Marta Cai. Lampi dal Brasile

8 Gennaio 2024

Di Brasilampi la prima cosa che si nota è la collana, che ospita i libri di narrativa italiana dell’editore torinese Hopefulmonster. La copertina è monocroma, qui di un quasi blu Klein, se non fosse per un esiguo tratto bianco che disegna una zampa di gallina (o di faraona?) e culmina in un pennino, il quale dichiara: “Pennisole”. È questo, infatti, il nome della collana: penne che sono come isole o isole che sorgono dai volteggi di penne. Oltre al coraggio della copertina, che si limita a suggerire un atollo sempre nuovo e a dileguarsi dietro una sola tinta piena, i libri Pennisole hanno altre due caratteristiche insolite: una postfazione in cui il curatore della collana, cioè Dario Voltolini, dimostra di aver letto il libro, mettendo in luce le doti canore di chi partecipa al suo coro, e una bella carta liscia.

Il repertamento è finito, ora si può passare al romanzo, che in realtà è in questo specifico caso una raccolta di racconti accomunati da un lampo di Brasile. Il Brasile si mostra appunto nelle pagine come un volto, un paesaggio, un tempo inchiodato nella notte dalla luce bianca del lampo. È una luce troppo rapida per spiegare, ma abbastanza forte da rischiarare: «ogni giorno è un lampo», scrive nel finale l’autrice, «una linea storta che prima di seminarsi nel buio del cielo o della terra rende visibili gli urti e gli spasmi tra cariche opposte. Il Brasile è dove sono».

L’autrice è Marta Cai e il suo romanzo precedente, Centomilioni, edito Einaudi (qui la recensione di Chiara De Nardi), le ha fatto guadagnare il terzo posto al Premio Campiello. L’impressione che si ha leggendo Brasilampi, però, è che la sua voce, piuttosto originale e forte già nel libro di prima, adesso si sia definitivamente liberata. Lo stile asciutto, intellettuale, tagliente, ora tragico, ora fieramente ironico, era ben riconoscibile qualche mese fa, ma adesso è una lingua definitiva, che si è come spogliata dello strato più ingombrante che indossava e può danzare sfrenatamente senza cappotto, disinvolta e fluida, portandoci dove sa, spesso vicino alla fonte della musica.

Faccio un esempio.

Scrive Cai in parentesi: «(invece queste battute una bambina le ricorda, perché l’incomprensibile è il sostegno della nostra memoria)». E ora mi spiego: sta parlando dei suoi ricordi di bambina riguardo a una certa Sacco Piera, co-protagonista col marito del primo racconto della raccolta, che si intitola Precedente N.1. Piera è una donna semplice, parente dell’autrice, nata nel 1924 nella campagna piemontese, noi lettori veniamo a sapere che si innamora del tizio più alto di Canelli, un certo Giulio Poggio, il quale però prima che la madre della donna muoia si trasferisce in Brasile, a lavorare da una vecchia zia signorina che governa un ristorante laggiù. Così accade che Piera Sacco si sposi per procura, con il fratello di Giulio, e il cognato fa una battuta, dice: «La prima notte tocca a te, a qualcuno deve pur toccare». Ecco riavvolto il nastro. È qui che Cai aggiunge la parentesi:

«(invece queste battute una bambina le ricorda, perché l’incomprensibile è il sostegno della nostra memoria)»

Uno dei caratteri che a me pare di trovare, nella lingua che amalgama questi Brasilampi, è che in essa la saggezza e l’intelligenza maiuscole sono sempre sussurrate tra parentesi, seminate ai margini, come un ‘a parte’ dell’autrice a noi. Marta Cai ha il talento di quelli che riescono a fare una battuta un secondo prima che sia troppo tardi, ma un secondo dopo che l’inciampo si è reso manifesto, quando cioè anche noialtri lo possiamo vedere e capire. Spesso, però, al posto della battuta, c’è una forma di sapere dovuto all’immagazzinamento enorme di informazioni sugli esseri umani, un sapere di scansione, di sguardo. Lei stessa lo dice di sé, stando a un altro racconto: «Ero addormentata, quarant’anni di vita a sentire». E ora, che si è messa a scrivere sul serio, quel che si è inciso sul nastro del sentito esce, nel frattempo maturato, ma pure venato da un riserbo tale per cui la parentesi risulta il posto più adatto dove affermare il vero: è ciò che non capiamo che si imprime con più forza nella nostra memoria e le detta uno schema ineludibile di prima e di dopo. Le parole non comprese sono quelle che noi ricordiamo, è indugiando su di esse che la povera RAM si consuma. Per il resto, poi, fuori dalle parentesi, la storia malinconica di Piera Sacco e di Giulio Poggio prosegue, ritmata e solenne, avanti e indietro dal Brasile, arricchita di tre scatti dell’epoca che farebbero stringere il cuore a chiunque.

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Faccio un altro esempio.

