Sentire la corteccia. L’albero in pittura

19 Dicembre 2022

Sradicamenti

Chi ha visitato la Biennale di Venezia di Okwui Enwezor del 2015, All the World’s Futures, ricorderà che i Giardini erano popolati da un’inedita presenza vegetale. Una presenza immersa nel patrimonio arboreo integrato ai padiglioni nazionali, oggetto di un censimento botanico che conta, tra gli altri, platani, tigli, sofore, olmi e lecci. 

Almeno tre erano le opere d’arte dendromorfe, cioè a forma di albero. Le evoco nell’ordine in cui le ho incontrate, a partire dal padiglione Italia dove era adagiato a terra Dead tree (1969) di Robert Smithson. Un albero morto, secco e nodoso, con sei specchi rettangolari tra le radici e tra i rami. Malgrado resti una delle opere meno conosciute dell’artista americano, che aveva già ribaltato un tronco d’albero con le radici puntate verso l’alto, Dead Tree ha conosciuto quattro occasioni espositive: Prospect 69 alla Kunsthalle di Düsseldorf (1969), Dead Tree alla galleria Pierogi di New York (1997), la collettiva Natural Reality. Artistic Positions Between Nature and Culture al Ludwig Forum für Internationale Kunst di Aix-la-Chapelle (1999) e Robert Smithson Retrospective: Works 1955-1973 al Nasjonalmuseet di Oslo (1999). Per volontà dell’artista, alla fine di ogni mostra l’albero morto viene distrutto: nessuna reliquia si trascina da un Paese all’altro. È la morte che, ciclicamente, si rinnova, ogni volta di nuovo.

Il secondo albero si trovava nei pressi del padiglione francese, rêvolutions (un gioco di parole tra “rivoluzione” e “sogno”). Céleste Boursier-Mougenot realizza tre alberi sradicati, due all’esterno e uno all’interno del padiglione. Sotto le zolle di terra dei due esterni, dei sensori registrano ogni minima perturbazione dell’ambiente: le nuvole in cielo, il soffio del vento, il va e vieni degli spettatori. Dati trasmessi al terzo albero all’interno del padiglione altrimenti vuoto, dove siamo invitati a riposarci osservando la lenta danza arborea che modifica il nostro rapporto con l’architettura. Al di là dell’aspetto poetico, determinante è l’aspetto scientifico, legato alle correnti elettriche a basso voltaggio generate dalle piante, amplificate dall’artista per generare una colonna sonora trasmessa all’interno del padiglione.

Più modesti nell’aspetto erano i nove tronchi provenienti dall’isola della Certosa e avvolti da filo di rame. Esposti all’esterno del padiglione degli Stati Uniti, Nine Trees faceva parte della mostra di Joan Jonas, they come to us without a word (nine trees). Per l’artista si tratta di un monumento alle installazioni che si trovano all’interno, ispirate tra l’altro dalla lettura di Jakob von Uexkull (Ambienti animali e ambienti umani, 1933), di John Berger (Why Looking at Animals, 1980) e di Giorgio Agamben (L’Aperto, 2004) – tre autori che, a modo loro, interrogano il milieu vivente.

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Robert Smithson, Dead Tree, 1969, Biennale di Venezia, 2015.

Le smorfie degli alberi

Sarebbe interessante misurare gli scarti di queste tre presenze vegetali sradicate, sia tra di loro che rispetto agli alberi dei Giardini. Lo penso leggendo L’albero nella pittura di Zenon Mezinski, appena tradotto da Valeria Zini per Einaudi (pp. 208, 173 illustrazioni, € 48). Consapevole che un catalogo iconografico dell’albero in pittura sia impossibile e, aggiungo, superfluo, l’autore rimette al centro dell’analisi storico-artistica un elemento che, malgrado la sua fortuna, resta in finale poco trattato: “l’albero è il grande assente dalla storia del paesaggio nell’arte” (p. 7). E questo nonostante che, “immediatamente identificabile, esso annuncia con la sua sola presenza quella della natura stessa” (p. 11).

Interrogando “la nostra esperienza della natura” (p. 11), racconta così la “fabbrica dell’albero”. Una scorribanda iconografica che, in linea con la dendromania che ha colpito la nostra editoria, va compresa nel contesto dell’attuale crisi climatica: da una parte incendi e disboscamenti, dall’altra Walddusche o shinrin-yoku, come tedeschi e giapponesi chiamano la doccia forestale in quanto eco-terapia. Su questo tema il libro, pubblicato solo quattro anni fa, è troppo elusivo, mancando l’incontro fruttuoso tra storia dell’arte e scienze umane dell’ambiente. 

