Je vous salue, Godard

14 Settembre 2022

Il primo film di Jean-Luc Godard che ho visto è stato Masculin féminin (in italiano, Il maschio e la femmina, 1966): ricordo che lo vidi al cinema Arlecchino di Milano, per due volte di fila. Molto tempo dopo, negli anni duemila, ogni volta che mi trovavo a Parigi ho avuto la fortuna di poter vedere i lavori che Godard continuava nel frattempo a realizzare: nel 2001 Éloge de l’amour, nel 2004 Notre musique, due film diversi fra loro, ma straordinari; e nel 2006 il raro Vrai faux passeport, realizzato in occasione della mostra Voyages en utopies, Jean-Luc Godard, 1946-2006, allestita presso il Centre Pompidou. 

Dai primi cortometraggi fino agli ultimi film, Godard è sempre riuscito a mettere in crisi, a verificare dialetticamente le possibilità del mezzo cinematografico. È così già nel suo primo lungometraggio, À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), quando Jean-Paul Belmondo, alla guida dell’auto, si rivolge direttamente alla macchina da presa e quindi a noi spettatori. E ancora, due anni dopo, in Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962), in una situazione rovesciata: Anna Karina discute con un amico seduta al bancone di un bar, ma noi spettatori li vediamo soltanto di spalle, quasi di nascosto, come se fossimo dei voyeur

 

Per chi, come me, ha alternato scrittura critica e regia, Godard è stato un esempio. “En tant que critique je me considérais déjà comme cinéaste”, diceva. E ci è riuscito, in quel momento gioioso e irripetibile che sono stati, almeno in Francia, gli ultimi anni Cinquanta, dando vita alla Nouvelle Vague insieme ad altri colleghi dei “Cahiers du Cinéma”: Claude Chabrol, Jacques Rivette, François Truffaut, Éric Rohmer.

Prima da critico e poi da regista, la sua è stata davvero una continua scoperta del linguaggio cinematografico: ogni volta era come se si fosse improvvisamente tornati ai primi del ’900, oppure come se avessimo appena incominciato a fare film. Si tratta di ritmo, ma non solo: si tratta d’invenzione. Come la ripresa in verticale, dall’ascensore, in Alphaville (1965). Oppure come le onde leggere del lago Lemano, i colori e gli sbarramenti in nero dell’ultimo Le livre d’image (2018). 

Insomma, Godard è stato sempre una figura di rottura. Lo è stato per la critica, che molto spesso l’ha recepito in ritardo o non l’ha capito affatto, ma anche per i cinefili. Con i suoi film, ha segnato una cesura netta negli anni Sessanta, e ha continuato anche in seguito. In ciascuna fase della sua carriera, il cinema ha assunto per lui connotazioni diverse. Nei primi film, è stato fondamentale l’apporto di Raoul Coutard, il suo direttore della fotografia, che veniva dai cinegiornali ed era abituato a portare la macchina a mano, a spalla, e a realizzare delle riprese che sembravano impossibili. Con lui, Godard ha girato lunghe sequenze senza stacchi all’interno di stanze piccolissime o addirittura all’interno dell’abitacolo di un’automobile. Poi, in moviola, Godard non aveva paura di utilizzare scavalcamenti di campo, jump-cut, raccordi “sbagliati” come quello, memorabile, sulla pistola che spara in À bout de souffle.

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Da sinistra, Godard, Jean Seberg (di spalle), Raoul Coutard (seduto), Jean-Paul Belmondo sul set di À bout de souffle, 1959

In genere si usa dividere la carriera di Godard in periodi, con il ’68 a fare da primo importante spartiacque. In realtà, il suo cinema aveva cominciato a cambiare già uno o due anni prima, con film come Deux ou trois choses que je sais d'elle (Due o tre cose che so di lei, 1966) o Made in USA (Una storia americana, 1967), l’ultimo film girato con Anna Karina alla fine del loro sodalizio artistico e sentimentale. 

