I fantasmi di Benjamin Britten 

31 Ottobre 2022

Dopo la morte di Arnold Schoenberg – luglio 1951 – si avvicinarono alla dodecafonia anche musicisti che fino a quel momento ne sembravano lontanissimi idealmente e artisticamente. Il caso più noto e clamoroso – anche in virtù della contrapposizione fra i due compositori teorizzata da parte della musicologia più radicale, Theodor Adorno in testa – è naturalmente quello di Igor Stravinskij. Il quale, appena dopo aver portato al culmine il proprio neoclassicismo con l’opera La carriera di un libertino (Venezia, settembre 1951), in seguito e sempre più decisamente si rivolse proprio al “Metodo di composizione con 12 suoni riferiti solo l’uno all’altro” per scrivere composizioni di enorme interesse e di indubbio valore, a partire dal Canticum Sacrum ad honorem Sancti Marci nominis

Meno noto è il particolare ma pur sempre significativo approccio alla dodecafonia di un musicista nato trent’anni dopo Stravinskij, l’inglese Benjamin Britten (1913-1976), figura di spicco nella musica europea almeno dal giugno 1945, quando la sua prima opera, Peter Grimes, fu accolta con enorme successo a Londra, consacrandone l’abilità nell’unire il talento drammaturgico con la sottigliezza della costruzione musicale. Il risultato era una particolare intensità comunicativa, pur dentro a un linguaggio, per così dire, consapevole della tradizione.

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Meno di un decennio più tardi, nel 1954, Britten si accostò alla dodecafonia alla sua maniera con The Turn of the Screw. Il metodo compositivo adottato per quest’opera da camera, che debuttò alla Fenice di Venezia per il Festival di musica contemporanea, è molto sofisticato, sostanzialmente libero da regole, ma produce all’ascolto un risultato di nitida e comunicativa evidenza drammatica.

Il soggetto è quello del famoso romanzo breve di Henry James che porta lo stesso titolo, pubblicato nel 1898: un’istitutrice accetta di occuparsi di due bambini in una casa di campagna e ben presto si rende conto e vede, o crede di vedere, che la casa è infestata dagli spettri di una precedente educatrice, Miss Jessel, e di un domestico, Peter Quint, morti da poco. I loro rapporti con i due bambini si rivelano essere stati morbosamente ambigui e di natura predatoria. E, soprattutto, sembrano continuare.

La lotta dell’istitutrice contro i fantasmi finirà con una sconfitta: il diabolico Quint sarà allontanato, ma a prezzo della vita del piccolo che aveva irretito quando era vivo. Una “storia nera” vittoriana, ma soprattutto un inquietante percorso psicologico nel desiderio – inconfessabile in James, apertamente delineato nel libretto di Myfanwy Piper per Britten – e nel senso di colpa degli adulti, viventi e no, nei confronti dei due bambini, Miles e Flora. Sintomatica, da questo punto di vista, la citazione di un verso del poeta W.B. Yeats, proclamato più volte da Quint all’inizio del secondo atto: “The ceremony of innocence is drowned”, la cerimonia dell’innocenza è sommersa.

Il contesto esoterico rende ambigua e per certi aspetti ancor più drammatica una vicenda che toccava da vicino il musicista inglese, la cui omosessualità – come hanno chiarito i più attendibili studi biografici – fu caratterizzata anche da pulsioni pedofile, peraltro mantenute sempre – questa almeno è la tesi più accreditata – su di un piano di platonica attrazione per l’innocenza infantile.

Come annota lo storico della musica americano Alex Ross: «Britten si identifica con le vittime ma è possibile che abbia intravisto qualche aspetto di sé anche nei predatori. Già durante le prove della première […] si invaghì del dodicenne David Hemmings, che interpretava il ruolo di Miles. Hemmings, dal canto suo, non visse la situazione come se il compositore stesse approfittando di lui: in seguito dichiarò che […] non accadde nulla di palesemente sessuale» (Il resto è rumore – Ascoltando il XX secolo, Bompiani 2009, pag. 686).