È un peccato, perché il lettore s’imbatte in inaspettati corsi e ricorsi storici, come la deforestazione che segna l’Europa e l’Italia in particolare e conduce alla scomparsa della foresta mediterranea alla fine del XVI secolo. O il militantismo di un Théodore Rousseau, capace di restare immobile e in silenzio per giornate intere davanti al suo soggetto preferito. Un patrimonio naturale, un “monumento della natura” che difende a spada tratta e lo induce a firmare un decreto per proteggere una riserva di oltre 1000 ettari. Siamo nel 1863, e il primo parco nazionale al mondo, quello di Yellowstone negli Stati Uniti, risale al 1872. O Cézanne, la cui dendrofilia ci è restituita da Joachim Gasquet: “Verso la fine, nel suo bisogno di tenera solitudine, un ulivo divenne suo amico”, al punto da farlo circondare da un muretto per proteggerlo: “Lui lo toccava. Gli parlava. La sera, lasciandolo, a volte lo abbracciava” (p. 186). Cézanne tree hugger

Mezinski evita tuttavia la trappola più insidiosa: fare della botanica la sezione vegetale dell’iconologia, in cui si riconoscono i nomi e le proprietà delle piante esclusivamente per il loro valore simbolico. L’ennesima decodifica del visivo volta a decantare la capacità linguistica di nominare il visibile. L’autore procede cronologicamente e, assieme, tematicamente, lasciando emergere chiaramente alcuni snodi storici attraverso un corpus ben scelto di disegni e dipinti. La sua panoramica comincia con due pitture murali antiche – quella del giardino nella tomba di Nebamon e del ninfeo della villa di Livia a Roma – dove le immagini arboree simbolizzano il locus amoenus, opposto al locus horridus di Tiziano trattato più oltre.

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Joan Jonas, Nine Trees, Biennale di Venezia 2015, foto Moira Ricci.

Passando per le metafore cristiane (l’Albero della conoscenza del bene e del male, l’Albero della vita, l’Albero della croce) e per le astrazioni medievali, dove l’albero risponde a codici simbolici lontani dall’osservazione diretta, a imporsi è il XV secolo. A Venezia, nelle Fiandre, in Germania e nei Paesi Bassi l’albero diventa degno di essere rappresentato, entrando in risonanza con la scena rappresentata, coi personaggi e col loro stato d’animo, in un gioco di accordi figure-alberi (Anton van Dyck, Amore e Psiche, 1639-40). Oltre a Albrecht Dürer e Pieter Bruegel il Vecchio, centrale è Albrecht Altdorfer, tra i primi artisti a sbarazzarsi della presenza dell’umano e, con lui, della narrazione: “La foresta diventa un tema d’elezione nella sua pittura, così che gli alberi e il fogliame invadono il campo pittorico” (p. 54).

Se Botticelli (Il cavaliere getta ai cani il cuore della dama, 1483) dipinge con scarsa considerazione i pini della pineta di Ravenna (“anziché radicati, sembrano poggiati al suolo”, p. 20), Jan van Eyck mostra uno spiccato interesse per la botanica (Polittico dell’Agnello mistico, 1432). Per rendere credibili paesaggi e scene di caccia, i pittori cominciano a volgersi alla scienza per il trattamento del fogliame e, più in generale, della flora.

Uno snodo evidente nella pittura italiana del Rinascimento e in quella olandese (se l’Occidente moderno è il perimetro storico e geografico scelto dall’autore, la rappresentazione del paesaggio cinese avrebbe fornito un’utile misura di paragone). Con Piero della Francesca l’albero diventa sostengo della composizione, come in Morte di Adamo (1452), probabilmente il “primo albero monumentale del Rinascimento” (p. 33). Con la pittura (o la tappezzeria) di paesaggio del Nord e dell’Europa centrale (Anversa, Haarlem, Praga) fa invece irruzione l’albero mostro. Con Claude Lorrain, che si tratteneva nella campagna romana dall’alba a notte fonda per imparare a rendere in modo fedele le metamorfosi vegetali a seconda del momento della giornata, i “pini marittimi, palme si alzano all’orizzonte, isolati, immensi” – “è la pittura a influenzare il paesaggio reale in Italia” (p. 78). La costituzione del paesaggio mediterraneo è insomma debitrice della pittura, come nel pittoresco e in quella fase storica in cui sono i pittori, e non più gli architetti, a progettare giardini (1760-1790). All’architettura in rovina si affianca l’albero colpito dal fulmine.