Dopo il ’68, la periodizzazione si fa più nitida: Godard, che come tutti i critici dei “Cahiers” era considerato fino a quel momento un conservatore, vive la contestazione molto intensamente. Polemizza in modo violento con Truffaut, fonda un collettivo di cineasti intitolato a Dziga Vertov, pone apertamente il tema di una image de gauche. Abbiamo avuto film completamente “cancellati”, come certe opere di artisti come Man Ray e di Emilio Isgrò; oppure film come Tout va bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1972), che criticano in chiave marxista l’industria cinematografica servendosi dei suoi stessi meccanismi, a cominciare dalle star (in questo caso Jane Fonda e Yves Montand). Negli anni successivi Godard sembra allontanarsi pian piano dal cinema, si dedica alla sperimentazione sul suono e con il video, mentre i suoi film diventano sempre più difficili da recuperare, anche nei festival.

Gli anni Ottanta l’hanno poi visto fare ritorno a un cinema apparentemente più “vendibile”, con film come Passion (1982) e Je vous salue Marie (1985), e soprattutto Prénom Carmen (1983), che gli vale un Leone d’Oro a Venezia. L’immagine cinematografica, non più cancellata, viene rivisitata: inquadrature dai film dei Lumière, di Méliès, di Griffith, di Murnau, di Lang, vengono riproposte, come fossero immagini fantasma, all’interno dei film stessi. Una riflessione sull’immagine cinematografica che sfocerà in piccoli poemi visivi come JLG/JLG, autoportrait de décembre (1995), e soprattutto nelle bellissime Histoire(s) du cinèma, vera e propria summa del suo pensiero, realizzate fra il 1988 e il 1998. Mostrandole agli allievi dei miei corsi a Brera, mi sono reso conto che i film di Godard non sono difficili da capire, sono difficili da seguire: è necessario vederli più volte, così come si riascolta un brano musicale. Le musiche, così importanti nei suoi film, appoggiate alle immagini come vinili sul giradischi: lo stesso gesto che lui compie ossessivamente in Le signe du lion (Il segno del leone, 1962), lungometraggio di debutto del suo amico Rohmer.

 

Critico con l’immagine cinematografica, Godard lo è stato anche con la “macchina cinema”. Anche per questo incuteva timore: persino Woody Allen, interpellato in Meetin’ WA (1986), sembra spaventato dalla presenza in casa propria di questo strano avvocato accusatore. In Deux fois cinquante ans de cinéma français (1995), che dovrebbe essere un film celebrativo, dedicato appunto ai cento anni del cinematografo, Godard discute con Michel Piccoli sulle ragioni di questo centenario, lasciandolo infine interdetto quando spiega che l’oggetto della celebrazione non è l’invenzione della macchina da presa né quella del proiettore, ma soltanto la prima proiezione a pagamento. Inutile illudersi: cinema e capitale vanno da sempre a braccetto. 

Sempre più appartato e imprevedibile, Godard ha lavorato in maniera indefessa, senza risparmiarsi, come per un bisogno esistenziale di stare dietro la macchina da presa e alla moviola. Fino a ieri mattina: quando, a quasi 92 anni (era nato il 3 dicembre 1930), ormai esausto, ha deciso di dire basta, scegliendo il suicidio assistito.

Il suo lascito più duraturo rimangono le immagini. Il suo forzare i colori – negli ultimi film lo si vede molto bene – ci riporta al confronto fra l’immagine cinematografica, filmica, e l’immagine dipinta, o scolpita. Un cineasta pittore (la faccia di Belmondo dipinta di blu in Pierrot le fou), o scultore. O perfino scrittore (la presenza della scrittura manoscritta nei suoi film meriterebbe una riflessione a parte). Nei suoi ultimi film spesso vediamo le sue mani al lavoro, con le dita attaccate alla pellicola. Pellicola, ma anche nastro magnetico, di cui è stato un pioniere, e perfino, negli ultimi anni, digitale e 3D. La grandezza dello schermo non gli interessava: che si trattasse di un apparecchio televisivo o dello schermo di uno smartphone, non faceva alcuna differenza per lui.

Godard si guardava attorno, e traduceva le tendenze dell’arte contemporanea in termini propri, cioè cinematografici. Forse avrebbe voluto essere una sorta di Duchamp in miniatura: come Duchamp aveva decretato la fine dell’opera d’arte, così Godard avrebbe voluto decretare la fine del cinema. Con la differenza che Godard non ha mai cessato di produrre cinema, perché in fin dei conti non aveva mai smesso di crederci, non aveva mai smesso di amarlo. Aveva bisogno di respirare l’aria del set e della moviola. È sempre stato l’uomo del fare. Fino alla fine. 

(Testo raccolto da Gabriele Gimmelli).

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