La psiche colorata

16 Marzo 2023

In copertina il quadro di Matisse Lo studio rosa: ci troviamo a guardare attraverso un caleidoscopio. La psiche colorata (Moretti e Vitali editore, Bergamo 2022), infatti, è un’opera collettiva, che nasce dal lavoro, e dal dialogo, tra tre terapeuti: Nicole Janigro, Chiara Mirabelli, Ivan Paterlini. Un libro che parla di arte relazionale non poteva che essere scritto a più mani, offrendo una molteplicità di sguardi sull’arte analitica e la creatività psichica, mostrandone il potere di generazione di nuove visioni e altre possibilità. 

Poliedrica, del resto, è psiche, così come lo sono le immagini che nascono nella stanza analitica, che sono – come la pasta sfoglia – una riuscita condensazione di luoghi e di tempi, in cui passato e presente si incrociano, per costruire una seconda storia. 

Il rapporto tra parole e immagini nello scambio tra terapeuta e paziente, è un tema che continua ad alimentare sia la teoria che la pratica analitica. 

Per Carl Gustav Jung “tutto ciò di cui siamo consapevoli è un’immagine e (..) l’immagine è psiche”.

Se il montaggio – come ci dice lo storico dell’arte Didi-Huberman – è l’arte del battito delle immagini, questo testo esprime questo “battito”, questo testo è un montaggio che stropiccia e mette in contatto e spalanca, e ci coinvolge.

Come infatti ha detto Didi-Huberman “occorre considerare che in ogni immagine questi tempi coesistono e creano una complessità che ci richiede tempo e pazienza per l’analisi. Bisogna dunque, costantemente, piegare e dispiegare le immagini. Stropicciare come faceva Hantaï – per mettere in contatto alcune parti dell’immagine che si ignoravano ancora – e poi spalancare. Occorre, sebbene non sia sufficiente, spiegare le immagini. Si deve anche comprendere in cosa ci riguardano, ci guardano, ci coinvolgono.”

Gli autori si interrogano su quali forme possibili della relazione analitica possono avvicinarla all’opera artistica. La relazione analitica, dicono, è un processo vivo di un legame estetico, una bellezza da scoprire e da patire. La stanza d’analisi può diventare una grande metafora: la cura analitica è relazione, la psiche è relazioni. 

L’arte analitica è allora arte relazionale?

Dunque, l’analista è uno scienziato o un artista?

Nel seminario parigino del 1978 Wilfred Bion accostava il mestiere dell’analista a quello dell’artista, e invitava gli psicoanalisti a interrogarsi su che genere di artista fossero.

Sei un vasaio, un pittore, un musicista?”

Molti analisti non sanno che artisti sono, e per questo secondo lui – se non sono artisti – hanno sbagliato mestiere. 

Freud e Jung temevano di essere considerati artisti e poco scientifici, ma non dobbiamo dimenticare che entrambi hanno coltivato passioni artistiche che sono state significative nella loro postura analitica. Freud infatti per questo motivo temeva di essere ritenuto un romanziere e Jung un pittore.

Ai tempi della nascita della psicoanalisi era ancora troppo forte la preoccupazione che fosse riconosciuta come scienza, e questo non ha consentito loro di affermare quello che Bion dirà chiaramente nel 1978: “come analista che tipo di artista sei?”

Gli autori ci mostrano come la forma estetica non sia un fatto solo formale.

Infatti se sconvolgere e traumatizzare – ershuttern – in relazione alla psiche deriva da shutter diventare malfermi, perdere la forma – allora la forma estetica è propria del processo evolutivo interno, e “quindi l’estetica smette di essere un elemento formale, perché è parte integrante del suo contenuto evolutivo”. 

Lo affermano anche D. Ribola e I. Paterlini in Dialoghi sull’arte, la terapia e la cura (Magi 2021)

Anche la biologia direbbe la stessa cosa. Infatti secondo il biologo Portman, la forma estetica non è qualcosa di accidentale, ma è propria del processo evolutivo interno.

La dimensione estetica diventa allora essenziale. Il contenuto si trasforma in ciò che permette la trasformazione: il contenitore. Se il contenitore esprime il contenuto, allora la forma è intrinseca al senso, dà senso. Sappiamo per esempio quanto nel trauma dare un’immagine a qualcosa che prima non lo aveva sia importante per il suo superamento.

