e vale ricordare che anche all’inizio di Tempi moderni di Chaplin (1936) c’è un orologio… Orologio le cui lancette “sono coperte da spessi strati di guano di piccione, per questo scorrono più velocemente in discesa che in salita”.

Ma un giorno, come capita spessissimo anche nella realtà (un nome italiano su tutti, la Gkn di Campi Bisenzio), la Aletta viene venduta a un investitore svizzero e l’intero reparto guidato da Lute viene considerato in esubero. E a Lute viene quindi affidato il compito di convincere decine di fidati colleghi a lasciare l’azienda – “bisogna mandarli via, altrimenti l’acquisto non va in porto. Ci sono un po’ di soldi per andare loro incontro. Ma non molti. La cosa migliore sarebbe se loro… se l’iniziativa venisse dai dipendenti” – suggerisce la top manager Klara. Cosa comunque non facile per Lute – sono “trentadue persone, è stato ai loro matrimoni, li ha consolati quando divorziavano e ha regalato loro scatoloni da trasloco e stoviglie con cui mettere su casa. Ha tenuto in braccio i loro figli. E adesso? Deve pugnalarli, o meglio: convincerli a rivolgere l’arma contro di sé”. Ma Klara gli dice con tono severo e con linguaggio manageriale: “visto che ricopri questa posizione, tocca a te, capisci? Tu sei una persona gentile, adesso però devi far vedere che hai gli attributi. È ora di dimostrare che sotto quel guscio gentile e buono si cela una forza primordiale”. 

Lute ha paura, ma per sua fortuna incontra per caso Lombard, un cacciatore di teste freelance – in questo caso inteso non come reclutatore di risorse umane e di talenti, ma come loro eliminatore, da qui il titolo del romanzo, Il cannibale appunto, per definire colui che mangia le risorse umane/esuberi – che gli offre i suoi servigi, cioè di fare il lavoro sporco di eliminazione (fisica, metaforica?) delle persone diventate un costo eccessivo per il compratore della Aletta. E Lute accoglie con sollievo l’offerta di Lombard, sgravandosi così da un compito che non sapeva come svolgere. E gli lascia piena libertà di azione quanto ai metodi da usare e gli dà un ufficio dove Lombard si insedia insieme a un assistente vestito da cowboy armato di fucile e a un grosso cane nero. 

Da quel momento, alla Aletta accade di tutto, perché Lombard prende il suo lavoro terribilmente sul serio. E Hofland mescola abilmente nelle sue pagine reale e surreale, violenza e psicologia, ricatto e mobbing e una spolverata qua e là di sesso, tipo: “Lombard si china su Mykola, afferra i lembi della sua camicetta e di colpo li allarga facendo saltare i bottoni. Le cinge i seni con le mani, aggancia le dita sotto le coppe, e tira verso il basso. Ma ‘il nostro è un intervento di carattere strettamente professionale’ dice Lombard, strofinando con i pollici i capezzoli di Mykola”. 

Importante è il risultato e Klara è decisamente soddisfatta: “non so cosa stiano combinando quei due [Lombard e il suo assistente], ma sono sbalordita dai risultati. Le lettere di dimissioni arrivano sulla mia scrivania una dopo l’altra e Dio solo sa perché, non c’entrerà niente, sarà un puro caso, ma stiamo facendo profitti come non mai”. Appunto, i profitti… 

Ovviamente non anticipiamo altro e soprattutto non sveliamo la fine di Il cannibale. Ma confessiamo che a volte, per chi si occupa anche di sociologia del lavoro e delle organizzazioni, un romanzo può valere quanto un saggio. Perché Hofland – non abbiamo le competenze per confermarlo, ma è stato definito il più grande talento letterario dei Paesi Bassi – ci porta a riflettere sulla pessima qualità, anche oggi, del lavoro organizzato capitalisticamente e apparentemente in modo razionale. Dove a disumanizzarsi è sempre l’individuo, anche nel mondo digitale, oggetto di una cattura senza fine da parte di un apparato che si pone davanti a lui come qualcosa di assolutamente estraneo a lui, ma a cui deve subordinarsi sempre e comunque. Lo scriveva già Marx, lo scriveva Braverman, lo scriveva la Scuola di Francoforte, lo scrivevano operaisti come Raniero Panzieri, lo scrive ora, in forma di romanzo, Tom Hofland. 

Ovvero, il capitalismo non è fatto per soddisfare i bisogni umani, ma quelli del capitale (il profitto). E dove appunto, mezzo per raggiungere il fine (ancora Braverman), “uno dei tratti fondamentali è l’inevitabile ed eterna separazione degli uomini della società industriale in dirigenti e diretti”, cioè tra chi pianifica la vita e il lavoro altrui (il management e il marketing, oggi anche i social) e chi e-segue (noi tutti come produttori, consumatori e generatori di dati) – e qualcosa di analogo scriveva anche la filosofa Simone Weil (di tutt’altra appartenenza culturale) negli anni ’30 del ‘900. 

Ed è sempre buona cosa ricordarlo.

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