Il figlio di Saul. La stanchezza della memoria

31 Gennaio 2016

“Ecco un film che farà molto parlare”, pronosticava il delegato generale del Festival di Cannes quando nell’aprile del 2015 annunciò alla stampa l’elenco delle opere in concorso. Presentato fin da subito come un caso controverso, probabile detonatore dell’ennesima raffica di polemiche sui limiti della rappresentazione cinematografica, Il figlio di Saul si ispira alle testimonianze che alcuni Sonderkommandos di Auschwitz sotterrarono clandestinamente prima della loro rivolta del 1944. Sullo sfondo storicamente documentato delle attività quotidiane svolte dall’unità speciale deputata alla svestizione e all’accompagnamento dei prigionieri nelle camere a gas, e poi all’estrazione dei cadaveri, alla pulizia dei locali, all’incenerimento dei corpi e alla cernita dei beni sequestrati, si staglia il personaggio (inventato) di Saul Ausländer, rotella suo malgrado di quell’ingranaggio efferato, intento a perseguire un progetto di resistenza del tutto personale: il tentativo di sottrarre il cadavere di un ragazzo alle cremazioni collettive per seppellirlo secondo la tradizione ebraica.

 

Si capisce perché il portavoce del Festival si aspettasse la polemica. È dal 1961 – da quando Jacques Rivette pubblicò la sua famosa stroncatura della sequenza di Kapò in cui la prigioniera impersonata da Emmanuelle Riva si suicida sul filo spinato – che il binomio cinema/Shoah accende gli animi dei critici. Ridotto all’osso, il dibattito inaugurato da Rivette riguardava l’opportunità o meno di rappresentare in forma visiva, realistica ed estetizzante insieme, ciò che a suo parere trascendeva ogni immaginazione. Se è vero – come sostenevano i cineasti della Nouvelle Vague – che “la carrellata è una questione morale”, l’idea di mostrare la morte in diretta per mezzo di artifici cinematografici tradizionali era assimilabile al voyeurismo o alla pornografia. Nei decenni successivi il dibattito ha assunto una piega diversa, con riferimento allo specifico della Shoah, da molti giudicata come un trauma troppo immenso e sconvolgente per poter essere tradotto in formati narrativi collaudati, pena la banalizzazione o la trivializzazione. Secondo Elie Wiesel “l’Olocausto trascende la storia… solo i morti sono in possesso di un segreto che noi esseri viventi non possiamo e non siamo degni di conoscere”. Alcuni prodotti della fiction audiovisiva – tra cui la fortunata miniserie Holocaust (1978) e i più recenti Schindler’s List (1993) e La vita è bella (1997) – hanno suscitato ondate di indignazione da parte di chi accusava l’industria culturale americana di appropriarsi di un trauma non suo, strumentalizzandolo a scopi commerciali, e di seminare un’intollerabile confusione tra verità storiche e finzioni narrative. Celebre l’anatema di Claude Lanzmann, autore del monumentale film-documentario Shoah (1985), a proposito di Schindler’s List: “Sono convinto che ci sia un’epoca pre-Shoah e una post-Shoah, e credo che dopo Shoah ci siano certe cose che non possono più essere fatte. Ma Spielberg le ha fatte”. Nei dibattiti sull’irrappresentabilità si sono accavallati argomenti non sempre facili da districare, alcuni di ordine estetico, altri di natura morale (per esempio riguardo a chi ha il diritto di parlare a nome delle vittime), talvolta con risvolti politici più o meno dichiarati, come sempre quando c’è di mezzo la Memoria.

 

Queste, in estrema sintesi, le ragioni dell’attesa: Il figlio di Saul 1) è ambientato nei crematori di Auschwitz-Birkenau (nessun regista si era mai avvicinato così agli impianti della morte), 2) adotta il punto di vista di un Sonderkommando ungherese (categoria a rischio di giudizi ambivalenti quanto disinformati: Mereghetti sul Corriere lo ha definito “un ebreo collaborazionista”), e 3) combina fatti e finzioni, col rischio di interferenze indebite tra i due piani. In passato una miscela del genere sarebbe probabilmente risultata esplosiva. Alla prova dei fatti, il film di László Nemes sembra invece avere chiuso il ciclo di quell’annoso dibattito. Lungi dal riattizzare le consuete polemiche, si direbbe che ne abbia spento i fuochi. Perché?

