Speciale

A Novara dal 20 al 23 settembre / Pensare il disegno

16 Agosto 2018

Il disegno lineare è il mezzo che permette allo sguardo di accedere al massimo della chiarezza e di portare alla massima precisione il pensiero, sostiene Matisse. 

Il pensare condivide con il disegnare molti aspetti. Tanto la prima attività quanto la seconda si svolgono secondo un andamento pressoché lineare nel tempo: il loro fine è quello di incanalare e delimitare il flusso incessante di idee che non ha ancora assunto una propria forma. Nelle mente i flussi di pensiero possono dare luogo a reti di inestricabili connessioni, legami e combinazioni tra svariati dati sensoriali, tracce mnestiche, pulsioni e impulsi inconsci. 

Tanto la chiarezza delle idee, e la connessa capacità di distillare in modo cristallino un pensiero, quanto la confusione mentale, determinata da una caotica combinazione e sovrapposizione di pensieri irrelati e privi di alcun senso, trovano un parallelo, rispettivamente, nel primo stato mentale, nella essenzialità e nella precisione dei tratti con cui si disegna una forma, e nel secondo nella sovrapposizione di segni indistinti per mezzo dei quali una mano incerta e confusa prova a delinearne i contorni. Non vi è pensiero che non si dispieghi come un disegno mentale: pensare è già disegnare mentalmente i contorni invisibili del senso di una frase, di un concetto o di una teoria. Il modo in cui si disegna può essere il riflesso del modo in cui si pensa la stessa cosa: ciò che è chiaro nella mente lo è anche nella mano e viceversa. Non si ha discrasia tra i due piani, anche quando si eseguono disegni istintivi, generati da automatismi inconsci. Molto spesso una delle due situazioni può essere letta come il sintomo dell’altra: così come un certo modo di disegnare può rivelare un particolare stato emotivo o perfino qualche turbamento psichico, allo stesso modo anche una condizione mentale di particolare serenità e lucidità porta a discernere e selezionare i segni più essenziali ed efficaci nella raffigurazione della forma che si ha in mente. Nondimeno, all’afasia talvolta fa anche da eco l’agrafia di segni stentati che indugiano, si nascondono gli uni negli altri producendo spesso una cancellazione reciproca.

 

La cosa che un pittore pensa ha sempre una relazione con il modo in cui lo stesso pittore la disegna, e questa continuità spesso è riscontrabile, a vari livelli, anche tra il modo di pensare la forma della cosa e il modo di vedere e disegnare la stessa forma: chi pensa lentamente altrettanto lentamente disegna. Così come i segni anche i pensieri possono essere precisi, vaghi, fuggitivi, ansiosi, frettolosi, insidiosi, taglienti, pedanti (…). Nello stesso modo in cui all’improvviso nella mente si può accendere un fulminante scintillio di pensieri, in modo analogo talvolta anche la mano del disegnatore, in un batter d’occhio, può far saettare sul foglio un balenio di segni che delineano istantaneamente la forma voluta. Sussistono, altresì, circostanze in cui i pensieri, come i segni, possono iterarsi in modo insistente, martellante e confluire ossessivamente gli uni sugli altri; oppure possono sorvolare, lambire e corteggiare la forma-idea che cercano di afferrare. Si confrontino, a titolo puramente esemplificativo, i disegni vorticosi del pittore-scultore Alberto Giacometti con quelli macilenti e sospesi di Henri Matisse.

La letteratura intorno al disegno e ai suoi molteplici aspetti tecnici, espressivi, comunicativi, estetici, scientifici (…) è sterminata: esiste un’infinità di testi a riguardo, molti dei quali sono stati scritti da pittori, architetti, critici e storici dell’arte, psicologi, antropologi e teorici di settori specifici. Se quanto fin qui detto ha un qualche fondamento, non può che suscitare un sicuro interesse conoscere come “pensano” il disegno autori che per vocazione lavorano con la scrittura, con la parola e con il linguaggio, ovvero uno scrittore, un poeta e un filosofo. 

 

Come ben presto vedremo, ciascun autore ha esplorato il disegno da angolazioni molto particolari e ha toccato aspetti solitamente poco frequentati o del tutto inusuali, e, come era facilmente prevedibile, ognuno ha utilizzato il linguaggio che gli è più affine. Leggere insieme questi tre autori costituisce pertanto un’esperienza che consigliamo, perché oltre ad essere proficua è anche particolarmente illuminante per le ragioni che descriveremo di seguito.

