Reportage di un flâneur / L'Arabia in taxi

20 Febbraio 2022

Il primo pezzo d’Arabia che mi accoglie è la voce registrata che annuncia quanto siamo vicini a sorvolare la Mecca. Possa Allah accettare tutte le vostre buone azioni, in italiano. Vorrei risentirlo in inglese: accept? Per quel che ho sempre percepito io, profano, ateo, Allah è il vuoto, il pieno, l’infinito e il completo. Non è il Dio cristiano, umanizzato e che sento troneggiante. Mi cullo con l’idea che sia, l’Islam, più vicino alle filosofie orientali che non alle altre religioni del Libro. Forse per questo facile a scivolare nell’assolutismo, ma a me più comprensibile di ogni cristianesimo, quello protestante dell’etica e quello cattolico della morale. Se spazzassimo via gli imam e l’oscenità della costrizione delle donne, le geometrie intelligenti, gentili ed esatte dei mosaici nelle moschee potrebbero facilmente essere una mia patria: e i silenzi, gli spazi, i tappeti, le persone sedute sole nella penombra.

 

Abbiamo iniziato la discesa su Gedda, davanti a me una donna estrae dalla borsa una lunga tunica nera leggera, la indossa. Si raccoglie i capelli, immagino voglia legarli e farli contenere da un cappuccio, un velo, si trasforma prima dell’arrivo, poi non la vedo più. Siamo sopra Miquat, lo ripete l’altoparlante, non faccio abluzioni e non ho preghiere, scrivo frasi sul telefono. Lo schermo con il logo della Saudi Air mostra una fotografia ritoccata, direi stilizzata, della Kaaba ricoperta di un telo nero con scritte in oro, un cubo, un monolite, un oggetto di altri mondi, un simbolo puro, significante senza necessità di significato. Siamo in Arabia, l’Arabia dei sauditi, dei wahabiti, del giovanile principe Mohamed Bin Salman detto Embiès che concede la patente alle donne e fa a pezzi gli oppositori con la motosega. L’aereo è semivuoto, la pandemia spazza anche questa Arabia come vento secco, il virus è invisibile, ma pervade pensiero e materia anche lui. Ho il diritto di scriverne solo perché mi faccio un viaggetto fin quaggiù? Festival del cinema nuovo di zecca, accompagno mia moglie, il Principe dispiega un suo marketing internazionale, ci sono soldi, presidente di giuria è Tornatore. L’Arabia Saudita è quella di Lawrence d’Arabia, aura mitica adolescenziale, treni, beduini a cavallo, autoblindo, ma oggi è curiosità di guardare, in questo luogo dove metà della popolazione vive sepolta sotto una lunga cappa nera. Ma perché mai, santo dio. E: sarà vero che sta cambiando?

 

Il primo messaggino che scrivo a un amico da lì è: Gedda è un postaccio. Poi mi accorgo della modernità e del lindore di molti suoi quartieri, certo son così tutte le metropoli del mondo, e scopro una città vecchia deliziosa, case di tre quattro piani decorate dagli enormi bovindi in legno traforato che si innalzano a più piani, marroni o verde petrolio, veicolo di ricambio per l’aria rovente che arriverà con l’estate. Chi guarda dall’interno verso la strada è nascosto come da un burka, ci sarà una relazione? Viottoli e botteghe, simili tra loro nelle ante marroni aperte o chiuse, facciate ornate da file di vecchi lumi ad olio spenti, ora affiancati da gocce di vetro riempite di luce elettrica: le guardo meglio ed è plastica, e le scritte a frontone sempre su sfondo marrone si illuminano la sera di luci al neon: è marketing sapiente del principe, che vuole vendere l’antica storia della città e i suoi metri quadri al mondo, forse a chi fa il cinema. C’è davvero un souk come si deve, file di negozi, datteri di ogni forma e misura e grado di dolcezza, e qualche ristorante alla buona. In uno di questi, all’aperto, ci offrono fegatini di capra e uova strapazzate piccanti, le mie due accompagnatrici abbozzano, non si fidano, si accontentano di un tè alla menta, io so che domani ci tornerò da solo, e mangerò frattaglie e uova. Passerò del tempo, in città vecchia, a far niente, solo a starci bene come fosse casa mia. Il mondo arabo mi regala spesso posti così, lo scempio sulle donne me li sfregia.

