La questione ebraica

26 Gennaio 2016

Nel 1961 "Storia illustrata", mensile edito da Arnoldo Mondadori e diretto da Gianni Baldi, dedica nel numero 6 una sezione al tema: “Soluzione finale. Giustizia finale”. L’argomento è la persecuzione antiebraica. La rivista pubblica nel dossier due capitoli di un libro di Gerard Reitlinger uscito da poco in Germania “sulle origini politiche e sugli orrori dell’antisemitismo nazista”; un articolo di Marco Cesarini riguardante il razzismo in Italia; e una tavola rotonda, che apre il periodico, dedicata a “La questione ebraica”. Si tratta di sette domande rivolte a varie personalità italiane: il filosofo Remo Cantoni, lo psicologo Cesare Musatti, il giurista Francesco Canelutti e Primo Levi, presentato come un “intellettuale ebreo reduce dai campi di sterminio e autore di un libro fondamentale sull’argomento”. Si tratta in assoluto, sino a ulteriori ritrovamenti, della prima “intervista” di Primo Levi, anche se non è esattamente un’intervista, bensì una serie di domande e risposte all’interno di un questionario sull’antisemitismo. In Israele è iniziato il processo a Eichmann e il tema è di grande attualità. Non si usano ancora i termini Olocausto o Shoah in modo generalizzato; la questione dello sterminio è ancora poco dibattuta su giornali a grande tiratura come "Storia illustrata", per quanto tra mostre e libri il tema sia già noto al pubblico italiano. Dalle risposte di Levi emergono alcune considerazioni importanti. Il chimico torinese non ha fiducia “nell’istinto morale dell’umanità, nell’uomo buono naturaliter”; definisce l’antisemitismo “un impulso irrazionale, di natura intimamente biologica”, riprendendo implicitamente alcuni dei temi presenti nel capitolo “I sommersi e i salvati” di Se questo è un uomo, là dove parla dell’“animale-uomo”; si tratta di un tema antropologico ed etologico che non è ancora emerso in modo evidente nella sua opera ma è già presente. Più che Hobbes il suo riferimento è probabilmente Darwin. Levi non parla in nessuna risposta del tema del Male, non fa nessun accenno di natura metafisica. Respinge anche l’idea della “colpa collettiva” e parla di responsabilità di ogni uomo, di ogni tedesco, nella strage dei campi di sterminio. Non è ancora un riferimento alla “zona grigia”, ma il tema della responsabilità individuale è delineato con nettezza. Fa inoltre riferimento agli elementi posticci di ascendenza romantica presenti nella ideologia nazista; scrive che l’impulso irrazionale di natura biologica è “verniciato di filosofia romantica d’accatto”, mettendo a nudo un tema che è già stato ripreso da vari studiosi, quello della eredità romantica dell’antisemitismo tedesco, che continuerebbe nel nazismo. Per Levi non c’è nessun motivo razionale nella persecuzione degli ebrei e nello sterminio; parla d’inutilità, gratuità; l’idea che la storia funziona attraverso la “funzione di utilità” gli appare ora, dopo la strage nazista, carente. Tutto questo solleva un’inquietudine che non si acquieterà più e tornerà come un interrogativo continuo nei suoi testi di riflessione sul perché sono esistiti i Lager. Da ultimo, osserva come sia importante l’educazione dei cittadini sin dai banchi di scuola per una “restaurazione morale”: imparare cosa è la verità e cosa è la menzogna, e che non si equivalgono. Indicazione importante perché è solo dall’educazione che può emergere la necessità di ricorrere alla propria coscienza e non sostituirla con il “culto del Capo che ha sempre ragione”. Questo tema riecheggerà proprio nella pagina finale del suo ultimo libro I sommersi e i salvati (1986) dove parla delle SS, degli “aguzzini”, che non erano mediamente dei mostri: “avevano il nostro viso, ma erano stati educati male”. Una questione ribadita poco più avanti dove si parla della educazione fornita e imposta a scuola dal regime hitleriano. Si tratta di una questione, quella della educazione, che attende ancora di essere recepita da pedagogisti ed educatori nella direzione indicata da Levi.