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Difficile dire se la partitura realizzi una qualche forma di musicale sublimazione del personale coinvolgimento del compositore inglese nelle questioni sottese al soggetto dell’opera. Sta di fatto però che la complessa e sofisticata struttura della composizione – fra l’altro portata a termine dal musicista inglese nel gito di pochi mesi – delinea come poche volte nel Novecento una sorta di “flusso di coscienza” sonoro, un percorso raffinato e inquietante funzionale anche all’andamento drammaturgico dei due atti, che prima del tragico precipitare degli eventi si svolgono secondo un andamento in cui fiducia e timore, serenità e inquietudine si alternano con efficacia pari all’effetto di “suspense” che inevitabilmente creano nell’ascoltatore.

Il punto di partenza – esaurita la formalità del Prologo, aggiunto solo all’ultimo momento, a quanto pare per aumentare la durata dell’opera – è dunque una serie dodecafonica, dodici suoni che esauriscono, come si dice, il “totale cromatico”. Essa viene variata secondo uno schema che fa invece riferimento all’armonia classica nelle sue evoluzioni tonali, in apertura di ciascuna delle otto scene in cui ciascuno dei due atti è simmetricamente diviso. Ogni Variazione (ce ne sono in tutto quindici) è dunque, metaforicamente ma anche con molta evidenza espressiva, un “giro di vite” nell’inesorabile percorso della vicenda. L’ultimo vede la serie trasformarsi in una Passacaglia, la secentesca danza su basso ostinato di origine spagnola che Britten aveva già utilizzato nel momento conclusivo e mortale di Peter Grimes.

In precisa corrispondenza con la sua definizione di “opera da camera”, rispettata anche nell’ambientazione quasi tutta in interni e nella suddivisione delle scene (molto scandita e delimitata, senza effettiva concatenazione), The Turn of the Screw non prevede l’utilizzo dell’orchestra, ma di un ensemble strumentale nel quale sono rappresentati singolarmente tutti gli strumenti delle sezioni di una formazione sinfonica classica (violini primi e secondi, viola, violoncello, contrabbasso, flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno), a cui si aggiungono l’arpa, le tastiere (pianoforte e soprattutto celesta, con il suo timbro “esoterico”) e un ampio set di percussioni.

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Gli esecutori sono in tutto tredici. La parte strumentale si caratterizza per un’evidente complessità: essa funge da cornice, da introduzione non solo tematica ma di atmosfera, da vero e proprio “personaggio”, da elemento dialogante con le parti vocali che sono a loro volta caratterizzate dalla prevalenza delle tessiture acute (la voce più grave è quella di tenore – Quint e il Prologo – le altre sono tutte di soprano o “bianche”). Nell’insieme, il linguaggio musicale solo raramente lascia affiorare la sua complessità ideativa e strutturale e delinea piuttosto uno stile di efficace dimensione comunicativa, apparentemente (ma non sempre è così) dentro alle coordinate tonali, attento a definizioni melodiche che restano coinvolgenti per quanto siano portatrici di una forte carica di ambiguità.

Portare un’opera di questo tipo nel palladiano Teatro Olimpico di Vicenza era una sfida insieme ardua e carica di suggestioni, ovviamente rischiosa. Se n’è fatto carico il Vicenza Opera festival, che dal 2018 vede protagonista una della più quotate compagini strumentali del mondo, la Budapest Festival Orchestra, con il suo direttore Iván Fischer nelle vesti anche di direttore artistico e in molte occasioni di regista. La produzione era in sinergia con il Müpa della capitale ungherese, nei cui spazi era già andata in scena con successo all’inizio dell’estate. Lo spazio palladiano, tuttavia, esige una riflessione specifica, un rapporto non superficiale, e l’impressione in questa circostanza (a differenza di altre proposte degli scorsi anni) è stata invece che l’allestimento sia stato “inserito” senza accorgimenti ad hoc, sia sul piano scenotecnico che per l’impostazione registica. Semplicemente piazzato, come se quel palcoscenico inaugurato nel 1585 fosse uguale a tanti altri.