La pittura olandese del XVII secolo privilegia paesaggi quotidiani e ripresi dal vero, lontani dall’iconografia religiosa. Se Rembrandt è poco interessato al tema, da segnalare sono i quasi 250 paesaggi disegnati da Jan Lievens, che ci ha lasciato tra l’altro una delle rare raffigurazioni di un pittore mentre dipinge un albero su una tela da cavalletto (Interno di foresta con un disegnatore, metà del XVII secolo). O Jacob van Ruisdael, “considerato il primo pittore a differenziare gli alberi secondo le loro caratteristiche botaniche”, attento non solo al fogliame ma anche alla “struttura generale, la suddivisione dei rami, l’attaccatura delle foglie, il loro aspetto” (p. 98).

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Albrecht Altdorfer, Paesaggio con doppio abete, 1782, Albertina, Vienna.

Se nel XVII-XVIII secolo l’albero significa, grazie alla sua sola presenza, il paesaggio stesso, nel secolo successivo gli artisti si prendono la libertà di concentrarsi solo su alcune parti (tronco, rami, fogliame). Una mossa che non svaluta l’esattezza, come quella, maniacale, del paesaggista tedesco Jakob Philipp Hackert, di cui Goethe riprende e pubblica il diario. Su questa scia va ricordato anche Achille-Etna Michallon, che studia il paesaggio dal vero per intere giornate, al punto da morire a 25 anni di una polmonite contratta, pare, dopo una lunga seduta dal vero al Jardin des Plantes di Parigi! O John Constable, infaticabile paesaggista che annota sul retro dei suoi studi data, ora e condizioni meteorologiche.

L’apogeo di questa vicenda storica si colloca, secondo Mezinski, nel 1830-1860: Camille Corot, la scuola di Barbizon, Théodore Rousseau. Ma il vertice preannuncia quella crisi irreversibile che comincia, c’era da aspettarselo, con gli impressionisti, preoccupati d’integrare gli alberi nel paesaggio circostante e di “far circolare l’aria tra i rami” (p. 166) come scriveva Julien Leclercq a proposito di Alfred Sisley. La dissoluzione del motivo dell’albero segue la linea Cézanne-Monet-Mondrian e conosce poche battute d’arresto come quella di Matisse (caso tuttavia più complesso da come presentato dall’autore).

Tra le sorprese che riserva la lettura di L’albero nella pittura mi piace ricordare Roelandt Savery, coi suoi paesaggi fiamminghi del XVII secolo, e Carl Wilhelm Kolbe, per cui “Sono gli alberi che mi hanno fatto artista” (1795, p. 144). Nei suoi tronchi fantastici e proto-surrealisti, lo sguardo riconosce volti minacciosi, come in una favola dove il bosco si anima al crepuscolo. Così Kolbe intuisce l’animazione del vegetale o come “far sì che gli alberi facciano le smorfie”, per citare una lettera di Van Gogh.

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Achille-Etna Michallon, Le chene et le roseau, The Fitzwilliam Museum, Cambridge.

La costituzione di una poetica vegetale attraversa la pittura ma anche gli scritti degli artisti, come i Commentari (1462-63) di Enea Silvio Piccolomini, amator sylvarum, “uno dei padri del paesaggio in Europa” (p. 30), che della campagna italiana descrive “la geografia, l’architettura, la flora, la natura dei terreni, e ne assapora i panorami” (p. 30). Quanto a Leonardo, stabilisce regole sui rami, sul loro aspetto, sulle diramazioni e sulla crescita vegetale, intuizioni in seguito confermate dalla scienza: “Non solo Leonardo aveva indovinato l’esistenza di un rapporto matematico fra i diametri del tronco e dei rami, ma lo aveva definito” (p. 38). È così che “l’albero non è più un elemento plastico autonomo, isolato e ripetitivo, che si può collocare dove si vuole nella composizione, ma diventa un oggetto visivo complesso e mutevole che esprime anche l’infinita varietà delle combinazioni e delle configurazioni della natura” (p. 36).