L’arte come forma di ri-velazione che sa ridare un’immagine al mistero.

Janigro indaga il ruolo dello sguardo e delle immagini nella storia della psicoanalisi con riferimenti alla propria stanza d’analisi, e, con sapienza, mette a confronto il Libro Rosso di Jung e Vita? O Teatro? di Charlotte Salomon – che morirà nel ‘43 a Auschwiz – evidenziando gli aspetti comuni alle due opere per lo sposalizio tra parole e immagini, e perché si riferiscono alle nostre immagini interiori.

Charlotte Salomon è un esempio di come l’arte sia capace di intrecciare parole, immagini e musica. Ha una musica in testa mentre sta componendo la sua opera

Quella della Salomon è una poetica narrazione mitobiografica– scrive Janigro – “che riesce a trasformare la morte in vita e la vita in opera, a trasfigurare gli accadimenti drammatici della propria esistenza nella forma di un’arte che si fa terapia”, cercando quel punto di congiunzione tra la morte e la vita: “deve esserci, tra la morte e la vita, uno stadio di altissima concentrazione che può essere raggiunto attraverso il canto”.

Il mondo in frantumi dell’esistenza può a volte essere trasfigurato. È quello che riesce a fare la Salomon. L’arte – dice Janigro – non ha salvato la sua vita, ma ha permesso la sua resurrezione.

In Ricordi, sogni e riflessioni Jung parla delle immagini come di “un luogo dove andare”. “Misi ogni cura nel cercare di intendere tutte le immagini e soprattutto di attuarle nella vita, non basta capirle, la conoscenza deve tradursi in obbligo morale. Grande è la responsabilità umana verso le immagini dell’inconscio”.

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Qui etico ed estetico si incontrano, perché – come ha detto Jung – l’aspetto etico è l’assunzione personale delle immagini che si producono.

Anche lo psicoanalista Bollas si riferisce all’immagine come “oggetto sacro” a cui chiedere sostegno, un luogo dove rifugiarsi “in una fase di difficoltà e di senso di frantumazione, “una base su cui potersi appoggiare”.

Invece spesso temiamo questo incontro con la dimensione creativa, perché non sappiamo cosa ne verrà fuori, abbiamo paura di cosa potrà emergere dal nostro mondo interiore, paura di trovarci di fronte alla nostra psiche oggettivata, di oggettivare la nostra creatività, nell’arte e nella stanza analitica. 

Janigro sottolinea anche come questa dimensione artistica abbia qualcosa che va a toccare una dimensione che è legata al femminile, e forse proprio per questo motivo susciti il timore dell’imprevedibilità: il timore di essere risucchiati in qualcosa che si fa fatica a controllare. 

È una clinica poetica quella di cui gli autori scrivono.

Mirabelli, interrogandosi sulla famosa frase attribuita erroneamente al principe Minsky “la bellezza salverà il mondo”, per cui la bellezza è un enigma, ci presenta un’idea di bello che è il sublime – dove il tremendo è incluso nella bellezza – che ci permette un confronto con l’insensato che c’è nella vita, a partire dalla visione di Jung della cattedrale di Basilea. Un’idea di bello che non nasconde il terrificante, ma che consente un confronto con il mistero inguardabile.  

Usa un’immagine: “La bellezza sembra partire dal basso come un seme che sa bucare l’ombra della terra e farsi meraviglia”, e ci i ricorda che l’essenza del bello – per Simon Weil – è scandalo.

Mirabelli, con profonda sensibilità, ci porta attraverso racconti dalla stanza dell’analisi, in cui la dimensione estetica rivela il senso profondo, ed è fattore terapeutico, cura, perché il tragico viene vissuto e attraversato facendo emergere nuove rappresentazioni possibili.

E allora un mito, un quadro o anche il piccolo libro per bambini di Anna Llenas, dal titolo il Buco (Gribaudo, 2016), ci possono aiutare, prima che “sbuchi” l’analista. È un libro prezioso che tengo anch’io nella sala d’attesa del mio studio, ed è uno dei libri più consultati sia dai pazienti adulti che dai genitori dei bambini che vengono in terapia.

Cosa farne dei buchi e delle mancanze? Se non ce ne occupiamo possono diventare buchi neri.

Ma anche negarli è pericoloso. Una paziente recentemente mi diceva che non voleva avere più buchi per non essere più ferita. E allora per questo cerchiamo tappi o cose che li riempiano. E cadiamo in quelli che chiamiamo “disturbi di dipendenza”.