 

Le ragazzine o donne non si sa di che età sotto ai catafalchi neri sembrano paradossalmente spigliate e brillanti, le mani hanno unghie smaltate e si muovono veloci perché è il solo linguaggio del corpo a disposizione. Dalla stretta fessura del niqab gli occhi guardano, e lo sguardo non si abbassa. Ne ho viste molte con gli occhi azzurri e una con occhi nocciola ma di fuoco, ho fin pensato avesse delle lenti. La città vecchia si riempie la sera del giovedì e del venerdì, questo è ceto medio che viene dai condomini e dai centri commerciali. Donne scoperte ce ne sarà una su trenta, ed è una novità, tre o quattro su trenta hanno solo un velo, l’hijab. Calcoli che mi tocca fare. Le altre sono sepolte sotto al catafalco nero, una fessura per gli occhi, e sotto il catafalco capisco che c’è una persona comune, una donna che si comporta come una sua omologa a Milano, sta per mano a un fidanzato in calzoni corti e t-shirt americana e gli fa mille moine, lo prende per la mano, lo trascina a vedere un negozio. Sottomissione niente ma so che l’apparenza inganna, gruppi di donne a ciacolare e gli uomini, a dirla tutta, un filino bolsi, più spenti. L’apparenza ai miei occhi profani è di un mondo nuovo pronto a esplodere fuori da quel catafalco, a lacerarlo e mandarlo a quel paese, ma nel centro di Gedda è ceto medio, chissà cosa succede nei centri più piccoli o nei quartieri poveri.

 

Davanti all’albergo avevo visto la ragazza dare ordini secchi agli autisti, ancora sottomissione niente, le avevo chiesto velocemente di sé. Mi ha detto, ho finito le superiori, ho trovato lavoro con il festival, sono così contenta, ma se lavoro in strada devo coprirmi. Parlare con una donna giovane, forse bella, e comunicare solo con i suoi occhi e le sue mani. Ho un problema, le trovo affascinanti, il loro sguardo mi cattura, ne sento il desiderio di esondare da quella condizione oscena, teatro dell’assurdo, e la sottomissione dentro le case e fuori è sicuramente la regola. Le percepisco come donne forti, mi cullo con la speranza che siano decise a vincere quella che sarà una battaglia epocale. Una vocina nella mia testa comincia a pontificare: che noi, da lontano, dovremmo subito schierarci con loro con forza, fare nostra la loro battaglia, non passi mai sotto silenzio. Certo, noi che eravamo le potenze coloniali ogni tanto va pur bene se ce ne stiamo zitti, lasciando a loro la scena: ma evitare, sempre e comunque, ogni complicità. Sono venuto in questo paese curioso di toccar con mano l’enormità dei catafalchi neri, e mi sorprende l’evidenza: che sotto quelli vivono donne non diverse da quelle del resto del mondo: devo ricordarmi che questa è una bolla, un festival del cinema, il centro di una metropoli. La realtà, banale, è che io ora me ne vado, vado al mare a cercare la barriera corallina: se la troverò, mi toccherà organizzare, per sabato, un piccolo gruppo di partecipanti al festival.