Ci troviamo più avanti nel libro, all’altezza di Le carpe del passeio pùblico. Nel breve racconto l’autrice ci parla diffusamente degli animali che alloggiano nel parco, concentrandosi soprattutto sulle carpe del laghetto. Il modo in cui le descrive è formidabile e va letto di prima mano, ma sta al centro del quadro, rappresenta di fatto l’argomento della storia, il suo oggetto privilegiato. È ai margini, invece, in una riga laterale il sussurro decisivo: «Mi siedo. Ho quel pochino di voglia di buttarmi che talvolta mi prende, perciò mi allontano dal bordo». Questa tensione verso la verità alle volte è ironica, delle altre tragica, come nel caso appena citato, ma è sempre estremamente precisa e teorica, nel senso che spalanca una teoria, una conversazione possibile, un tema sommerso di cui le carpe non rappresentano che la sponda utile (al racconto), però è possibile decifrare pure la sponda inutile che è più monumentale e metafisica. Dal momento che si sta riferendo a un laghetto di carpe in un parco pubblico, «quel pochino di voglia» di buttarsi è commovente perché al massimo a volersi buttare ci si bagna un po’ (ho controllato, dalle foto del Passeio pùblico di Curitiba si percepisce la grande estensione del laghetto ma anche la sua altezza irrisoria di un metro circa). Eppure, «voglia di buttarsi» è il fischio che inaugura un rumore di fondo maggiore, e non ci abbandona più fino alla fine del racconto. Pazienza se stiamo riflettendo soltanto sull’innocuo e lussureggiante mangiucchiare continuo dei pesci. 

Un ultimo esempio.

Stavolta il pezzo si intitola Il posto più bello di Curitiba e parla del «bosque do Papa», un parco pubblico che incorpora una grande foresta creata in omaggio a Papa Giovanni Paolo II e un memoriale dell’immigrazione polacca. L’autrice ci porta a zonzo per questa natura dentro la città e osserva le abitazioni di legno tradizionali dei migranti, con travi «a incastro, non c’è un chiodo», perché «ai polacchi chiodi e croci in abbondanza non sono mai mancati, perciò quando hanno potuto, in un altro continente, hanno cercato di farne a meno per costruire le loro misere casette». Ma non è questo il punto, il racconto del luogo è una specie di inno alla spiritualità dei credenti, di quanti si recano in quel posto per pregare e non solo per passarci attraverso, non soltanto per respirare, ma per aver fede. Scrive Marta Cai: «E io sono contenta quando incontro i gruppetti di polacchi e di suore che pregano, io sono felice che al mondo, nel mio stesso tempo, nei miei stessi metri, ci siano persone con il cuore gonfio e sicuro, che sanno quel che dire, che sanno quel che pensare, che sanno a cosa affidarsi e perché, che sanno abbandonarsi, a differenza di me». Qui non siamo esattamente in presenza di una parentetica, sembra qualcosa di più: nella forma di un racconto così breve la sapienza della narratrice non ha il gioco di quinta necessario a nascondersi meglio, ma persino adesso riesce a disporre la sua ragione di infelicità al riparo della sua ragione di felicità. Ecco che di nuovo, sul fondo, nel ritaglio, sta nascosta la saggezza maggiore: chi non si abbandona è contento che qualcuno lo faccia al suo posto, ma per lui il bosque do Papa rimarrà sempre il posto di un passaggio trafelato, di una bellezza inarrivabile. La tentazione di un’altra vita e di un’altra semplicità.

Quando si esce dalla lettura il ritmo delle frasi di Brasilampi e la sua lingua restano con il lettore per un po’: riverberano – che forse è l’indizio più evidente che siamo in presenza di letteratura. A riverberare, però, sono anche gli animali racchiusi nelle pagine, più ancora dei personaggi umani. Si è parlato di carpe, ma alla lettura si affacciano pure galline, oche e anatre, faraone, un gatto, un cane antipatico e vari cani simpatici, ibis rossi e urubù. Tutti rigorosamente brasiliani. Degli ultimi – gli urubù – si spiega che non muoiono mai, cibandosi loro della stessa morte. Più che descrivere gli animali Marta Cai li interroga, li interpella, mostrando di prenderli molto sul serio per via del fatto che nelle sue parole sembrano già progettati, loro non-umani, per indossare e vestire un particolare corredo umanissimo: le oche, per esempio, «sono laureate» e «sono tutte mogli anche quando sono mariti» e sono «socie dello stesso club». C’è rispetto e c’è insolenza nell’incontro, da entrambe le parti, ed è una combinazione che oltre a dare di che riflettere fa ridere tanto.

E il Brasile? Sicuramente è un paese filtrato da un altro paese. Un Brasile arrivato fino a noi tramite il setaccio del Monferrato più che dell’Italia. Ma proprio questo setaccio rende amabile e osservabile il territorio esotico e vasto. Dalle pagine emerge il fondale brasiliano come quello di una “casa grande”, dove c’è il disordine della stazione, delle persone che arrivano e di quelle che partono, ma dove anche c’è spazio per tutti, bestie e persone, gente vecchia e gente nuova, speranzosa o disperata. Una certa importanza, comunque, nel posto illuminato dal lampo, la conservano il ritmo, la danza, la ballata. In ciascuno dei racconti di Brasilampi c’è qualcosa che sta scorrendo, che scivola, e spostandosi interroga, e modo di fermarlo non c’è: si può solo dubitare o domandarsi quando e come sarà il prossimo passaggio. 

Le storie sono diciannove. Nell’ultima a passare è Lula, presidente del Brasile. Di lui Marta Cai dice che «sa molte cose, ma non tutte». Poi spiega il perché di questa affermazione, che è vera sempre e per tutti, e perciò attribuirla proprio a Lula fa l’effetto interessante di obbligare la nostra intelligenza a salire di giri e a chiedersi il perché. In generale, è difficile leggere Brasilampi pensando di fare riposare il cervello.

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