Le montagne artificiali di Michael Jakob

31 Gennaio 2023

Non ha la fama del Colosseo o del Pantheon, eppure il Testaccio è un sito archeologico di prima grandezza, e pure in senso letterale. Il Mons testaceum (“monte di laterizi”) di Roma è un piccolo monte che si è formato nell’antichità a forza di accumulare l’uno sull’altro i cocci delle anfore che contenevano olio, vino e altri alimenti.

Insomma, una collina vera e propria, ma fatta di materiali residui. Si parla anche di questo monticello archeologico in un originalissimo libro di Michael Jakob, La finta montagna (Silvana editoriale), tutto dedicato alle montagne artificiali.

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Chi avrebbe detto che colline come il Testaccio si incontrano anche nella contemporaneità? Jakob dedica infatti un intero capitolo a quelli che in Germania chiamano Trummerberge (o Schuttberge), cioè montagne di macerie. Si tratta delle piccole alture (si va dai 30 ai 70 metri) che si formarono dopo la Seconda Guerra mondiale a forza di ammassare i detriti delle città colpite dai bombardamenti. La natura, nel passare degli anni, ha nascosto il loro contenuto di distruzione e di morte, e nulla ormai riconnette queste alture alla tragedia della guerra. In certi casi sono vissuti semplicemente come parchi, dove si passeggia, si gioca, si mangia all’aperto.

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Olympiaberg 2006.

Colline e monticelli artificiali sono dunque momenti in cui l’uomo incide sulla forma del suolo e lo modifica con piccole, improvvise scosse sull’orizzonte. È insomma il tema del paesaggio, della sua percezione, della sua comprensione e della sua definizione: argomenti che sono al centro di un altro libro recente di Michael Jakob (Le origini tecnologiche del paesaggio, LetteraVentidue); un saggio che di fatto mette in guardia dalla banalizzazione dell’idea di paesaggio, mostrandoci la complessità delle riflessioni sul tema che si sono svolte dal Rinascimento in poi, e sottolineando il ruolo avuto nel tempo dagli strumenti tecnici adottati per migliorare e organizzare la visione della realtà. 

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Le alture che in Germania coprono le macerie della guerra sono per diversi aspetti – anche la loro collocazione all’esterno dei centri urbani – imparentate con le collinette che le economie progredite creano ammucchiando rifiuti di diverso genere. 

Questi sono detriti prodotti dall’uomo. Ma le montagne, a loro volta, creano detriti: su qualunque altura – le più alte, come le più modeste – gli agenti atmosferici erodono le rocce, mentre in basso frane e crolli addensano frantumi e ghiaioni. Si potrebbe dire che il destino delle montagne è di andare per sempre verso il basso. Invece, sin dall’antichità (presumibilmente non solo europea), le montagne vengono associate all’idea di elevazione e di slancio verso il divino. 

Se l’associazione tra montagne e fede religiosa appartiene a diverse culture, è in Grecia che alcuni monti sono stati considerati come luoghi per eccellenza dell’attività poetica. Andate su Google maps, cercate Parnaso (o Parnassos). No, non il Parnassos Ski Centre, un po' più a destra. Visto da qui, e anche nelle foto che lo riprendono contro un cielo azzurro, questo monte ha poco di speciale. Eppure, nella storia della poesia e della letteratura europee, dalla Grecia a tutta la modernità, questa montagna gode di una fama straordinaria. Secondo il mito era la montagna di Apollo e delle Muse, per antonomasia la montagna della creazione artistica. 

Nella cultura europea, parlare di Parnaso (ma anche del monte Elicona) è stato il modo più efficace per evocare gli spazi frequentati dalle Muse, in altre parole i dominî della poesia e dell’arte. E non stupisce che ogni tanto si siano innalzati dei piccoli Parnasi, ad esempio nel 1616 a Firenze, quando si tenne una grande festa a cavallo – la "Guerra di Bellezza" – per l’arrivo del duca di Urbino; dalla descrizione di Jacques Callot veniamo a sapere che vi salirono sopra attori che rappresentavano le Muse, Minerva e celebri uomini di lettere. 

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Callot.