 

L’autista che mi porta al mare è afghano, di Mazar i Sharif, dove io sono arrivato che avevo diciassette anni: lui pare non credermi, gli dico che ricordo le foto del re, appese in tutte le case da tè. Non gli dico: le donne sotto il burka, ci pareva una stranezza esotica, non ne eravamo così scandalizzati, e i burka non li ricordo neri, ma colorati, meglio diffidare dei ricordi di gioventù. Ali dice una cosa che non sapevo: l’Arabia Saudita fa 34 milioni di abitanti, e di questi 11 sono immigrati. Gli afghani sono un milione, nella maggior parte, dice lui, del nord. Lui parla farsi, uzbeco e tagico. È scappato, dice, dai Pashtun cioè dai Talebani due decenni fa. Andiamo lungo la costa dove un’agenzia di divers mi promette un pezzetto di corallo da guardare con la maschera. Percorriamo un’autostrada tra quartieri satelliti. Case nuove con un grosso camino in mezzo: è l’impianto di raffreddamento più semplice del mondo, l’aria calda sale, come nelle trombe delle scale, e sotto resta il fresco. Chiedo ad Ali se ci sia trasporto pubblico a Gedda, mi dice che no, da quei quartieri in espansione permanente ci si muove solo in macchina. Ali è il padrone della piccola agenzia di taxi, ha quattro macchine, gli autisti sono tutti cugini. Butto lì una frase, che ora anche le donne della sua famiglia possono lavorare con lui: risponde con un cenno del capo, appena appena, dall’alto verso il basso, non dice una parola. Scoprirò che Embiès ha concesso alle donne anche la possibilità di aprire un’attività economica.

 

Mia moglie legge i miei appunti e domanda: perché lo chiami catafalco? In effetti il dizionario mi fa passar per matto: catafalco è la struttura che sostiene la bara a un funerale, o direttamente il palco sul quale si svolge una cerimonia funebre. Il mio amato dizionario etimologico D’Anna, gennaio 1988, suggerisce: “fig. Mobile ingombrante di cattivo gusto”. Mica male il lapsus: è per me un ingombro? Codesta questione sbarra una mia libera strada? Mi dà fastidio perché costringe a pensieri faticosi? Questo ingombro diventa, nell’Arabia dei sauditi, il centro delle mie attenzioni e va bene così.

 

 

Ho anche scritto cappa: il D’Anna ricorda che cappa è latino, e dice “forse di origine persiana”: bingo? Più avanti spiega che “Dall’accez. di mantello la voce è passata a quella più generica di ‘copertura’, e in partic. di Padiglione murato sopra il focolare”. Non ho bisogno del D’Anna per rimandarmi al concetto di vivere sotto una pesante cappa nera, in senso figurato per carità. Apro il sapientino sul telefono e un qualsiasi sito di notizie mi ricorda che Embiès quattro anni orsono dichiarò che la sharia impone alle donne solo di indossare abiti pudici, così come agli uomini, e quindi non necessariamente neri o con cappuccio: e dunque ha abolito l’obbligo di legge all’abaya. Il che poi, da quel che vedo, non cambia le cose dall’oggi al domani. Comunque: abaya.

 

Lascio Gedda. L’autostrada percorre la costa verso nord, ai miei lati il deserto è il terreno scuro movimentato per costruire l’autostrada stessa, monticelli di terra o ghiaia accatastata, fossi, grossi tubi vuoti. È una spiaggia sporca, in fondo ogni tanto un villaggio, forme incerte, edifici in muratura, sul lato verso mare il mare non si vede, sulla spianata di terra marrone comincia a baluginare il miraggio, come il riflesso di un’acqua che non c’è, e in certi tratti il miraggio mi circonda cancellando ogni possibile orizzonte, poi ricompare un manufatto, un gruppo di bulldozer, uno sterro come fosse una cava. Cercavo il deserto e trovo l’autostrada, a volte grossi insediamenti industriali, forse raffinerie. Vedremo quel che sarà, sono curioso di conoscere il mio stop per il pranzo.