L’occasione ci viene offerta dalla pubblicazione in italiano di alcuni testi sul disegno dello scrittore saggista e disegnatore a un tempo John Berger, del poeta Yves Bonnefoy e del filosofo Jean-Luc Nancy.

 

Il disegno rende visibile il tormento delle linee tese tra l’estensivo e l’intensivo nella forma delle cose.

 

Il disegno è essenzialmente un intensivo esercizio dello sguardo: disegnare significa guardare, interrogare le apparenze delle cose e discernere la struttura di queste apparenze. Il disegno di un albero non mostra un albero, ma un albero come è stato visto da chi l’ha disegnato, mostra un albero osservato. Abitualmente in un batter d’occhio riconosciamo la pianta che abbiamo davanti; per disegnarla, però, occorrono innumerevoli e prolungate osservazioni, ciascuna delle quali raccoglie una piccola evidenza che non appariva immediatamente, perché ha preteso una certa densità dello sguardo. Le cose in natura non mostrano un’unica e immutabile veduta, come quella che restituisce il disegno sul foglio, eppure, dice John Berger, la veduta, che nel disegno appare immutabile, essendo composta da innumerevoli colpi d’occhio, rappresenta una totalità di visione e non una singola vista, possiede, cioè, una pienezza di realtà che soltanto di rado sperimentiamo nella vita. 

 

Contrariamente alla fissità dello scatto fotografico che ferma il tempo, la fissità di un disegno o di un dipinto lo racchiudono. Tutto ciò che, in una forma tridimensionale, sta al di là e al di qua del punto dove facciamo passare la linea del suo contorno cerca di spostare e spingere questo segno arbitrario più in qua e/o più in là, perché tra l’uno e l’altro versante v’è un’estensione continua che avvolge e contiene la densità dell’essere della cosa. La sfida che il disegno deve accettare è proprio quella di mostrare questo spazio che si estende verso l’interno e all’esterno della linea di contorno, in quanto parti di un’unica sostanza. Questa condizione, descrive Berger ne Il taccuino di Bento (Neri Pozza. Vicenza 2014), “tormenta l’atto di disegnare. Se le linee di un disegno non esprimono questo tormento, esso resta un puro segno. Le linee di un disegno sono tormentate e tese.”

 

Opera di Henri Matisse.


Per Berger “il disegno è la più profonda tra tutte le attività, e la più impegnativa.”

Le ragioni sono descritte con esemplare chiarezza e rigore a più riprese nei suoi testi, sottolineando, anche, che pensare al disegno comporta tematizzare intricate teorie filosofiche sulle impronte, i segni e le tracce. “È il punto in cui cecità, tatto e somiglianza diventano visibili, e il luogo della trattativa più delicata fra mano, occhio e mente.” (Sul disegnare; Il Saggiatore; Milano 2017).

I modi di disegnare, secondo Berger, si possono suddividere in tre differenti metodologie: disegni che interrogano e investigano il visibile; disegni che visualizzano le idee e disegni che si eseguono a memoria. In ciascuno di essi il disegnatore mette in campo diverse capacità percettive e immaginative: nel primo i segni sul foglio corrispondono ai movimenti che compie lo sguardo mentre osserva e analizza l’apparenza delle cose che ha davanti; nel secondo caso i disegni sono il prodotto di un percorso inverso, essi riportano sul foglio quel che si forma nell’occhio della mente. Questo genere varia molto più del primo nel tempo storico, perché riflette anche il modo in cui si pensa e quanto si conosce di ciò che il disegno raffigura. I disegni fatti a memoria riproducono spesso impressioni e informazioni sintetiche e veloci. 

La sensibilità e la pratica quotidiana del disegnare hanno portato lo scrittore ad appurare che la natura del disegno ha qualcosa di più profondo e antico, rispetto ai processi mentali e visivi che comunque chiama in causa.

 

Il disegno per Berger è qualcosa di prototipico che precede il ragionamento logico. Egli descrive l’attività del disegnare come qualcosa che assomiglia più a una funzione viscerale che visiva o mentale, più simile alla digestione e alla sudorazione. Lo scrittore-disegnatore attribuisce al disegno il carattere di una necessità biologica indipendente dalla volontà conscia: l’impulso o la spinta a disegnare sopraggiunge naturalmente così come si avverte il bisogno di mangiare e di bere. Il disegno, quindi, ha origine da una necessità biologica, per cui svolge una funzione vitale; soltanto in un momento molto avanzato dell’evoluzione ha risposto anche a determinate esigenze espressive di natura soggettiva e psicologica, e soltanto negli ultimi due millenni ha svolto anche una funzione comunicativa e simbolica, appagando così anche un bisogno culturale. Citando i recenti studi del neurologo portoghese Antonio Damasio, lo scrittore ricorda che i messaggi neuronali che mettono in comunicazione il cervello con il corpo, e viceversa, assumono la forma di un reticolo, di una mappa o di un grafico; configurano cioè delle composizioni spaziali, dotate di una loro geometria. Berger si serve di questa immagine per investigare se nell’atto del disegnare agisca una qualche reminiscenza di questi disegni interni

