Malattia e memoria / Angelo Ferracuti, La metà del cielo

3 Febbraio 2020

La presenza di Angelo Ferracuti nel panorama della letteratura attuale è legata soprattutto a opere di carattere documentario, fra l’inchiesta e il reportage, con un interesse distintivo per il mondo del lavoro. Il suo libro più citato è infatti Il costo della vita. Storia di una tragedia operaia (Einaudi, 2013) dedicato al disastro della motonave «Elisabetta Montanari» (13 marzo 1987), corredato da un inserto fotografico di Mario Dondero: testo esemplare di un settore importante della nonfiction italiana degli anni Duemila. La metà del cielo (Mondadori 2019, pp. 208, € 18) è invece un libro molto diverso, molto personale: e intensamente, dolorosamente personale. Oggetto della narrazione è la precoce perdita della prima moglie, Patrizia, avvenuta una dozzina di anni addietro. Il tema funebre si accampa fin dall’inizio, con accorata perentorietà; tiene il campo per molte pagine; si ripropone con forza nell’ultima parte, e suggella l’intero libro. In una zona mediana, si profilano possibili sviluppi narrativi diversi: che però, a conti fatti, rimangono allo stadio embrionale.

 

Procediamo con ordine. La metà del cielo è essenzialmente un sofferto, sconsolato epicedio, che ricostruisce in dettaglio le varie fasi della malattia di Patrizia. Senza seguire l’ordine cronologico, il narratore rende conto delle avvisaglie, delle prime indagini, della terribile diagnosi, delle inutili terapie, dei palliativi, fino all’esito infausto. La narrazione è animata da un’efficace serie di variazioni e di movimenti, a cominciare dall’andirivieni tra presente e passato, e si snoda attraverso brevi capitoli non numerati (una quarantina in tutto), giovandosi dei frequenti cambiamenti di atmosfera e di ritmo. Sinuoso e febbrile, l’itinerario della memoria comprende anche una postuma ripresa di contatti con alcuni degli specialisti e dei sanitari conosciuti allora, ginecologi, oncologi, infermieri. E lo strazio della perdita è ben reso dalla rapita rievocazione degli anni felici passati insieme con Patrizia: l’incontro, la passione, il matrimonio, le due figlie. 

 

Però La metà del cielo – libro, stando alle notizie poste in clausola, lungamente elaborato e rimuginato – comprende anche qualcos’altro. Ferracuti avrebbe potuto puntare sulla sintesi, concentrarsi sulla sequenza della malattia e della morte, come fa Tolstoj nel celeberrimo racconto lungo La morte di Ivan Il’ič, che non a caso il protagonista regala al ritrovato, devoto caposala Ennio. La sua scelta (del tutto legittima, sia chiaro) è invece di ampliare gli orizzonti, dilatando la prospettiva nella direzione dell’autobiografia: salvo poi porsi invisibili paletti, e ritornare al tema di partenza. Non è semplice valutare il risultato. La metà del cielo è senza dubbio un bel libro, commovente, coinvolgente. Ma è anche un libro che mostra, o almeno lascia trapelare, che avrebbe potuto diventare qualcosa di diverso; e se non lo è diventato è stato più per cautela che per convinzione. 

 

 

C’è una sequenza, in particolare, in cui questa esitazione si avverte. È la rievocazione dell’avventura che il protagonista-narratore Angelo ha con una studentessa, alcuni anni dopo il matrimonio. Il rapporto con Patrizia, infatti, aveva pure attraversato una fase di crisi, con scontri violenti: di una violenza che arriva inattesa, tant’è che ai lettori non intimi di Ferracuti (come chi scrive) può ispirare il dubbio che qui si stia sconfinando nell’autofiction (dopo tutto, il libro ha il sottotitolo «Romanzo»). In altre parole, La metà del cielo non è solo il resoconto di un lutto; è la storia del rapporto con una donna prima perdutamente amata, poi inopinatamente disamata, e poi amata di nuovo, poi drammaticamente perduta, e infine tormentosamente rimpianta. Ma in questa vicenda a me pare che qualche passaggio manchi. Non necessariamente qualche notizia concreta (ad esempio, non veniamo a sapere se la storia con la studentessa sia rimasta clandestina o no, né come sia finita; non è chiaro come la crisi matrimoniale venga superata, e quale ruolo abbia avuto nel superamento il manifestarsi della malattia). Piuttosto, a venir meno è un tipo di centralità dell’itinerario esistenziale del protagonista, che avrebbe rischiato di allontanare dal proscenio la figura della moglie. Di qui il ritorno al tema primo, che poi non viene più abbandonato.