 

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Esistono nella storia altri tentativi di distruzione radicale e programmatica di un popolo simile a quello perpetrato dal nazismo contro gli Ebrei con la soluzione finale?

 

La storia umana è intessuta di stragi: gli aztechi ad opera degli spagnoli, gli armeni ad opera dei turchi, i popoli “di colore” in genere ad opera dei colonizzatori. Eppure, attraverso stasi e ricadute, trent’anni fa sembrava lecito constatare un progresso, lecito ammettere che la distruzione di un popolo così come la schiavitù, così come la guerra senza legge, fosse cosa appartenente all’infanzia barbarica della civiltà. È stato il triste privilegio della nostra generazione assistere al risorgere di questi mostri: ci sono forse state, in tempi remoti, altre stragi di popoli, ma nessuna così feroce, così totale, nelle intenzioni e negli effetti, come quella voluta dai tedeschi di Hitler nel cuore di questa Europa, che pure si proclama maestra di civiltà al mondo.

 

 

Quali concrete ragioni storiche – di ordine politico, economico, sociale – provocarono proprio in Germania la decisione di attuare un così folle progetto?

 

Nessuna ragione che possa definirsi concreta: e proprio questa inutilità, questa gratuità, che affiora dai pubblici discorsi dei grandi nazisti, dalle conversazioni private di Hitler, dalle pagine convulse di Streicher e di Rosenberg, riempie di inquietudine. Dunque, l’uomo di ieri, e quindi anche quello di oggi, può agire contro ragione, impunemente; può affermare ovvii errori, e farsi credere e applaudire; può ordinare massacri insensati ed essere obbedito.

Non ho mai avuto fiducia nell’istinto morale dell’umanità, nell’uomo buono naturaliter: ma credevo che la storia si potesse interpretare in funzione di utilità. Invece, chi consideri la storia di ieri, non può che restare perplesso davanti alla strage fine a se stessa, al di fuori di ogni vantaggio privato o collettivo, scaturita soltanto da un odio di natura zoologica, anzi, biologica, affermato, inculcato, nutrito, lodato come tale.

 

 

Può esistere – e in che misura – una “responsabilità collettiva” del popolo tedesco per il crimine del genocidio?

 

La stessa espressione “colpa collettiva” è internamente contraddittoria, ed è di invenzione nazionalsocialistica. Ogni uomo è singolarmente responsabile del suo operato: colpevoli pienamente sono i tedeschi (e i non tedeschi) che hanno posto mano alle stragi; colpevoli parzialmente i loro complici, fra cui sarebbe ingiusto dimenticare gli illustri firmatari del Manifesto della Razza nostrano; colpevoli in minior misura, ma sempre spregevoli, i molti che hanno acconsentito sapendo, ed i moltissimi che hanno evitato di sapere per ipocrisia e pochezza d’animo.

Si delinea così un quadro ben diverso da quello, eroico, inventato dalla propaganda nazista: non di colpa collettiva, ma di vita collettiva, di mancanza collettiva di coraggio intellettuale, di insipienza collettiva, di collettiva rinuncia alla civiltà.

 

 

Quali sono i motivi profondi dell’antisemitismo più o meno sentito e praticato nel corso della storia anche da altri popoli? E quale delle varie interpretazioni che si questo sentimento aberrante si danno – da quella religiosa a quella psicoanalitica – si deve considerare la più fondata e convincente?

 

L’antisemitismo ha radici antiche e molteplici: volta a volta, ha avuto carattere religioso, o etnico, o economico. Ma in Germania, nella sua forma più virulenta, è stato un impulso irrazionale, di natura intimamente biologica, benché verniciato di filosofia romantica d’accatto. Il carattere rassenbiologisch dell’antisemitismo nazista era stato apertamente dichiarato dai teorici hitleriani.