 

È possibile che, in una qualche misura, meccanismi psicosomatici e di percezione viscerale ancestrali siano all’origine delle simbiosi e delle risonanze interiori che hanno spinto il pittore di Chauvet ad accogliere l’invito di una fenditura che accenna, con inattesa precisione, l’arco del dorso di uno stambecco. Quella roccia gli suggeriva che quell’animale era dentro la parete e aspettava di essere tirato fuori, e “che lui con il suo pigmento rosso sulle dita, poteva persuaderlo a risalire alla superficie, alla membrana esterna, per sfregarsi contro di essa e impregnarla del loro odore.” La cognizione temporale del passato, del presente e del futuro dei nomadi è subordinata all’esperienza dell’altrove: ciò che scompare dall’immediato presente si nasconde in un altro luogo. Il nascondimento è una strategia di vitale importanza tanto per la preda quanto per il predatore: sopravvive chi sa trovare un nascondiglio. Anche l’assenza dei morti è vissuta come una momentanea scomparsa: i morti continuano a vivere altrove. La vita di questi cacciatori è scandita da una continua sequela di apparizioni e sparizioni, sia degli animali da cacciare sia degli stessi compagni di ventura. 

Tra le tante pagine che ha dedicato al disegno quelle che, a nostro giudizio, sono tra le più toccanti sono proprio quelle dedicate alla nascita del disegno.

 

Altrove (in Sacche di resistenza. Giano, Azzate 2003) Berger ritorna sull’argomento precisando che queste immagini non sono inseribili in alcuna inquadratura e gli animali sono raffigurati in corsa, o di profilo e si incrociano senza incontrarsi; essi riflettono la visione di un cacciatore. Se la prende giustamente con gli “esperti” che vedono in queste scene “le origini della prospettiva” cadendo in un’abissale trappola anacronistica. La prospettiva ha origine dalla cultura urbanizzata all’interno di uno spazio architettonico costruito dall’uomo e strutturato secondo il parallelismo e l’ortogonalità dei piani. Nasce, infatti, dalla intermediazione ottica della finestra e riguarda la distanza, mentre queste immagini alludono alla contiguità e alla coesistenza. 

Nelle profondità di quelle grotte, percepite come il cuore della terra, vi era già presente tutto ciò si poteva vedere all’aperto, il vento, l’acqua, il fuoco, i sentieri di caccia, gli animali e i non ancora nati. Erano tutti lì dentro la roccia, pronti a essere evocati. La forza, per molti versi misteriosa, che queste immagini suscitano deriva dal fatto che si presentano come delle apparizioni che emergono da dentro le rocce, trapassandole per manifestarsi sulla loro superficie.

La pietra calcarea si dispone al loro passaggio offrendo all’occorrenza ora un rigonfiamento panciuto, ora una scalfittura, ora un solco che corre lungo la schiena di un bisonte, ora un ciglio, ora uno sperone che sporge come una zampa, ora un fianco incavato. Queste incerte apparizioni, fluttuanti tra la persistente oscurità e la precaria illuminazione, offrono la possibilità di intravedere nell’invisibile la forma incompleta di un animale che una volta afferrata continuerà a riapparire anche in altri momenti ad altri pittori. “Queste pitture rupestri furono realizzate sul posto, perché potessero esistere nell’oscurità. Erano per l’oscurità. Furono nascoste nel buio perché ciò che esse incarnano sopravvivesse a tutto ciò che è visibile. E promettessero, forse, sopravvivenza.”

 

Disegnare significa far germogliare il bianco del foglio.

 

Gli scritti che Yves Bonnefoy ha dedicato all’arte sono numerosi e molteplici sono anche le pagine dedicate alla pratica del disegno disseminate al loro interno, tuttavia i due testi che hanno per titolo Osservazioni sul disegno e Il disegno e la voce (Pagine d’Arte, Lugano, Svizzera, 2010) condensano un distillato dei suoi pensieri sull’argomento. Diciamo subito che la lettura delle pagine di questo libro ci porta a pensare che il poeta immagini il disegno come un germoglio del bianco del foglio che la mano del disegnatore accoglie e cura con passione.