 

Poi svoltiamo a destra e ci inoltriamo nell’enormità della penisola arabica, finalmente. Compaiono i primi rilievi, colline di basalto nero rotte in sfasciumi e ai loro piedi già un po’ di sabbia dorata. Carreggiata unica, quattro corsie. Le autostrade d’Arabia fanno pensare a quelle americane, nello Utah o nell’Idaho. Non è più una spiaggia sporca. Haroon è il mio driver, lui da Mazar i Sharif è venuto nel ‘90, c’erano ancora i russi, aveva sei anni e poco ne sa. È silenzioso e compiaciuto del paesaggio, lo commentiamo insieme, scopro che è la prima volta che fa questa strada, per andare a Al Ula si poteva passare per Medina, ma, dice lui, un non musulmano non può. La strada si stringe, due corsie in curve larghe tra le colline o le montagne. Ma vedo bene quando vedo un parchetto per bambini in mezzo al nulla? Più avanti un secondo, con delle paillotte in legno e tavoli, panche. Alle nostre spalle sul mare abbiamo lasciato una città popolosa, la domenica davvero vengono qui, a vedersi un po’ di deserto? Haroon è sorpreso quanto me nel suo inglese approssimativo.

 

A bordo strada, un triciclo giocattolo abbandonato: di plastica, rosso. Deserto d’Arabia. Passiamo una cittadina, Haroon cerca un posto per mangiare ma dice non qui, voglio per te un posto pulito, lo troviamo più avanti. Più avanti i villaggi sono file di saracinesche abbassate, non ce ne capacitiamo. È l’ora, o son giorni di festa? Penso, e non lo dico: magari è lockdown locale in un paese dove pure nove su dieci sono vaccinati, anche Haroon farà la terza dose a breve. Dico: forse questi villaggi hanno sperato nell’apertura al turismo del 2017, e poi è venuto il Covid. Fa cenno di sì con la testa. Poi vede un posto, fa inversione, parcheggia di muso davanti a quello che da noi sarebbe un kebabbaro, anche se il rullo non ha carne, entra a controllare. Mi ha portato, Haroon, in una chaikana afghana, gestita da uzbeki anche loro del nord. Ho mangiato seduto sui tappeti, con la mano destra, ottimo riso e mezzo pollo: gli dico, Haroon, questa è la mia prima chaikana afghana dopo cinquantun anni, allora ne avevo diciassette. Ne è colpito, ne parla con un commensale che ha portato il suo vassoio vicino a noi, per guardare questo straniero strano. Ne parlano tutti, anche i cuochi, sono contenti. Anche quei tre sauditi tronfi, scesi da una Mercedes e costretti a mangiare dagli immigrati afghani. Alla fine del pasto chiedo a Haroon, ma una donna potrebbe mangiare qui con noi? No, non potrebbe. Ripartiamo, ha pagato lui.

 

Il deserto ad Al Ula è bellezza grande, formazioni di roccia grigia lavorate dall’acqua e dal vento e la distesa di sabbia. Anche Haroon ne è affascinato. Troverò, dentro a un canyon, nel resort ecoamichevole con le casette di legno, Hajar, che ha una nonna napoletana ed è nata in Canada, poi il padre ha voluto tornare a Ryiadh, lei ha studiato storia, ha sempre pensato di voler lavorare ad Al Ula, tra le antichità lasciate da Nabatei e Liyahiti, ora pare entusiasta di trovare un italiano, e sono entusiasta anche io e curioso assai: Hajar ha la testa scoperta, i capelli tagliati da maschietto, la nuca e le tempie rasate e un ciuffo nero, un piercing al naso. Mi aiuta a prenotare i tour nei siti archeologici, è sera, mi offre un donut a un assurdo banchetto esterno al tourist office, io sono stanco morto, ci diamo appuntamento per domani: non la becco più, Hajar, non avrò una storia da raccontare.