Parnasi effimeri, Parnasi durevoli, come quelli di alcuni giardini moderni, ad esempio nel castello di Salzdahlum, per il duca Anton Ulrich von Braunschweig (1706).

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Parnaso.

Divinità e cime dei monti: se restiamo in Grecia, la sede da cui gli dèi guardavano dall’alto le azioni dei mortali è proprio un monte, l’Olimpo naturalmente. 

Tra i diversi episodi su cui si concentra Jakob, più di uno ha proprio a che fare con questa idea di elevazione verso il sacro. Prima di tutto la grande festa che si tenne a Parigi l’8 giugno 1794, dedicata all’Essere Supremo. Come mostrano alcune incisioni, una grande folla accorse all’evento e si dispose attorno a una montagna artificiale, seguendo l’articolata regìa pensata, a quanto sembra, dal pittore Jacques-Louis David. 

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Sulla cima svettava uno dei simboli della Rivoluzione, l’albero della Libertà; del resto l’esaltazione degli elementi naturali percorse tutta la cerimonia: una cronaca del tempo ricorda che “tutte le madri portavano delle rose, le giovanette dei fiori di ogni tipo, gli uomini dei ceppi di quercia, gli anziani dei verdi tralci di vite.” Jakob spiega come in questa festa rivoluzionaria, e nella montagna che ne sta al centro, si siano stratificati più livelli simbolici che convergono su quello politico, ma recepiscono valenze e significati anteriori: “la nostra montagna del 1794 non è un Parnaso fra tanti in una serie storica, è, semmai, il vero Parnaso, la montagna che per un giorno sostituisce o riunisce tutte le altre”.

In questo itinerario di modificazioni del paesaggio, si incontrano personaggi singolari, come il principe Herrmann von Pückler-Muskau, progettista e teorico dell’arte dei giardini all’inglese; una delle sue realizzazioni è il grande parco di Muskau, un sito Unesco oggi diviso in due dal confine Germania-Polonia. Nella sua tenuta di Branitz, il principe fece innalzare due piramidi di terra, e in una di esse venne sepolto nel 1871. È evidente, come spiega Jakob, il rimando alla piramide come monumento funerario (quelle egizie, ma anche quella di Caio Cestio a Roma); ma sarebbe interessante sapere se Pückler-Muskau fosse anche a conoscenza delle sepolture principesche entro tumuli di terra che caratterizzarono diverse culture europee nell’alto medioevo come, ad esempio, a Sutton Hoo.

Rispetto all’erezione di colline, le miniere e le cave sono esito di operazioni antitetiche, scavare, sviscerare, sezionare la terra. La Spiral Hill di Robert Smithson (1971) si trova a Emmen (Olanda), l’unica opera di Smithson in Europa. La cava, a sua volta, venne ricavata in un deposito morenico, un conglomerato di detriti diversi per materiali e per dimensioni originato dai movimenti di un ghiacciaio. L’opera di Smithson si sdoppia in una collinetta spiraliforme (Spiral Hill) e in una lingua di sabbia che disegna un cerchio interrotto (Broken Circle) nel laghetto sottostante. Accumulo e ammasso, sottrazione e svuotamento: la cava dismessa di Emmen diventa così teatro delle azioni che da sempre agiscono in maniera opposta sulle modificazioni del paesaggio naturale.

Per quanto possa sembrare paradossale, questo ripetuto sorgere di monti artificiali non coincide sempre con l’apprezzamento delle montagne come luogo da visitare, per non dire da vivere. A parte le imprese dei primi geologi e dei primi alpinisti, l’alta montagna è ben lontana dall’essere ammirata prima del XIX secolo, ed è notevole che una convinta celebrazione del monte Cervino si trovi nelle pagine di un critico d’arte come John Ruskin; ed è ancor più significativo che The Stones of Venice (1851) descriva la grande montagna tra Italia e Svizzera come “architettura naturale” (“natural building”), adottando parole proprie del lessico tecnico (“muraglia”, “fondamenta”, “bastione”...). Alla fine, ci viene spontaneo animare persino i processi geologici, ricondurli a un’azione umana e pensare anche le montagne come prodotti artificiali.

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