Potere di accumulo / Kounellis e la materia

3 Luglio 2019

Tonfo

 

Si racconta che il 16 febbraio 2017 un sacco di iuta pieno di carbone, installato nella sezione contemporanea del museo di Capodimonte a Napoli, si sia staccato dal gancio che lo teneva appeso a una placca di ferro arrugginito. È un’opera, facile indovinarlo, di Jannis Kounellis. Il 16 febbraio 2017, giorno del banale incidente, l’artista ci lasciava, concludendo una carriera infaticabile estesa su quasi sei decenni. A Napoli la materia della sua scultura si anima per un istante, si carica di energia solo per cadere con un tonfo a terra e ribadendo la sua gravità.

Non ricordo più chi mi ha raccontato questo aneddoto in cui verità e mito si confondono (del resto stiamo parlando di Kounellis) – e se non è vero è ben trovato. Napoli era una città cara all’artista di origine greca, in cui ritrovava il tema del viaggio e dell’esilio: dall’affiche della mostra alla Modern Art Agency nel dicembre 1969, dove Kounellis, ritto sulla poppa di una nave sul golfo di Napoli, va alla conquista della città, fino all’installazione permanente alla stazione della metropolitana a Piazza Dante (2002), con le putrelle che – come binari del treno spezzati – schiacciano scarpe e vestiti. A Capodimonte, assieme ai sacchi troviamo anche anfore d’argilla di diverse dimensioni, alcune sbeccate, la maggior parte recanti tracce di un precedente utilizzo.

Sacchi e anfore: due tra gli oggetti più antichi realizzati dall’uomo per il commercio marittimo e il trasporto di cibo, acqua, vino, olio, aceto e pece. Chi entra in questa sala – anticamera del Cretto nero di Burri – può pensare di trovarsi in un museo archeologico, tra i resti di una civiltà scomparsa, davanti a un bottino di guerra o tra la mercanzia sul molo di un porto pronta a essere imbarcata. Ferro e carbone: materiali ancestrali utilizzati nel corso della storia per riscaldarsi, cucinare pietanze crude, carburare le macchine. Per non evocare il lavoro del vasaio, archetipo dello scultore e della fabbricazione di oggetti artistici. 

 

 

Difficile parlare di Kounellis senza ricordarci che era originario del Pireo, antico porto di Atene, col rischio di sciogliere la sua opera in un’infanzia mitica, come se Kounellis – sorta di Joseph Beuys mediterraneo – volesse riportarci alla lingua e alla tradizione greche in cui si è forgiata la filosofia, la tragedia, la democrazia e la civiltà europea. Perché resta il fatto che queste evocazioni si manifestano in uno dei corpus più estremi dell’arte italiana. Tuttavia, anziché prendere di petto la questione della scultura, interrogare quel poco o tanto che ne sappiamo, ci affrettiamo ad assegnarle un significato. Là dove fallisce la storia dell’arte plastica riesce la storia della cultura – a rischio di fare di Kounellis il messaggero del Mediterraneo, il turiferario di una civiltà antica.

Una lettura rappacificante che, nell’attribuire senso alla materia, nel risolvere a favore della prima la diade tradizione-rivoluzione elude, in finale, quello che Kounellis fa con la materia. Che si tratti di cavalli o di volatili, di cactus o di fuoco, del suono di un violino o delle fiamme a gas.

Davanti ai suoi scritti e alle sue opere, in cui non trapela alcuna esitazione, mi sono posto spesso la stessa domanda: cos’è che fa scultura in Kounellis? Che non è lo stesso che chiedersi cos’è per lui la scultura. Interrogarsi su quello che in Kounellis fa scultura è tanto più paradossale quanto più si è ostinato a definirsi pittore. Una pittura sinonimo non di pittorico ma di composizione, di una tradizione che include Burri e Pollock, di un modo di costruire immagini che risultano dalla tensione tra struttura e sensibilità – che lo stesso valga anche per la scultura?

 

 

1969-2013-2019

 

Alla Fondazione Prada di Venezia (fino al 24 novembre) si tiene la prima retrospettiva postuma dedicata all’opera di Kounellis organizzata (e non poteva essere altrimenti) da Germano Celant. Una mostra che – spaziando dal 1959 al 2015, dalla ricostruzione delle prime personali romane alle grandi installazioni nelle sale centrali dei due piani nobili – evita la trappola del tributo. Si visita come se fosse allestita dall’artista, con un dialogo tra le materie, tra le opere, tra queste e lo spazio di Ca’ Corner della Regina (sede della Fondazione Prada). “Non mi interessa il tipo di istituzione entro cui espongo le mie opere, galleria o museo che siano: utilizzo lo spazio come una cavità teatrale, e qui, se ho qualcosa da dire, lo dico” (1989). Il dialogo s’instaura persino con le opere non in mostra illustrate nel catalogo, che rende conto, per la prima volta, della comparsa di oltre mille lavori tra il 1960 e il 2016.