 

Le guide dei tour sono tutte donne dentro allo scafandro nero – abaya, certo – energiche con gli autisti e con i turisti, la prima porta un cappello floscio verde da ranger, e mi fa fretta quando indugio davanti alle facciate scavate nella roccia della Petra del sud, lungo l’antica rotta commerciale che i Nabatei presidiarono nei due secoli attorno all’anno zero. La guida mi dà del lungo, e non mi azzardo a interloquire con le famiglie saudite in visita: tutte le donne con il – posso? – catafalco. Sul pullman c’è un ospite del mio resort, l’ho visto arrivare con una Mercedes, caffettano bianco e kefiah, un boss, la moglie in questo caso sottomessa assai, ma a viso scoperto, porta solo l’hijab, studio la sua espressione malconcia, infelice, mi domando che espressione abbiano le donne qui attorno sotto il catafalco mentre ciacolano a manetta tra di loro, vanno e vengono e urlano dietro ai bambini, una di loro chiama il marito che accorre, l’abito non fa il monaco, il catafalco non fa la sottomissione, si limita a metterla in scena e ribadirla. Attorno, il paesaggio è di una bellezza rara, le facciate dei palazzi funebri scavati nella roccia sono belle e decorate da scritte di un alfabeto che la guida, in modi spicci, mi dice non sapere da cosa derivi, io scoprirò che è sostanzialmente aramaico.

 

È naturale che il principe e la sua corte, decisi ad aprire il paese al mondo, abbiano spinto per favorire il turismo quaggiù, poi è arrivata la pandemia, ora si riaprono le danze, vedo i due turisti americani di origine cinese rivolgersi a una famiglia saudita, lei non si fa scrupolo di chiedere conto del catafalco, la signora in nero per tutta risposta esplode in una risata, chi lo sa come andrà nei prossimi anni, i bianchi ricchi a Dubai mi sa che del catafalco se ne sbattono, non ne sentono l’ingombro, ma il turismo qui potrebbe essere dirompente, ci sarà da divertirsi.

L’ultimo giorno a Al Ula vado a vedere gli scavi della capitale del regno di Dadan, i Lihyiaiti. Sul piazzale alla partenza del bus vedo andare e venire auto a guida femminile, donne che sotto lo scafandro compiono gesti naturali, o meglio che io definisco naturali perché quella gestualità, quel linguaggio del corpo, appartengono a chiunque guidi un’auto nei miei paesi e nei loro, ma loro sono chiuse nello scafandro. Il pullman che mi porta a Dadan è vuoto, sono l’unico turista oggi: la guida in nero è tutta per me. I gesti delle mani, le unghie con lo smalto azzurro, due occhi tra il verde e il nocciola, la voce che spiega sapiente, questa donna alle mie domande sa rispondere, e la domanda è: seicento anni prima di Cristo, mille e duecento prima del Profeta, come era la condizione delle donne? That’s a good question! Lo sguardo si accende, dice che le autorità volevano nasconderla, la questione.

 

Ci sono segnali evidenti che le donne sotto i Lihyaiti potevano avere la proprietà della terra, cosa che nell’Arabia Saudita di Embiès ancora non è ammessa, a suo dire. E quindi parliamo del fatto che loro il catafalco lo odiano, ma che se lei non lo portasse, all’aperto, la sua famiglia la odierebbe, perché a conseguenza del suo gesto tutto il paese odierebbe la sua famiglia – tre volte l’odio. Lei spera un giorno di poter andare a lavorare all’estero, non ha studiato storia ma ha studiato, e insomma. Ancora: mi ringrazia per averle posto quella domanda su Dadan, e lo fa con lo sguardo, socchiude gli occhi come se con le palpebre volesse accarezzarmi, e io ne rimango stregato, vorrei avvicinarmi, guardo le mani muoversi. Si irrigidisce perché questo nostro colloquio ha provocato le attenzioni di due donne che non avevo visto prima, e le si sono avvicinate, lei comincia a parlarmi di storia, di ritrovamenti, di scavi archeologici, e mi guida attraverso le rovine. Altro non c’è, da dire, fino a quando mi saluta, dice che devo risalire sul pullman, lo dice restandomi lontana a fianco delle altre due donne in nero, di nuovo lo sguardo mi accarezza più volte, io la saluto portando la mano destra sul cuore e con un leggero inchino, e poi scappo da questo innamoramento per una donna soggiogata e per i suoi occhi, scappo a gambe levate.

Mattino, l’aurora. Adil ha un filo di barba a contornare il viso, è calvo.

