L’invenzione della notte
A ben pensarci la notte non esiste, così come non esistono i colori. Siamo noi, che per un grande e umanissimo bisogno di ordine abbiamo pensato di mettere una cesura laddove una cesura non esisteva e di separare due cose che l’occhio di dio vedrebbe piuttosto come un divenire incontrollabile fatto di una sequenza indefinibile di movimenti e ombre conseguenti. Siamo ossessionati dalla distinzione. Così “la notte e il giorno”, diciamo, ma in realtà la notte è sempre una invenzione. Si può discutere se anche il giorno lo sia, ma dal momento che identifichiamo la giornata come unità di misura del tempo che passa, e che nel linguaggio comune a dire: “sono passati due giorni” si contano anche le notti, penso che nessuno si offenda a postulare per la lunghezza di un articolo che tra i due, a essere frutto dell’invenzione più ardita, sia la notte. Non è solo questo, la notte è anche relativa, perché mentre noi dormiamo dall’altra parte della Terra qualcuno invece sta sveglio, e questa relatività della notte è diventata ancora più evidente da quando possiamo scambiarci ininterrottamente messaggi con qualcuno che sta dall’altra parte del mondo e constatare che per qualche ora, invece, lo scambio si deve per forza interrompere.
Per tutte queste ragioni che hanno a che vedere con il destino della notte, nei due progetti della fotografa Carola Allemandi – Notturni e Con Intenzione – c’è qualcosa di vero.
Il primo è un lavoro che risale al 2020, ed è una serie di fotografie scattate nella città di Torino, durante la notte. Il secondo, successivo e gemmato dal primo, comprende alcune fotografie scattate in Val Taro, durante una residenza artistica voluta da Bianca Maria Rizzi e Matthias Gernot Ritter. Il titolo Con Intenzione dipende dal fatto che i soggetti ritratti su sfondo grigio o nero sono elementi del prato, che di per sé non avrebbero nessuna intenzione di mettersi in posa, se non fosse per lo sguardo del fotografo che invece impone loro qualcosa, di apparire, di esistere sulla sua pellicola come simboli o composizioni astratte negli occhi di chi guarda.
Il punto è che in entrambi i casi assistiamo a un processo che si potrebbe definire: l’invenzione della notte. Nei Notturni questa invenzione è metafisica. In ogni immagine la fotografa ha scelto uno scorcio diverso della sua città, con punti di illuminazione molto vari, e ha lavorato per cancellare progressivamente tutti gli elementi che non fossero funzionali alla composizione. È come se Allemandi avesse reso la notte più notte al punto che adesso anche per i torinesi è difficile distinguere, nella purezza di quello sguardo, dove si trova la macchina fotografica, in quale punto esatto, se al Parco del Valentino, oppure in Piazza della Repubblica, se in Corso Giulio Cesare o in Piazza Carlo Alberto, se Lungo Po o Lungo Dora. Su un simile palcoscenico artificiale, le luci diventano dei punti di riferimento assoluti dialogando solo con qualche suggerimento di elemento architettonico qua e là: si intravedono una panchina, una balaustra, un soffitto che potrebbe essere dovunque, dei pali, dei binari di tram, tubature, un pavimento lastricato, due corsie di un corso o di una superstrada, un campetto da calcio, una balconata elegante, ma si vede tutto appena appena perché intorno c’è il nero innaturale di una notte che non esiste e che però rende perfetta e folgorante la luce. In questo gioco scenico di coreografie compositive, a dare uno stile particolare a ciascuna foto è il tipo di fonte di luce: un faro moderno o un lampione di primo Novecento, una palla di luce oppure un led fioco grande quanto una lucciola. La modernità o la classicità dello scatto è un cursore che varia in base a pochissimi parametri quasi tutti decisi con un lavoro attivo dell’artista, che ha dato vita di volta in volta a una notte distinta.
Esseri umani mai, esseri viventi mai, queste sono notti in cui tutti dormono, dove la città, smaterializzata, non esiste più, e quel che resta è un’atmosfera rinchiusa in una palla di vetro.
In Con Intenzione il gesto inventivo è ancora più forte, perché tutte le foto della serie, nonostante sembrino riprese di notte, sono state scattate durante il giorno. Allemandi si è abbassata al livello dei fiori e dei fili d’erba, in orari che possiamo immaginare assolatissimi, e ha immortalato i suoi soggetti contro la parete di un Sole così forte da accecare l’obiettivo, con l’aiuto del flash.