 

Le cronache di Cannes del 14 maggio scorso riferiscono che la prima visione del film è stata accolta da “applausi moderati”. Di per sé non significa molto, ma i tweet suggeriscono una certa esitazione, o quantomeno una diffusa riluttanza a esprimere pareri impegnativi: “Il figlio di Saul, macchina infernale magistralmente padroneggiata, ma al servizio di cosa? Non semplice”; “Visto Il figlio di Saul. Non so cosa pensare. Il film ha una potenza cinematografica indiscutibile. Ma è talmente alla ricerca dello choc…”; “Il figlio di Saul: due ore nei crematori della Shoah. La punizione di #Cannes2015”; “Ancora stordito dopo SAUL FIA, un dramma sull’olocausto dove il terrore sta nel suono e nella visione periferica. Più impressionante che commovente”…

 

Il giudizio è rimasto sospeso finché Lanzmann non ha rotto gli indugi, dichiarando che Nemes ha girato “un film di cui non dirò mai nulla di male” (24/5/2015). L’approvazione della più alta autorità in materia di cinematografia concentrazionaria scioglie i dubbi, trasformando le perplessità in acclamazioni, anche perché nel frattempo il film ha vinto il Grand Prix speciale della Giuria. Colpisce l’uniformità delle recensioni, perlopiù orientate alla celebrazione di un’opera prima di straordinario impatto emotivo: capolavoro assoluto, discesa negli inferi, l’ultima frontiera della testimonianza secondaria…

 

Gli unici a protestare sono i critici di Libération, indignati per il mancato dibattito. “Trionfo del marketing o abdicazione intellettuale?”, domandano Didier Péron, Clément Chys e Julien Gester a distanza di qualche mese dalla consacrazione (4/11/2015). Tuttavia neanche loro sanno bene su cosa ci si dovrebbe accapigliare, posto che la pietra dello scandalo non riguarda la fattura artistica del film, bensì un indefinito altro problema difficile da mettere a fuoco. Le solite accuse di banalizzazione – quelle che Wiesel rivolgeva a Holocaust – non si applicano a un’opera che, mentre preclude qualsiasi sollievo catartico, impedisce persino la più elementare delle consolazioni narrative, e cioè la possibilità di identificarsi con un protagonista le cui azioni risultino a modo loro comprensibili: nulla di più oscuro delle motivazioni che inducono Saul a “tradire i vivi per un morto”, mettendo a repentaglio i piani rivoltosi dei compagni per assecondare la propria ossessione. Né si può accusare Il figlio di Saul di indulgere nell’altro vizio capitale delle fiction sulla Shoah, la strumentalizzazione ideologica della memoria. Nessun messaggio subliminale (io almeno non ne ho colti), nessuna identità da celebrare, nessun corrispettivo del finale filosionista di Schindler’s List. Perché, allora, stupirsi delle mancate polemiche? Per lo stesso motivo per cui il delegato di Cannes presagiva “un film che farà molto parlare”, e io stessa mi sono recata all’anteprima con l’aspettativa un po’ nauseante di prendere parte all’ennesimo caso mediatico: perché è sempre stato così.

 

C’è qualcosa di meccanico nelle nostre attese frustrate. Ma è stata meccanica anche la risposta di Lanzmann a chi gli ha chiesto come mai questa volta – contrariamente a tutte le altre – abbia dato la sua benedizione a una fiction sullo sterminio. “Ciò che intendevo quando ho detto che non esiste una rappresentazione possibile della Shoah è che non è concepibile rappresentare la morte nelle camere a gas”. Eppure se c’è un film che sbatte in faccia la morte nelle camere a gas è proprio questo, da una prospettiva che più a ridosso non si può, con un grado di realismo visivo e soprattutto sonoro da fare accapponare la pelle. E sebbene sia vero che – come molti critici hanno sottolineato, e come puntualizza anche Nemes nelle note di regia – la morte dei prigionieri gassati non viene mostrata direttamente (Saul si trova dall’altra parte della porta), le urla e gli altri rumori sono più che sufficienti per evocare un’immagine piuttosto precisa di cosa stia succedendo là dentro. Inutile sottilizzare sulle differenze tra immagini e colonna sonora, inutile insistere sulla tecnica della soggettiva per suggerire che in effetti Il figlio di Saul ottemperi al tabù dell’irrappresentabilità: così non è, la morte è rappresentata eccome, il divieto è stato infranto, e per fortuna se ne è accorto almeno Goffredo Fofi (“Il figlio di Saul prova a rappresentare l’irrappresentabile”, Internazionale online, 22/1/2016).