 

Parla senza ritegno in arabo, come se io dovessi capire. Mi fa segno di avere qualcosa sul braccio: sono i gradi, lo capisco perché la parola araba ascari, comunque essa sia scritta, è a me distinguibile. Quindi mi guida un soldato, fino a Riyadh, non solo un autista, e si riaccende quel filin di paranoia, o di orgoglio narcisello, che mi porta a pensare che qui un potere mi tenga d’occhio, questo strano italiano anziano che se ne va in giro da solo, in macchina allungando i percorsi: perché non prendo l’aereo? Penso: ho fatto domande che non dovevo fare. Già: e quel tale al festival che nessuno ha ben capito che ruolo avesse e io me lo trovavo davanti per caso ogni volta che partivo con un autista, o al check out dell’albergo. Ma basta lì, non frega niente a nessuno, di me qui. Questo driver Adil comincia facendomi incavolare, è arrivato in ritardo, ha un fare strafottente, il suo boss con un messaggino mi chiede di pagare in anticipo, Adil tira fuori un POS. Parte nella direzione sbagliata, scende in paese e si infila dentro a stradine laterali, davanti a un cancello si ferma, smanetta sul cellulare, scende, apre il cancello, prende il POS e lo nasconde dietro a un vaso nel cortile, finalmente sembra pronto a riprendere posto al volante. Poi ha un lampo, scende e corre verso il lato opposto del cortile. Scompare, Adil.

 

Per fortuna riappare subito e corricchia, per farmi vedere che non perde tempo: si è preso un tramezzino. Quando siamo ripartiti gli telefona il capo e lui reagisce con una inversione di marcia, vuol tornare indietro. Cosa c’è ancora? sbotto io in italiano. Allora accosta, mi mostra i messaggini in arabo del capo e le sue cifre: ne deduco che ho pagato sessanta rial in meno, ha sbagliato. Vuol tornare a prendere il POS. Eh?! Fermo lì, tiro fuori dalla tasca i sessanta rial in banconote, saranno dieci euro, lui sembra contento, mi guarda come a dire, però anche tu ci sai fare eh? Siamo amiconi ora, ridiamo, si riparte nella direzione sbagliata, cominciamo a negoziare un percorso con i rispettivi google maps, ho ragione io e per tutta risposta questo Adil schiaccia a tavoletta, facciamo i centocinquanta, centosessanta, la strada è vuota. Mi irrigidisco, capisco di dover ribadire uno status. Con pochi gesti raffreddo i suoi ardori, massimo centoventi come da cartelli a bordo strada, e non superare i camion dove c’è la doppia striscia bianca. Ridiventiamo amici dopo un centinaio di chilometri.

 

Sono dieci ore di viaggio, le prime nel bel deserto di Al Ula, le altre dentro a una terra piatta, con vaste macchie di verde rado e molte cittadine, due carreggiate a tre corsie ciascuna, questo percorso ha poco di interessante ma almeno l’Arabia, la fascinosa penisola arabica l’ho attraversata, io. Siamo ormai così amici che gli permetto di guardare il telefonino mentre guida regolare sull’autostrada diritta, e di usare google translator – altroché: tiene il volante con le ginocchia e gli occhi sulla tastiera, ma il discorso è troppo interessante, a trentasei anni Adil non ha moglie, non ha fidanzate o girlfriends, non so come chiedergli: beh, quindi nisba? Gesticolo all’italiana, ruoto pollice e indice: niente niente? 

È successo che, come tutti i turisti, incontravo autisti, guide, camerieri e manager d’albergo. Ma è successo che mi son rimasti dentro tutti, anche separarmi da Adil in aeroporto è un dispiacere, ripetiamo ambedue quel gesto, la mano destra sul cuore. Torno in Italia perché ho prenotato la mia terza dose, qui son tutti vaccinati ma è meglio non sfidare la sorte, però che peccato, che assuefazione agli incontri, che bellezza, come quella del deserto, anzi di più. Fine. 

 

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