Terre mobili / L’estate è finita, racconto corale di un territorio che muore

19 Febbraio 2022

L’estate è finita è un titolo che si associa alla tristezza infantile della fine delle vacanze, della libertà, del sogno e al brusco ritorno alla realtà. Ma quale estate è finita sul litorale domizio cui l’architetto urbanista e analista sociale Salvatore Porcaro ha dedicato il suo libro recente (Monitor Edizioni, Napoli 2021), frutto di circa quindici anni di ricerca sul posto? E di chi è l’estate che l’autore/testimone attesta ‘finita’?

Per avere risposta a queste domande bisogna tuffarsi nelle duecentosettantotto pagine di questo ‘racconto corale’ e tenere ben salda la barra, perché le acque limpidamente limacciose in cui Porcaro ci invita a navigare ci rimandano come uno specchio l’immagine di ciò che il nostro paese e noi che lo abitiamo ci siamo abituati a essere.

 

Si tratta di un testo paziente, accurato, appassionato, dolente, erede della grande inchiesta sociale dei tardi anni ’50 e dei primi anni ’60 del secolo scorso. Penso in particolare a Milano Corea, di Danilo Montaldi e Franco Alasia, pubblicato da Feltrinelli nel 1960, ma anche al lavoro successivo di sociologi come Raniero Panzieri e Romano Alquati, della rivista “Quaderni rossi” e della successiva “Classe operaia”. Ricerche che combinavano, esattamente come quest’opera, la passione d’analisi, lo studio, l’interpretazione dei fenomeni sociali e della loro evoluzione e una visione politica attiva e generativa. A differenza delle inchieste sociali fiorite nel secondo dopoguerra e intorno alla grande speranza/illusione del ’68, L’estate è finita si situa però nei decenni più bui dell’Italia contemporanea, il primo e il secondo di un terzo millennio cupo, minaccioso, devastato e devastante. La zona e le persone che l’autore ha messo al centro della sua osservazione non annunciano un futuro progressivo, ma la capacità d’invenzione e di resistenza necessarie a vivere come scorie in un sistema che non ti prevede e tuttavia estrae da te tutto ciò che puoi dare.  

 

Ma lasciate che vi introduca al territorio fisico e antropico di questa inchiesta, al metodo e agli obiettivi dichiarati dal suo autore e a molto altro, invitandovi a mettervi in ascolto e a consentire al vostro pensiero e ai vostri ricordi di assumere l’andamento analogico e associativo che questo libro induce e richiede.

 

 

L’oggetto, se così vogliamo chiamarlo, di questa ricerca è una minuscola area geografica del nostro paese: il litorale domizio, il tratto costiero della costa campana che, grossomodo, va da Capo Miseno alla foce del Garigliano, ricalcando in parte il percorso dell'antica via Domiziana, che da Cuma arriva a Mondragone. Ne abbiamo sentito parlare spesso per fatti legati alla cronaca nera e alla criminalità organizzata (Castel Volturno, Pescopagano), per l’attrito tra popolazione locale e immigrati, un tema caro ai nostri media, ma non ne sappiamo quasi nulla. In particolare non sappiamo nulla di chi in quell’area risiede, di come ci vive, con quali economie di sussistenza, quali forme aggregative, quale percezione del proprio e dell’altrui esistere.

L’autore, ed è importante ricordarlo, è nato e cresciuto da quelle parti, è casa sua. Ne conosce di prima mano la storia e le trasformazioni. Oltre che tecnico, antropologico e politico, il suo è anche uno sguardo affettivo ed emozionato, partecipe. 

 

Il suo metodo – anche se Porcaro, uomo schivo e modesto, esita a definirlo tale – consiste nell’andare nei luoghi e starci a lungo, condividendo almeno un po’ la vita di chi non solo transitoriamente li abita. Guarda, domanda, ascolta, guarda ancora, domanda di nuovo, mangia insieme alle persone che incontra, dorme lì, ha caldo, freddo, paura, rabbia con e come loro, non passa di corsa, sta, torna, si dà il tempo di capire e conoscere, ma anche di essere conosciuto, di sparire in mezzo agli altri.

Come non pensare all’opera del giornalista polacco Ryszard Kapuściński o a quella della scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, ai loro formidabili reportage dall’Africa o da Černobyl', al loro dichiarato intento di fare la storia dei sentimenti, non solo dei fatti? 

Porcaro, come Aleksievič, ha sempre con sé un registratore. Per usarlo, tuttavia, deve instaurare un patto di fiducia e di interesse reciproco con i suoi interlocutori/testimoni, che non ama definire ‘intervistati’, formula fredda, divisoria, gerarchica. 

 

I soggetti della sua indagine, ognun* dotat* di un nome e di una storia, del diritto al racconto della propria storia, sono uomini e donne accomunati dal fatto di trovarsi fisicamente nello stesso lembo di terra. Sono i ‘civili’ di vecchio e nuovo insediamento (i napoletani che, negli anni Sessanta, in pieno boom economico, si sono comprati un pezzo di terreno e costruiti la seconda casa al mare, ma anche gli sfollati del terremoto dell’85 in Irpinia), bianchi e non bianchi, cittadini, migranti, legali, illegali, in attesa di o in fuga da uno status. Accanto a loro: religiosi, militanti, attivisti, volontari, medici, guardiani, sfruttatori, piccoli criminali. 