Ma i buchi, i vuoti sono importanti. Il punto è cosa ne facciamo.

Il vasaio costruisce la sua anfora a partire dal buco, tenendo conto del vuoto, trasformandolo e dando valore al vuoto. Allora i vuoti oltre che anfore possono diventare finestre, se diamo loro una cornice, oppure ponti, archi a tutto sesto in una cattedrale. 

Bellezza, presenza dell’assenza.

“Come si può dipingere il vuoto? Si chiedeva Sartre a proposito di Giacometti (..) il compito dell’opera d’arte non è semplicemente e quello di portare la presenza alla presenza, ma di evocare l’assenza attraverso la presenza”, scrive Massimo Recalcati in Il mistero delle cose.

Paterlini indaga, con precisione e intelligenza, il senso delle dimensioni estetiche ed etiche attraversando la psicologia del profondo, le arti e le neuroscienze, e ci fornisce una puntuale cornice teoria dell’arte relazionale. Il libro nasce dal suo incontro con l’artista Maria Lai e dalla sua opera Legarsi alla montagna. Opera collettiva che vede un paese intero in azione nel portare un nastro azzurro attraverso le abitazioni, e degli alpinisti che poi porteranno in vetta il nastro con cui avevano legato il paese. Prima opera di arte relazionale. 

L’opera d’arte secondo Paterlini avrebbe a che fare con la relazione e per questo parla di estetica relazionale: un’arte che non parla di manufatti ma di relazioni umane, di opere attraverso relazioni.

Riprendendo da Marx il termine interstizio – a indicare e immaginare forme diverse dall’omologazione e dal pensiero unico – afferma che “l’opera relazionale svolgerebbe una funzione di interstizio”.

Secondo Paterlini questo ha a che fare col lavoro dell’analista: nel lavoro analitico si cerca infatti questo interstizio, per bucare l’omologazione, e per capire come adattarsi al mondo.

Questo spazio vuoto, questo “tra”, può essere un tramite per nuove germinazioni, per trasfigurazioni della realtà. La vera immagine è negli interstizi. “È tra le sue crepe che intravediamo l’azzurro dell’eternità” dice il filosofo Pavel Florenskij.

Si sottolinea il valore terapeutico della dimensione estetica, ricordando che per Hillman la nevrosi del nostro tempo è molto spesso la psichizzazione della pulsione creativa e per Jung immagine e senso sono identici. Quindi dobbiamo ritrovare la dimensione estetica.

La funzione trascendente – di cui ci parla Jung – come motore di nuove forme del pensare e dell’immaginare assomiglia, secondo Paterlini, alla posizione estetica ipotizzata da A.D. Stokes: “la posizione estetica concilia la parzialità e le forme di idealizzazioni-fusioni con la vita, con il principio di realtà, di interezza, di separazione e di riconoscimento dell’alterità”.

Una posizione che ci permette di ritrovare i colori – la psiche colorata – nonostante il male. Una nuova innocenza, come diceva il teologo Raimon Panikkar…

Una capacità immaginativa che può essere compresa attraverso la funzione teleologica che per Jung è una delle caratteristiche fondamentali del sogno.

Dunque, un superamento della posizione depressiva?

La bellezza salverà il mondo, ma come possiamo noi contribuire a salvare la bellezza?

Credo che se ognuno di noi – qualsiasi lavoro faccia – comprende che artista è, e sviluppa l’artista che c’è in lui, potrà contribuire alla propria salvezza e alla salvezza del mondo, nel senso di traghettare il tragico verso altre germinazioni possibili.

La dimensione artistica è quella capacità di gioco, quell’agilità che permette di trasformare il negativo, senza farlo fuori, una luce che comprende le tenebre e le assume. E come in La vita è bella di Benigni ci permette di non andare in pezzi, come è stato anche per Charlotte Salomon.

Attraversare l’ombra: il seme che buca la terra per trovare il cielo.

Questo insegnamento vale per tutti noi. 

La stanza d’analisi – soprattutto la stanza analitica del Gioco della Sabbia – è come una Wunderkammer, l’oggettivazione della psiche colorata, dove “un soggetto si compone e si scompone. E si ricompone”. Ma il terapeuta deve sapere quale artista e artigiano è.

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