Franco La Cecla / Africa loro

14 Ottobre 2019

«Ho imparato negli ultimi mesi a cercare qualcosa di più, essendomi accorto che l’Africa che uno viene a cercare non corrisponde a quella che trova, che questo è un mondo in cui è difficile dire: ho capito, allora è così». In questa frase c’è tutto il senso di Africa loro, ultima fatica di Franco La Cecla. Un libro che in realtà sono due, come se in una sorta di emulazione (pacifica) del Dottor Jeckill e Mr. Hide, l’autore avesse scritto questi racconti cambiando qui e là personalità e punto di vista. Cosa che peraltro accade spesso quando si è in viaggio in paesi non occidentali. I paesi sono Kenya, Tanzania e Sudafrica, che La Cecla visita nell’ambito di un progetto di studio legato a Slow Food e all’Università di Pollenzo. Con la maestria che gli è tipica, La Cecla coglie alcuni aspetti particolari delle realtà i questi luoghi, cercando di metterne in luce il volto meno conosciuto e di uscire dai luoghi comuni. 

 

Peraltro, questo è il fine che si pone già all’inizio del suo viaggio, provare a raccontare l’Africa dal punto di vista dei nativi: «Così sull’Africa si gioca ancora la partita del farla propria – scrive – Veltroni ci tenta per dimostrare quanto lui sia sensibile alla povertà del mondo, Kuki Gallmann ci va a stare per vivere l’avventura e il selvaggio, i personaggi del film di Marco Risi Nel continente nero fanno qualcosa di analogo. Mai nessuno che si chieda com’è l’Africa loro, quella cioè di chi in Africa ci vive normalmente come si vive a casa propria. Infatti non c’è un libro scritto da un africano che si chiami La mia Africa».

 

 

Nel libro si intrecciano descrizioni e riflessioni sul nostro (di noi occidentali) strano e ambiguo rapporto con quel continente, in cui siamo fin troppo presenti, ma per certi versi pensiamo ancora come gli antichi “hic sunt leones”. Non ci sono immagini esotiche o esotizzanti, ma spaccati di vita che da un lato mettono in luce l’estrema vitalità di quel continente che spesso a noi appare statico e immobile, ma dall’altro emergono anche le grandi difficoltà che l’autore scopre dialogando con i locali: «È stando qui però, ascoltando la gente che è molto cosciente e lucida e ha delle perle di conoscenza e di cultura sul proprio ecosistema, che si capiscono molte cose. Nic racconta delle bande di giovani che vivono alla macchia, che dormono nella foresta, illegalmente perché è un parco privato protetto, uccidono le antilopi per mangiarle e si fanno di colla. Sono gli stessi che vedo infilarsi nell’acqua del lago fino al collo con una rete, a loro rischio e pericolo. Gli ippopotami ne fanno strage».

 

Ci sono ritratti di africani e di “bianchi” che hanno scelto, per motivi diversi, di vivere laggiù, alcuni dei quali sembrano davvero l’Abatantuono di Nel continente nero, film che La Cecla cita spesso nel libro. Una Malindi modellata a misura di vip italiani e di turisti in cerca di facili esotismi, innesca una riflessione sul rapporto che i locali attivano nel confronto dei turisti: «Per esempio la costruzione da parte della popolazione nera locale di un’interfaccia che sia comoda a entrambi. I neri offrono un’identità falsa che nutra il turismo e proteggono invece quella più interna. La Schoss fonda su queste osservazioni una nuova teoria del turismo, al di là dei moralismi e delle correttezze politiche: il turismo è una zona neutra creata da due soggetti che hanno interesse a non conoscersi veramente, ma a conoscersi attraverso stereotipi».

 

Poi c’è il Sudafrica del post apartheid, con tutte le sue contraddizioni e le molte speranze tradite. Un paese dove le leggi non sono ancora riuscite a cancellare quella linea del colore, che divide i suoi abitanti. Un paese multiforme, vivere a Capetown o a Johannesburg è come abitare in due continenti diversi. La Cecla ci accompagna attraverso questi paesi, con i suoi incontri con locali, ma anche con molti excursus storici, sociali e politici, che arricchiscono le diverse descrizioni.

La forza dell’Africa è davvero grande, è una terra in cui l’uomo deve fare i conti con i suoi limiti, e questa forza condiziona anche un osservatore attento e curioso come il nostro, che di tanto in tanto tradisce, spesso consciamente, una fascinazione per le persone che incontra, le loro culture, per l’ambiente che lo circonda, abbandonando per qualche istante lo sguardo aperto e neutro dell’antropologo. Un tratto questo che rende anche più interessante la lettura, che alterna momenti di analisi di carattere saggistico a descrizioni più “turistiche”, che la rendono ancora più piacevole, senza nulla togliere allo spirito del libro.

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