A Venezia resto colpito da una delle opere più defilate che, collocata su un ballatoio vicino alle scale, rischia di passare inosservata a una visita distratta. Sette sacchi di iuta addossati al muro, con le estremità arrotolate e il contenuto visibile: ceci, chicchi di caffè, lenticchie verdi, piselli, fagioli, fagioli bianchi, granturco, patate e riso (Senza titolo, 1969). Provo un senso di déjà vu attivato anche dall’odore dei chicchi di caffè, come se avessi già visitato la mostra – peccato che è il giorno dell’inaugurazione…

Molto più tardi mi rendo conto che l’opera è stata in effetti già esposta qui in occasione del reenactment di Live in Your Head: When Attitudes Becomes Form, organizzata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969. Il loop temporale 1969-2013-2019 si precisa: esattamente cinquant’anni fa (22 marzo-27 aprile 1969 a Berna, a maggio alla Haus Lange di Krefeld, a settembre a Londra) Senza titolo era esposta da Szeemann prima di essere riproposta a Venezia a due riprese. Tre installazioni della stessa scultura? o piuttosto tre opere simili che ogni volta si manifestano in modo diverso? Quando le attitudini diventano forma: che questo faccia scultura in Kounellis? 

 

 

Artisti dell’attitudine

 

Della mostra di Szeemann conosciamo tutto: le opere, il catalogo con gli artisti in ordine alfabetico (Kounellis viene dopo Kosuth), la documentazione fotografica delle fasi dell’allestimento, le sue criticità, come l’invadenza dello sponsor, la Philip Morris, che nel catalogo firma uno statement stridente sulla vicinanza tra arte e impresa, su cui Hans Haacke non ebbe all’epoca niente da ridire. Conosciamo inoltre i retroscena riportati nel diario tenuto da Szeemann durante i preparativi. Lo rileggo. 

Dopo un viaggio serratissimo da una costa all’altra degli Stati Uniti, il 9 gennaio 1969 Szeemann parte per Milano. Alle 18 ha appuntamento dall’editore Mazzotta che prepara un libro sull’arte povera, o meglio il libro sull’arte povera di Celant. Non hanno ancora un titolo per questa antologia e, secondo i ricordi del critico svizzero, pensano persino di riprendere quello della sua mostra: “Quando attitudini diventano forma (opere, concetti, processi, situationi [sic], informazione”. Il reenactment del 2013 è già tutto qui.

Il 10 gennaio Szeemann è a Torino dove incontra Zorio, Merz, Gilardi e Enzo Sperone; l’11 è la volta di Anselmo, Sperone, Boetti, Pistoletto, ancora Gilardi e Merz, quello che più lo impressiona; la sera a Genova vede Paolo Icaro ed Emilio Prini. In viaggio verso la capitale, si ferma a Bologna per Calzolari. 

Il 13 gennaio è consacrato agli artisti romani: “Come sempre a Roma, non si possono incontrare le persone prima della sera. Sargentini e Kounellis mi fanno vedere la nuova Galleria l’Attico, un garage. Prima mostra: 12 cavalli da circo. I servizi resi da Sargentini agli artisti dell’attitudine sono straordinari. Senza la sua dedizione per Pascali, purtroppo scomparso troppo presto, e per Kounellis, Roma avrebbe appena valso il viaggio, se non fosse per la Roma dei turisti”. Nel catalogo Tommaso Trini scriveva che “la società di potere tipica di Roma ha favorito negli artisti predisposti la regressione al primario, l’uscita verso l’immaginario soggettivo” (Nuovo alfabeto per corpo e materia). Kounellis “artista dell’attitudine”? 

 

 

Il 14 gennaio Szeemann è già a Londra. Manca poco all’inaugurazione del 22 marzo, quando Daniel Buren sarà fermato dalla polizia per affichage illegale. Il 15 marzo Michael Heizer con famiglia arriva alla Kunsthalle di Berna; il 20 è la volta di Kounellis con Sargentini, Boetti e, ultimo a far capolino, Joseph Beuys. Nelle numerose fotografie pubblicate nel catalogo della mostra veneziana, Kounellis installa la sua opera assieme a Eliseo Mattiacci e circola nella sala di Anselmo, Zorio e Boetti.

Leggendo il diario di Szeemann, lo confesso, mi sono emozionato nonostante la scrittura sia stringata e si limiti a inanellare luoghi e persone. Ma si tratta di luoghi e persone che, quasi senza eccezione, hanno fatto la storia dell’arte contemporanea. Un atto di nascita di un modo d’intendere la figura dell’artista e l’opera d’arte, un groviglio internazionale e transatlantico di quegli “artisti dell’attitudine” in cui arte povera, minimal art, land art, installation art, arte concettuale si tengono miracolosamente insieme. Un’attitudine che si fa forma attraverso “materiali mai prima usati in arte (terra, amianto, piombo, grafite, ghiaccio, uccelli, cera, catrame, reti, sostanze chimiche, ecc.)”, per farne “un bricolage mentale e comportamentistico” (Trini) – per farne scultura.

 

Cumulo

 

Cosa espone Kounellis in quell’occasione? Carbone (1968) e Senza titolo (1969) in lana di pecora, legno e corda, entrambe nella collezione della Galleria L’Attico di Roma. Perlomeno così si legge nel catalogo, ma le cose andarono diversamente.