Così è accaduto che i dispositivi necessari per realizzare le apparizioni dei due spettri (è stata utilizzata una versione tecnologicamente aggiornata del cosiddetto “Fantasma di Pepper”, metodo che risale più o meno all’epoca in cui è ambientata la vicenda), siano stati disposti in maniera tale da rendere queste apparizioni fantasmatiche non visibili da parte di un discreto numero di spettatori. Come se nessuno, nella produzione, avesse posto mente al fatto che l’Olimpico non ha una normale platea, più o meno rettangolare, ma una cavea ellittica a gradoni. Eppure si sta parlando della scelta, nelle dichiarazioni, più caratterizzante di questo spettacolo.

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L’infortunio è davvero singolare e basterebbe da solo a parlare di occasione mancata. Ma si è aggiunto a uno spettacolo (la regia era firmata a quattro mani da Fischer e da Marco Gandini) incapace di creare il giusto climax drammatico, paradossalmente (visto che uno dei registi era il direttore) indifferente alla partitura di Britten.

La rappresentazione è stata giocata sulla caratterizzazione vittoriana dei costumi (Anna Biagiotti) e su pochi elementi di arredo in stile firmati da Andrea Tocchio: un banco di scuola, una poltrona e un divano, una massiccia libreria con ante apribili a mostrare una carta geografica o le vetrate di una chiesa. In un’epoca in cui la tecnica del videomapping offre soluzioni straordinarie, la “frons scenae” del Teatro Olimpico è rimasta inerte, ingombrante e francamente superflua, trascurata anche dalle luci (Nils Riefstahl). Il clou dello spettacolo (si fa per dire) è stato il dialogo tra i fantasmi all’inizio del secondo atto: sono stati messi a cantare su due pedane di legno semoventi, che reggevano ciascuna una croce cimiteriale, e sembravano alle giostre.

Se The Turn of the Screw è una delle opere più inquietanti e importanti del XX secolo (e non a caso il suo autore aveva come riferimento primo il Wozzeck di Alban Berg), insomma, all’Olimpico non lo si è capito più di tanto. La suspense era ridotta al minimo, anzi annullata da quel che si vedeva: movimenti elementari, personaggi sempre uguali a se stessi, tensione drammatica evanescente dentro a un arredamento da sceneggiato Tv degli Anni ‘60. Impercettibili le ambiguità di cui giustamente Iván Fischer sottolinea l’importanza nella sua nota di regia. E nelle quali peraltro non ha scavato più di tanto nemmeno a livello interpretativo musicale, preferendo una linea espressiva misurata, senza asperità, evocativa in misura standard, se così si può dire, pur nell’evidenza qualitativa degli strumentisti della BFO, tutti come sempre precisi e incisivi. La sua esecuzione è parsa per certi aspetti perfino troppo nitida, mai davvero evocatrice della nebbia psicologica che pervade l’Istitutrice e dentro la quale si aggirano i suoi fantasmi e quelli di Britten. 

Compagnia di canto, invece, di alto livello. Miah Persson, specialista in questo ruolo, è stata un’Istitutrice di notevole profondità espressiva e di vocalità sempre ben sorvegliata; Laura Aikin ha dato alla governante di casa, Mrs. Grose, gli accenti di una esuberanza che non riesce a far velo a oscuri sensi di colpa; insinuante e assai efficace nella zona alta della tessitura Andrew Staples nei panni dell’orribile Quint, dolente e arrendevole Allison Cook come Miss Jessel, il fantasma della precedente istitutrice. Ammirevoli i due giovanissimi interpreti di Miles e Flora: l’angosciato e vocalmente svettante Ben Fletcher e la meditabonda Lucy Barlow.

Alla fine, le accoglienze sono state di viva approvazione. 

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