Roma. Facce da sindaco / I volti dei candidati

26 Aprile 2016

Nel pomeriggio di sabato sono passato sulla via Salaria, nel tratto che va dal Grande Raccordo Anulare di Roma allo svincolo per la Tangenziale Est. Un tempo la percorrevo ogni mattina; era una strada assolata, spesso congestionata dal traffico. Da quando invece ho cambiato zona e vita e tutto il resto, la Salaria è diventata soprattutto una delle principali vie della prostituzione. Tuttavia immagino che non ci sia un nesso fra me che cambio vita e il fatto che l’antica strada romana, costruita per trasportare il sale dal guado del Tevere alla Sabina, si sia nel frattempo popolata di puttane, puttanieri e papponi. Fatto sta che, quand’ero ragazzo, questa qui era una semplice consolare schiacciata tra la ferrovia Roma-Firenze e la valle del fiume, che collegava le borgate di Settebagni (dove abitavo io) e Castel Giubileo al quartiere Africano, una fettuccia d’asfalto che lambiva concessionari d’auto, Zecca dello Stato, sede della Motorizzazione Civile e Aeroporto dell’Urbe, giustappunto dove nel 1997 la consolare visse il suo apice di gloria: un megashow degli U2 che richiamò la bellezza di settantamila persone, durante il quale Bono Vox, giocando con i doppi sensi, chiese al pubblico: “Credete che io sia bono?”.

 

Il motivo per cui ho deciso di passare di qua non ha niente a che vedere con le puttane né con gli U2, bensì con una questione che riguarda le prossime elezioni per il sindaco di Roma. Su questo tratto stradale, infatti, l’unica cosa che distoglie l’attenzione del passante dal panorama monotono, oltre alla danza delle prostitute, che si sporgono dal bordo della strada roteando i loro corpi come le antiche insegne a spirali rosse e blu delle botteghe dei barbieri, è l’imponente concentrazione di manifesti elettorali. Non c’è – credo – altro posto a Roma in cui le grosse facce degli aspiranti sindaci si affollano in così poco spazio, come cellule gametiche nella folle rincorsa per arrivare primi.

 

 

Ecco allora che il primo a sbucare nell’ombra che avanza dal terrapieno della ferrovia è Guido Bertolaso. Nel manifesto indossa un pullover scuro con lo scollo a V, una camicia azzurrina che si lascia intravedere dal colletto e dal polsino, un orologio col cinturino in pelle. Bertolaso tiene le braccia incrociate al petto, ha la testa leggermente insaccata nelle spalle, il viso sorridente con un occhio più chiuso dell’altro. Il suo slogan è: «Roma forte, sicura, libera!». Solo che il sorriso pacioso e ottimista di Guido Bertolaso sembra cercare il consenso di se stesso prima ancora che l’attenzione del passante romano. 

 

Il sentimento che mi sortisce la visione di un manifesto elettorale è sempre un moto di scettico imbarazzo, perché penso a quanto la vita delle persone sia tutto sommato abbastanza travagliata e confusa, e a quanto in verità ogni singolo elettore abbia un valore psicologico più grande di quello che invece sembra attribuirgli il candidato sindaco. Il manifesto elettorale è una continua riproposizione del concetto di piccola onestà borghese, in cui c’è un paterfamilias che promette ai pargoli il benessere dopo anni di disgrazie. Al che mi viene da pensare che io, in qualità di elettore, dovrei essere in questo caso il pargolo riottoso, la pecora nera della famiglia, e allora non riesco a cavarmi altro dalla mente che non sia l’immagine di questo Guido Bertolaso in pullover che porta alle giostre il me-pargolo, tenendomi per mano e facendomi sentire forte, sicuro e libero; una visione che non si risolverebbe neppure con gli antibiotici o con gli psicofarmaci.