D’altra parte nel testo della legislazione di Norimberga è agevole distinguere un colorito sacrale, mistico, che rappresenta l’estremo portato di un romanticismo distorto e corrotto. L’ebreo non è più un miscredente, o uno straniero, o un usuraio, ma una idea platonica, una trascendente sorgente di infezione, il nemico eterno. Per Hitler, i grandi nemici dell’umanità sono San Paolo e Karl Marx, ebrei entrambi, e distruttori rispettivamente di Roma e della Germania: lo si legge nelle Tischreden raccolte da Martin Bormann.

 

 

Prima del nazismo e dei suoi teorici – tipo Rosenberg – si possono riconoscere dei “profeti dell’antisemitismo” cui va attribuita parte della responsabilità morale e intellettuale delle persecuzioni antiebraiche?

 

Molti possono a buon diritto aspirare al titolo di “profeti dell’antisemitismo”, e non tutti sono tedeschi. È però da ricordare che un gruppo cristiano-sociale con programma nettamente antisemita sedeva al Reichstag già nel 1870. Ma i profeti disarmati, sia buoni che cattivi, non sembra abbiano influito molto sulle vicende di questi ultimi secoli, ed è fondato il dubbio che essi rappresentino l’ago della bilancia piuttosto che la carica di propulsione. Comunque, di fronte alle gesta dei loro discepoli insanguinati, mi pare che le responsabilità di un Gobineau o di un Chamberlain impallidiscano.

 

 

Esiste ancora nel mondo il pericolo di un ritorno all’antisemitismo o della persecuzione razziale di massa, coi sistemi di tipo nazista?

 

L’antisemitismo non è spento, e persecuzioni razziali di massa possono ritornare. Nasser in Egitto afferma apertamente che la eliminazione degli ebrei (e dei cristiani) è parte essenziale della sua “ideologia”. Il processo ai medici ebrei, promosso da Stalin e da Beria, è stato un sintomo allarmante. Né meno allarmanti sono le imprese dei giovani dissennati che vengono segnalate in ogni parte del mondo. Si tratta di saltuari atti di violenza gratuita, indirizzati contro vittime scelte quasi a caso; ma la loro parentela con lo squadrismo e il nazismo è palese, e spesso confessata. Un nuovo Hitler, che in qualsiasi paese venisse a prevalere, e disponesse delle terribili armi della tecnica e della propaganda moderne, troverebbe seguaci con facilità irrisoria. Ora, l’esperienza insegna che in questi casi il capro espiatorio, l’oggetto della violenza, viene ricercato in una minoranza: e finora, in Europa, la minoranza tipica, paradigmatica, è quella ebraica.

 

 

Il processo Eichmann e la documentazione delle nefandezze naziste hanno un valore educativo ed esemplare soprattutto nei confronti delle nuove generazioni? Servono a combattere efficacemente ogni forma di odio razziale e ogni tipo di ideologia di tipo nazista e fascista.

 

Il processo Eichmann e la documentazione delle nefandezze naziste hanno un indubbio valore educativo, ma non bastono. La loro efficacia, la loro portata, non sarà grande finché permane, in Germania ed anche in Italia, l’ambiguo clima di vacanza morale che è stato instaurato dal fascismo, e gli sopravvive parte per inerzia, parte per sciocco calcolo.

Questa necessaria restaurazione morale non può venire che dalla scuola. Che Eichmann sia colpevole, salta agli occhi; ma occorre che ogni cittadino, fin dai banchi della scuola, impari che cosa significa verità e menzogna, e che non si equivalgono; e che si può macchiarsi di colpe gravissime a partire dal momento in cui si abdichi alla propria coscienza per sostituirla col culto del Capo “che ha sempre ragione”.

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