 

Ancora Lanzmann: “László Nemes ha inventato qualcosa. È stato abbastanza abile da non tentare di rappresentare l’olocausto. Sapeva che non poteva e non doveva farlo”. Si osservi la ritualità della formula, “non poteva e non doveva”, sintomatica del dispositivo sacralizzante. Perché un conto è ammettere la difficoltà di riprodurre il trauma del lager (“non si può”, nel senso di “non ci si riesce”), un altro è introdurre un’interdizione etico-morale circa la legittimità di una simile riproduzione (“non si deve”). Non potere è un limite contingente che un regista può anche cercare di sfidare: è precisamente ciò che László Nemes ha fatto, e semmai si può discutere sulla riuscita artistica dell’operazione. Non dovere è un divieto calato dall’alto per proteggere una zona della memoria dalle incursioni non autorizzate, e ha qualcosa in comune con l’interdizione religiosa di riprodurre immagini del sacro. Per effetto della sacralizzazione, in passato i dibattiti sulle fiction ambientate nei campi di sterminio si sono avvitati attorno al doppio vincolo del dovere della memoria e del divieto della rappresentazione: sino a ieri pareva impossibile uscire da un sistema di posizioni polemicamente solidali disposte lungo un sintagma altamente prevedibile.

 

Qui è successo qualcosa di nuovo. Cinquantacinque anni dopo De l’abjection di Rivette, i limiti della rappresentabilità sono stati spostati senza provocare particolari sconquassi. Evidentemente la sensibilità riguardo a questo trauma sta cambiando e l’oscenità della morte in diretta ci sconvolge meno di prima. Ovvero: lo sterminio nazista resta un evento terribile, e il turbamento provocato dalla visione del Figlio di Saul lo dimostra. Ma è proprio questo il punto. La rappresentazione cruda degli aspetti più orrendamente materiali del genocidio non ci scandalizza più in quanto rappresentazione, ma casomai per la realtà che mostra. Mentre nel mondo si aprono nuovi squarci, la crosta di regole e divieti espressivi con cui proteggevamo la nostra ferita storica è sembrata vecchia e rinsecchita, Nemes l’ha strappata, e non abbiamo ricominciato a sanguinare.

 

I motivi della cicatrizzazione potrebbero essere diversi, tra cui il fisiologico assorbimento del trauma a distanza di settant’anni dagli eventi che lo hanno provocato. È naturale che l’impatto emotivo di una catastrofe affievolisca nel tempo, e semmai è strano che si facciano ancora film su questo argomento. Ma la Shoah non è una catastrofe qualsiasi, e negli ultimi decenni ci siamo abituati a considerarla come la pietra angolare della coscienza contemporanea, narrazione fondativa dell’Europa post-bellica e paradigma strutturante delle altre memorie, con tutti i conflitti e le competizioni che tale egemonia scatena. La mia impressione è che ultimamente la centralità dell’Olocausto stia venendo meno: lo schema concentrazionario non ci aiuta a capire un presente diversamente traumatico – anzi, forse ne ostacola la comprensione – e cominciamo ad avvertirne l’invecchiamento. Di qui la stanchezza della memoria (“Holocaust fatigue”), la ritualità un po’ vuota delle commemorazioni, la ricerca di nuove narrazioni identitarie che esercitino un’analoga funzione coesiva. Ciò che è stato è stato atroce, ma ora abbiamo altri problemi. Si potrebbe intendere la mancanza di polemiche attorno al Figlio di Saul come un ulteriore sintomo di questa presa di distanza.

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