Una volta a Berna, Kounellis si rende conto che le sue opere non sarebbero mai arrivate in tempo per l’apertura, trattenute e ispezionate alla dogana svizzera. E le dogane svolgono un ruolo fondamentale nella storia della scultura, termometro delle sue rivoluzioni nel corso del XX secolo. Penso a Uccello nello spazio di Brancusi, bloccato alla dogana americana nel 1926: quel manufatto era una scultura o un oggetto commerciale in bronzo lucido su una base di metallo? Solo il verdetto del tribunale permise di sciogliere ogni dubbio sancendo che di opera d’arte si trattava.

 

 

Kounellis non si perde d’animo e acquista sul posto fagioli, farina, piselli, carbone, caffè e riso come se dovesse preparare un piatto prelibato per gli amici. Chiude gli insiemi in vecchi sacchi di iuta, generando così “un archeologico deposito contadino” (Trini su “Domus”, 478, settembre 1969). Che la versione originale contenga patate e riso poco importa: resta l’essenziale, la presenza delle materie o quello che chiamerei potere di accumulo. Nel campo della fisiologia vegetale designa la “facoltà che hanno le cellule delle piante di accumulare grandi quantità di un elemento o di un composto chimico, che perciò si trova nella cellula in misura molto superiore a quella compatibile con la concentrazione che esso ha nell’ambiente”. Che sia l’accumulo a fare scultura?

Kounellis accumula enormi quantità di materie, lontani dall’organico e dall’antropomorfo. Le sculture che ne risultano sono gravide se non tumide, seguendo l’etimologia di cumulo. Così sono i sacchi di Berna e Venezia: qualcosa si rigonfia all’esterno, cresce e, allo stesso tempo, crea sul lato opposto una cavità, un incavarsi. Cavità e sporgenze risultano dalla stessa operazione, della stessa azione che piega la materia. E nell’accumulo risuona il colmare un recipiente di un liquido (come un’anfora) fino all’orlo o finché trabocca.

 


L’accumulo è infine proprio alla città di Roma, come nella scultura del Bernini davanti la basilica di Santa Maria sopra Minerva, un elefante con un obelisco sul groppo e le terga volte alla facciata della chiesa domenicana. Per Kounellis questo era l’antidoto alla scultura minimalista americana, legata a superfici industriali e levigate e priva di stratificazione storica. Una forma di amnesia estetica: “Hanno scelto un altro tipo di logica”, e qui credo che il tono si facesse più severo: “Il quadrato elimina ogni possibilità di accumulazione”, come precisa in un’intervista del marzo 1979 destinata a un pubblico anglofono.

 

Brodo di pietre

 

Quando la mostra di Berna del 1969 chiude i battenti, non sappiamo cosa ne è dei sacchi. Come aveva già intuito Trini: “Se il linguaggio vive come le cellule, l’opera d’arte che lo materializza ha l’arco di vita che gli assegna l’artista, e infatti molte di esse durano una mostra, il tempo di un’alchimia. La materia evapora e diventa un’operazione, un rapporto: due idee espresse da due cose successive” (Nuovo alfabeto per corpo e materia).

La preoccupazione per l’originalità verrà meno anche quando l’opera sarà installata alla Tate Modern di Londra nel 2009, che necessita la sostituzione di materiali deperibili come i legumi e i fagioli. Lo stesso accadrà a Venezia. In atri termini, la scultura abbandona la sua unità e unicità intoccabili. Kounellis riutilizza gli stessi elementi per altre mostre o per la stessa opera in un nuovo contesto, producendo di fatto un’altra versione dell’opera, un nuovo stato della materia. Solo la riproduzione fotografica, rigorosamente in bianco e nero, la fissa, come mi fa osservare Chiara Costa. Che in questi scatti, di cui il catalogo veneziano offre un campionario eccezionale, che nel controllo dei giochi di luce e ombra e nel taglio dell’immagine, Kounellis si faccia pittore? 

 

 

Cosa fa scultura: la domanda resta aperta. Nel 1969 i visitatori di When Attitudes Becomes Form erano liberi di prendere una manciata di cereali dai sacchi, di gettarli a terra ma anche di metterli in bocca e masticarli, portando con sé, dentro di sé, l’opera di Kounellis. Una scultura da ingerire.

“Si prendono da un posto fino al quale non giunga la bassa marea due o tre pietre, né troppo grandi né troppo piccole, inscurite dalla lunga giacenza sul fondo del mare; si cuociono a lungo nell’acqua piovana, fino a che non esca tutto ciò che si trova nei loro pori; si aggiungono alcune foglie di alloro e di timo e, infine, un cucchiaio d’olio d’oliva e di aceto di vino. Se sono state scelte pietre adeguate, non c’è neppure bisogno di salare”. È questa la curiosa ricetta del brodo di pietre data da Predrag Matvejević nel Breviario mediterraneo. Un brodo di pietra, aggiunge l’autore, che “è antico come la miseria sul Mediterraneo”. Per l’appunto.

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