 

C’è tuttavia anche un altro aspetto, relativamente distinto dalla ricostruzione della fine di Patrizia, che s’impone con notevole forza, e che, di nuovo, insinua nella mente del lettore il sospetto di uno sviluppo inferiore alle potenzialità. Mi riferisco all’idea che lo scorrere del tempo trasformi il soggetto in maniera abbastanza profonda da incrinare la compattezza della sua personalità. Dopo il lutto che ha lacerato la tela della sua vita, Angelo si è costruito un’altra vita. Ha una nuova moglie, della quale non dice (giustamente) quasi nulla; ha un’altra casa, altre abitudini, un altro cane; le figlie sono grandi, abitano in città diverse, volano con le loro ali. Ora, al di là dei dettagli, che in fondo non importa conoscere, la questione è di grande interesse, e anche di grande attualità in un’epoca come la nostra, in cui l’aumento della vita media ha dilatato le stagioni e le età in maniera tale che, anche quando non occorrano traumi, le occasioni di incoerenza, i fattori di discontinuità, le involontarie metamorfosi rischiano (come aveva ben capito l’autore della Recherche) di moltiplicarsi oltre una soglia critica. 

 

Io non sono vecchio, diceva l’ottocentista francese Henri Lacordaire, ho solo avuto diverse giovinezze successive. Detto così, suona bene: questa è la versione più euforica e ottimistica del fenomeno. Ma non sapersi riconoscere nel sé stesso di un tempo, sentirsi estraneo alle scelte, ai gusti, ai desideri, perfino alle parole di allora, può essere un’esperienza destabilizzante. Insomma, La metà del cielo contiene anche il nucleo di una riflessione sull’identità che poteva imprimere al discorso una curvatura differente, e – di nuovo – centrifuga rispetto alla figura di Patrizia. D’altro canto, è giusto segnalare che uno dei momenti più intensi riguarda proprio la rilettura, a distanza di molti anni, del taccuino di viaggio della luna di miele: un documento trasfigurato nella memoria in una sorta di giacimento di tesori emotivi, che a posteriori si scopre consistere in una deludente serie di noterelle anodine.   

 

Due considerazioni ancora. La prima riguarda uno degli aspetti più riusciti del libro, cioè la rappresentazione degli interni domestici. Una casa non è solo un luogo dove si risiede: è un ambiente che s’intride della presenza di chi lo abita, una porzione porosa dello spazio, che, una volta abbandonata, si dissecca come una spugna. Qui mi pare che Ferracuti dia il suo meglio. La seconda riguarda i riferimenti musicali. Due righe in esergo ci informano su quali sono «le canzoni di questo libro»; e molti titoli, familiari ai coetanei dell’autore (ma non solo) vengono richiamati in punti cruciali del racconto. Ora, a me pare che la narrativa contemporanea abbia un rapporto complesso e non di rado irrisolto con il mondo dei suoni. A parte i tanti titoli derivati da testi di canzoni – la stessa «metà del cielo», lungi dall’essere una frase generica, è presentata come una citazione da John Lennon – in più casi si avverte qualcosa di simile all’invidia degli autori verso le forme espressive miste (cinema in primo luogo), che della musica possono fare un uso diretto. Il rischio è di cercare scorciatoie che non esistono: in una narrazione verbale le parole devono bastare il più possibile a sé stesse.

 

Mi accorgo di non aver parlato di un tema che in realtà l’autore pone in primo piano, quello del fallimento, annunciato dalla frase di Orwell scelta come epigrafe: «Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, ecco tutto». Alla Sfinge – un’oncologa che aveva assistito Patrizia – il protagonista confida che l’unica cosa in cui egli pensa di non aver fallito in tutta la sua vita è stata l’aver protetto e assistito la moglie durante la malattia, accompagnandola serenamente alla morte. E questo è forse, davvero, il centro del libro. Un centro paradossale, se è vero che «fallire» significa anche «mancare, venir meno». Non essere venuto meno, in senso figurato, nel momento in cui lei veniva meno in senso letterale: un nodo esistenziale sentito e autentico, che può ben sostenere un racconto, un mémoire. Sul quale però altre forme di discorso – la dissertazione morale, l’autobiografia, perfino il romanzo – poggiano oscillanti, rimangono in bilico. 

 

Angelo Ferracuti, La metà del cielo, Mondadori, pp. 208, € 18

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