Queste foto fanno pensare alla fiaba di Hans Christian Andersen in cui la piccola Ida scopre che durante la notte i suoi fiori si stancano ballando fino ad appassire; così, il giorno dopo le tocca seppellirli in una minuscola e struggente bara di cartone. Nel progetto della fotografa petali, pistilli, corolle e steli, come le luci dei Notturni, altro non sono che elementi schiacciati variamente sul fondale della notte, a volte rigidi, a volte piegati dall’aria, in ogni caso protagonisti assoluti di una danza che, oltre a loro, comprende solo il cielo. Quello che di là, nel lavoro torinese, era il contrappunto dell’elemento architettonico al nero assoluto, qui è invece una sporcatura della volta, una velatura della notte: si intravedono nuvole compatte, sfilacciamenti di nembi, la luce diffusa che si può notare quando dalla montagna si osserva una città lontana col suo bagliore. L’artificio non è né nascosto né sottolineato, perché sembra che la fotografa, qui come nell’altro suo lavoro, sia interessata alla tecnica solo nella misura in cui le consente di disporre ordinatamente le forme. Il punto allora non è esibire l’invenzione della notte, ma farsi cullare dalle cose che in questa nuova luce di tenebra mostrano un aspetto di sé che prima risultava inaccessibile. È un simile effetto che sempre produce la luce, se modulata: fare apparire di volta in volta altre cose che prima semplicemente non erano nello spettro del visibile. E illuminare allora non significa per forza chiarire, anzi, significa piuttosto deformare, piegare, trasformare. Scambiare il giorno con la notte e la notte con il giorno.
Una selezione degli scatti di entrambi i progetti è in mostra fino a settembre in via Cernaia 11, a Torino, negli spazi di Azimut Consulenza, ben ordinati e incorniciati in nero, in formato 70 centimetri per 100. A vederle insieme, queste fotografie di notti inventate, si parlano perfettamente.
Nonostante le analogie e la sorellanza dei due progetti, si scorge un registro e un respiro diverso: mentre nei Notturni c’è una saggezza speciale, la fotografa ha creato uno spazio inaccessibile della sua città mentale, in cui scrivere delle sentenze sempre valide, come fossero una collezione di aforismi, invece in Con Intenzione c’è una tensione più dinamica, meno statuaria, più vicina al reportage. Un reportage del mondo in negativo, del mondo inesistente dove i fiori possono parlare e gli occhi degli uomini sanno vedere nel buio. In entrambi i casi sono fotografie che hanno una dimensione rimarginante e curativa, perché non ci spingono ossessivamente a domandare che cosa significano, ma piuttosto offrono una atmosfera e uno spazio da abitare. In questo senso, sì, l’habitat che offrono allo spettatore assomiglia a quella che siamo tutti soliti chiamare notte, un tempo di riposo e distacco dove si interrompe il frenetico bisogno di praticare l’arte della distinzione, di dire che cosa le cose sono e non sono. I lampioni dei Notturni e le erbe di Con Intenzione non sono templi della dialettica, ma più che altro radure dove decidere di ristorarsi, lasciando che lo sguardo venga appagato dalla composizione per la composizione. Stanze ideali di un silenzio logico dove concedersi soltanto il piacere della forma.
È molto celebre la frase con cui Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, ha criticato il suo collega Schelling per il modo in cui aveva concepito l’Assoluto, annullando la differenza tra la natura e l’idea: “la notte nera in cui tutte le vacche sono nere”, l’Assoluto come una notte sciagurata in cui è impossibile distinguere una animale dal cielo e dalla terra o dai suoi consimili. Eppure, non è una cattiva idea quella di costruire uno spazio dove si annulli per un momento il pensiero critico, dove la notte sia perfettamente nera e indisputabile. Che poi ci sia bisogno di disporre qualcosa nel nulla è ovvio, se si sta parlando di arte, perché dipende dal modo in cui siamo fatti che nessun piacere estetico possa derivare dalla completa assenza della distinzione. Ma questo trucco che Carola Allemandi adotta di mettere nella composizione solo quello che basta per vedere emergere la costruzione di un equilibrio senza creare il presupposto della disputa, questo è un aspetto liberatorio e bello di entrambe le sequenze di fotografie: siamo in una assolutezza fatta a misura di sguardo, dove la notte è completamente riposante proprio perché si può guardare, è stata oramai addomesticata.
Così dentro queste foto c’è un po’ di sano piacere estetico fine a sé stesso, senza denuncia, senza politica. È un altrove fatto solo di forme e di buio. E la cosa buona di questo nuovo mondo lunare è che per una volta è già nascosto dentro a questo. Per tirarlo fuori occorre solo un lavoro di postproduzione che la fotografa ha saputo compiere con pazienza e visione, togliendo la polvere del giorno, i suoi oggetti stanchi di brillare e, insieme a loro, tutto l’inessenziale.
La mostra Una selezione, che comprende un gruppo di lavori tratti dal progetto Notturni e dal progetto Con Intenzione sarà aperta fino a settembre presso gli spazi di Azimut Consulenza in Via Cernaia 11, a Torino, in collaborazione con la galleria torinese Dr Fake Cabinet di Marco Albeltaro e Pablo Mesa Capella.
In copertina, Con Intenzione.