Le istituzioni, statali o locali, sono assenti ed è proprio questa beanza, questo mutismo, a rappresentare una delle voci più forti del libro e a permettere all’autore di proporre, senza tuttavia formularla, un’ipotesi non più differibile. La fase attuale del capitalismo prevede, come afferma l’antropologa cinese americana Anna Tsing, una ‘polifonia temporale’. Dal momento che il futuro non è più concepibile come un unico percorso in avanti, insistere sul concetto di progresso acceca. Il litorale domizio narrato dai suoi abitanti parla di questo intreccio di tempi e delle modalità che i tanti e diversi soggetti sociali adottano per tentare di vivere: rinuncia all’ormai inesistente lavoro salariato e al posto fisso, assunzione della precarietà, dell’intermittenza, della transitorietà come nuove pratiche lavorative, arte dell’arrangiarsi, tecniche di fuga, sottrazione, passività, autoorganizzazione.  

 

 

Il narratore, all’apparenza semplice raccoglitore di storie, è di fatto un protagonista, uno che ascolta cercando anche di rendersi un po’ utile sul piano materiale. Sembrerebbe, questo atteggiamento, contrastare con la lucida consapevolezza che i suoi interlocutori non sono vittime da salvare, aiutare o riscattare, ma strumenti attivi di una conversione economico/sociale ormai avvenuta, gente che vive nelle pieghe di un sistema e ne sfrutta le contraddizioni, le smagliature, le crepe. Pur coltivando l’umanistica speranza che le cose possano cambiare e tornare ad andare nel verso giusto (ma quale? quello preliberista?), Porcaro non denuncia, non giudica, non classifica: si limita a dichiarare in corsivi asciutti e nitidi la propria posizione di testimone, il proprio rispetto per le persone che incontra e l’indisponibilità a produrre in chi legge un’indignazione frettolosa incrostata di voyeurismo. La sua è una vis analogica: capire il qui e ora per comprendere le mutazioni in corso, tanto nello spazio storico quanto in quello geografico.

 

L’obiettivo che l’autore si è dato – il racconto corale di un luogo entro una cornice temporale che va, a ritroso, dall’eccidio di giovani ghanesi avvenuto a Castel Volturno il 18 settembre 2008 alla strage di Pescopagano del 23/24 aprile del 1990 – è di “ricostruire la storia”. Ecco perché, “periodicamente tornavo a Castel Volturno e giravo. A lungo senza progetto, solo per consolidare amicizie”. 

A rafforzare il suo movente partecipa il progetto editoriale avviato nel frattempo dalla rivista “Napoli Monitor” ispirandosi al lavoro dello scrittore e conduttore radiofonico statunitense Studs Terkel: raccontare la metropoli attraverso le storie dei suoi abitanti. Prendendo “casa a Pescopagano e diventando un punto di riferimento per molti immigrati”, Porcaro mette a tema che il litorale domizio non è una propaggine, un margine, un terrain vague, bensì parte integrante della nuova economia metropolitana, area di “recupero” di ricchezza a costo zero. Qui la nuova e vecchia forza lavoro non ha né chiede tutela, servizi, infrastrutture, formazione professionale, un futuro: è una riserva di caccia che sa darsi proprie, provvisorie regole e forme di organizzazione che possono coincidere anche con un’idea di libertà.

 

La scrittura è ciò che fa di questa inchiesta una formidabile opera narrativa. Al corsivo della soggettività autoriale si intreccia la moltitudine di voci raccolte. Possono presentarsi in forma di intervista/dialogo con l’autore oppure in forma di racconto in prima persona. Porcaro le ha trascritte a una a una e, pur senza ossessività filologica, le restituisce nella loro unicità. Ognuna è distinta dalle altre perché racconta una storia diversa e dà conto di un’esperienza forse simile ma mai identica alle altre. L’accavallarsi, talora il semplice susseguirsi di queste storie, produce un effetto straniante: siamo in un microcosmo spaziale, in una piega di tempo, eppure davanti ai nostri occhi c’è l’intero mondo contemporaneo, un mondo in via di sparizione e che pure permane in forma di scoria, di rovina e di quegli assemblaggi inauditi che possono nascere là dove non sembra possibile la vita. 

Vigile, delicato, rispettoso Porcaro accoglie i lessici dei suoi testimoni, le strutture sintattiche da loro usate, la forma che nel dirsi assume il loro pensiero. Non riduce mai le loro parole a lamento di vittime, non commisera, non sente il bisogno di enfatizzare. Sa che la verità basta, che non c’è bisogno di esagerare. Il suo ‘riportare’ non è dare la parola a chi non ce l’ha, ma sottolineare con forza che a mancare è l’ascolto, l’attenzione di lungo periodo, la tenuta emotiva nel tempo di chi – e sono in molti – soffre di distrazione o di indifferenza.

 

Ed eccomi a chiudere il cerchio: l’opera di Salvatore Porcaro, a differenza delle inchieste sociali fiorite nel secondo dopoguerra e intorno alla grande speranza/illusione sessantottesca di un possibile cambiamento, si situa nei decenni più cupi dell’Italia contemporanea. L’estate è finita parla di un territorio che muore insieme ai suoi abitanti. È la mestissima epopea del declino di un luogo, ma anche della sua tenuta: la promessa/sogno si è trasformata in incubo e tuttavia in quella zona si vive. 

Tra le righe di quest’opera l’autore ci sta forse ricordando che le cose non avvengono mai per destino, che dietro ad esse c’è sempre una regia occulta, economica e politica, che i più riconoscono solo a posteriori. A pagarne il prezzo sono i territori e coloro che li abitano, bambini, donne, uomini, ma anche animali e alberi, e il mare e la terra. Ricostruire questa regia, svelarla, portarla alla luce, non è forse un atto supremo di speranza? 

 

Chi volesse ascoltare dalla voce dell’autore la genesi di L’estate è finita. Racconto corale del litorale domizio (Edizioni Monitor, Napoli 2021) può collegarsi al sito di booq - bibliofficina di quartiere, Palermo, dove il 23 gennaio scorso il libro è stato presentato e discusso.

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