Centrali, infine, sono i manuali artistici indirizzati ad apprendisti pittori, a partire da Alexander Cozens (The Shape, Skeleton and Foliage of Thirty-two Species of Trees, 1771) e William Gilpin, Remarks of Forest Scenery (1791). Una tradizione che si razionalizzerà col tempo, offrendo un’esplorazione analitica e formale della rappresentazione di un albero dal vero, un metodo sistematico per restituire la complessità dendromorfica. Mezinski parla giustamente di albero della Ragione, “il risultato di un’addizione, una sovrapposizione, un assemblaggio di masse di fogliami a cui si aggiungono un tronco e alcuni rami” (p. 130).

I muscoli del paesaggio

Nel complesso, L’albero nella pittura offre uno spettro ampio di posizioni artistiche eterogenee: chi è attento alla veracità scientifica e chi allestisce scene di fantasia; chi stabilisce una tassonomia vegetale, come William Gilpin nel 1791, e chi rimodella i paesaggi per esigenze divine e umane (Beato Angelico); chi s’interessa all’albero in quanto allegoria dell’anima o espressione di uno stato d’animo come Caspar David Friedrich, chi al paesaggio arcadico e mitico, crocicchio di rimandi letterari, come nell’estetica neoclassica.

A seconda dei casi, gli artisti prediligono specie diverse, spesso per ragioni meramente grafiche od ornamentali, come la palma, il limone e il cipresso – “un albero che non offre né legna per riscaldare né frutto” (p. 26) – per la pittura del Quattrocento. Gli alberi sono “muscoli del paesaggio” (Joachim von Sandrart, 1675) o “macchine verdi” (Léon Lagrange, 1864), ovvero presenze spettacolari che orchestrano il paesaggio dipinto come se fosse un sipario teatrale (è il caso della scuola francese del XVIII secolo).

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Alexander Cozens, Study of Two Willows, 1760 c., Yale Center for British Art.

Appaiono gracili e massicci, slanciati e torti, selvatici o potati ma non troppo, perché “la natura non crea alberi a forma di palla; a crearli sono le cesoie del giardiniere che ubbidiscono al gusto gotico del suo padrone” (Diderot, p. 120). Sacri o gotici, meri sfondi boschivi o sculture vegetali, gli alberi crescono nella selva oscura o nell’hortus conclusus in quanto metafora del paradiso, in luoghi selvaggi lontani dal dominio umano o in luoghi di conforto e fonte di ispirazione poetica.

Appaiono fusi nel paesaggio, drammaticamente presenti in primo piano oppure inaccessibili dietro alti muri senza aperture, come nella pittura fiorentina del Quattrocento. Le lumeggiature ne restituiscono il volume e la plasticità, le ombreggiature fanno emergere tronchi ondulati e contorti (a partire da Pieter Brueghel il Vecchio o Jacob van Ruisdael). A tronchi lisci e solidi si contrappongono tronchi simili a colonne tortili, come nella Predica di san Giovanni Battista (1566) di Brueghel. Alla vibrazione delle fronde e al “brulicare del fogliame” (fratelli Goncourt) si contrappongono le nodosità della corteccia, che può essere scarna o piena di monconi di rami come in Friedrich.

Ora, cosa ne è degli ultimi cento anni?, mi chiedo a lettura ultimata. Difficile dirlo, perché Mezinski li dilegua in due paginette in cui appaiono, come comparse, Anselm Kiefer, David Hockney e Lucian Freud. Quest’ultimo, colpito dallo studio di un tronco d’olmo (1821 ca.) di Constable conservato al Victoria & Albert Museum, si mette in testa di “sentire la corteccia”. I risultati sono disastrosi: “Ho preso il mio cavalletto e l’ho piantato davanti a un albero: è stata una catastrofe, non sono riuscito a cavarne niente”. Che sia il sintomo di una rottura tra il moderno e il contemporaneo?

Al termine di questa informata e gradevole panoramica storica, resta al lettore tessere i legami tra lo sviluppo figurativo dell’albero in pittura e le sue ultime incarnazioni contemporanee, di cui la Biennale veneziana resta un ottimo esempio. Quando vedo i disegni di Van Dyck (1639 ca.) o Jan Siberechts (1642-1700), realizzo che Smithson non è stato il primo a insistere su alberi morti e stecchiti, presenze che sradicano le nostre certezze su cosa è e su cosa fa albero.

In copertina, Johannes Siberechts, Leafless tree on the bank of a lake in which stand two cows and a sheep, 1642-1700, British Museum, Londra.

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