 

 

Ora, se voglio smarcarmi dalla psicanalisi, che a questo punto m’imporrebbe di uccidere il padre-Bertolaso, debbo rifarmi all’idea medievale del paterfamilias, il quale dominava sul figlio regalmente e con affetto, sulla moglie politicamente e secondo i dettami del diritto, sul servo dispoticamente. Ma poiché ho detto che non voglio essere il figlio di Bertolaso, tantomeno voglio esserne la moglie, non mi resta che un’alternativa: il servo. Ossia subirne il despotismo. La drammaticità è tale, e la mia immedesimazione così angosciosa, che infilo la quinta e accelero sulla corsia di sorpasso.

È a questo punto però che arriva a prendermi, così a tradimento, il manifesto di Giorgia Meloni. Nel mio disperato tracollo, Meloni mi appare come una visione celeste: la Simonetta Vespucci del Botticelli, occhi cerulei, le beach waves nei capelli, la scritta «Vuoi aiutarmi?» in bianco su campo rosso. Questo è qualcosa di più perverso del richiamo al paterfamilias di Bertolaso. Innanzitutto Giorgia Meloni qui assomiglia ad Anna Falchi, eppure noi sappiamo che Giorgia Meloni non assomiglia affatto ad Anna Falchi; se proprio si deve, ecco, Giorgia Meloni assomiglia all’ape Magà, non la Giorgia Meloni/Falchi dei manifesti, bensì la Giorgia Meloni/Meloni della vita terrena. Sinceramente a me non dispiace che la gente tenti di apparire al meglio di sé, anche a costo di spostare il limite del meglio in un territorio che appartiene a qualcun altro. Ciò che importa, insomma, è raggiungere una serena valutazione di se stessi, giacché l’essere in pace con se stessi è peculiarità necessaria per piacere agli altri. 

 

 

Tuttavia mi dico che mettere, per dire, a Serge Gainsbourg un paio d’occhiali con la montatura tonda non basterebbe a spacciarlo per Roberto Giachetti. Il quale in effetti è il meno fotogenico di tutti, e lo ribadisce con un manifesto elettorale che è un capolavoro assoluto nel suo genere. Roberto Giachetti/Gainsbourg alza gli occhi al cielo come se avesse appena scorto, appunto, il manifesto di Giorgia Meloni/Falchi e si fosse all’improvviso riempito le lombari di un fremito escatologico. Lo slogan è: «Roma torna Roma», che uno se lo immagina pronunciato da Paolo Stoppa. Giachetti guarda il cielo stagliandosi sullo sfondo di un gasometro sfocato, simbolo non casuale d’una certa Roma che mette insieme hipsterismo e Pasolini, e sembra malcelare dietro a un sorriso forzato la domanda delle domande: “Perché hanno scelto me, così infelice e scombinato come sono?”.

 

In prossimità dell’Aeroporto dell’Urbe, proprio al di sopra d’una prostituta biondissima con una minigonna di pelle rossa, in questa grande abbondanza di bellezza che s’accavalla lungo la via Salaria, ecco Alfio Marchini che mette in mostra la chiostra dei denti disperatamente bianchi, le dita intrecciate e lo slogan: «Liberi dai partiti». Lui è uno che ti punisce mettendoti quando meno te lo aspetti sulla strada della sua gloria e rammentandoti che non sei degno di questa vita, che non sei capace, che non avrai mai un centesimo della sua fortuna, che devi essere pronto a riconoscere i tuoi molti difetti al cospetto della sua assoluta perfezione, ed è questo il momento sublime in cui ti chiedi se per caso Alfio Marchini, in realtà, tutto sommato, non stia facendo altro che una replica del megashow degli U2 del ’97, che non stia insomma chiedendo alla prostituta biondissima con la minigonna di pelle rossa e a te stesso e a tutti coloro che sono di passaggio sulla Salaria di sabato pomeriggio e a tutta, proprio tutta, Roma tonda e sempiterna: “Credete che io sia bono?”.

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