Allo sguardo di chi ama la grande pittura il disegno può sembrare qualcosa di “meno”, ma agli occhi di chi sa come vederlo esso ben presto si rivela essere non soltanto pari bensì perfino qualcosa di più. Quali vibrazioni si possono vedere in un tratto di matita, nel quasi niente di una linea che esita, o interrompe il suo andamento. È “come se l’ammissione di una insufficienza … fosse la verità davanti a cui ogni altra discolora, … qualcosa che assomiglia ad una sorgente” infinita. 

Al poeta risulta evidente che colui che disegna esercita una precisione dello sguardo equivalente a quella del pensiero. Disegnare, infatti, non consiste nel delineare i contorni di una forma circondata da grandi plaghe di vuoto, ma chiede al disegnatore di arrischiarsi nel biancore del foglio di carta affinché possa pervenire alla raffigurazione di quella realtà inaccessibile al linguaggio e che eleva il disegno alla stessa stregua della poesia. Per ogni disegnatore la luce che rischiara il bianco del foglio di carta spesso presenta perfino una luminosità superiore a quella irradiata dal sole fisico, in quanto essa, dice il poeta, affiora dal fondo di tutte le cose, irraggiando un’unità che le parole frammentano. Nel momento in cui la mano si appresta a eseguire un disegno il disegnatore si trova davanti alla scelta tra imitare un oggetto o produrre un segno, tra evocare un contorno, un ritmo o eseguire un tracciato a partire da un nulla della percezione, da una reminiscenza del tutto. Quando è il momento giusto e in quale punto del foglio la mano può posare la punta dello strumento e dare inizio al movimento che traccerà il segno? Non è una decisione facile da prendere, dal momento che il suo attacco determina un punto di discontinuità irreversibile che non ammette rimpianti né ripensamenti. Tutta la tensione emotiva e muscolare converge concentrandosi nella punta della matita, la cui esitazione ha origine dalla consapevolezza che in ogni tratto ricomincia il mondo. Perché, si chiede il poeta, ogni tratto che inizia lascia intravedere che, chiudendosi ad anello, circoscrive un’area nel bianco del foglio del tutto priva di contenuti ma in grado però di significare, al punto che, se vi prestiamo attenzione, ci appare evidente che quell’al-di là del visibile è l’esperienza fondamentale. “Questo biancore della carta, che era un che di neutro, di invisibile, diverrà biancore positivo, luce. Questo nulla ricentrato su se medesimo sostituirà la rappresentazione negata con un’attesa epifanica.”

 

Fin dall’ancestrale ripiegamento della linea che si chiude a giro in un contorno “arditamente ontofanico” – l’archetipo che verrà incaricato di figurare l’essere di ogni esistenza – al grado zero della rappresentazione, quindi, si impone la veggenza dell’invisibile. Parafrasando l’incipit del testo di Lao-tzù, Il libro del Tao, Bonnefoy declama che il tracciato che crede di essere la vera forma non è il vero tracciato. Il tracciato che sa di perdersi è, invece, l’inizio della via. È nella sospensione della matita, in quell’istante in cui essa non sa più dove procedere che si risvegliano le forze che animano la forma disegnata. In questa sospensione iniziale del tratto, in questo attimo di accecamento, trova spazio il respiro della forma. Di certo non fu e ancora non è grande pittore chi non sa lasciare questo istante di sospensione perdurare un po’ tra le sue linee. La pratica del disegno porta gli occhi del disegnatore al punto in cui non è più possibile vedere nel modo abituale, li spinge a vivere una diversa esperienza del mondo, quella della cecità fondatrice agente all’interno dello stesso sguardo quando incontra per la prima volta ciò che non aveva mai visto prima. L’istante di questa esperienza è il vero promotore di quel “trasalimento dello spirito che vede l’invisibile all’improvviso dilaniare, rivoltare, frantumare il visibile.” Gli occhi del disegnatore devono vedere come l’arciere zen che non ha più bisogno di guardare ciò a cui mira, deve cercare di vedere esattamente intravedendo. Di un albero non bisogna vedere solamente quegli aspetti che ce lo fanno riconoscere come una quercia, non solamente la forma della chioma e dei rami e nemmeno la loro lunghezza, bensì come essi si estendano fino a un dato punto, e non oltre, nello spazio. È un vedere senza sapere di vedere. 

 

“Avere dentro di sé solo il tratto, a volte gravido di inchiostro, a volte trafitto di luce, di quei pittori, orientali o occidentali, che hanno intinto il loro pennello, il loro pennino, nella pioggia che scorre sulla roccia, nel vento che sferza il cielo.” I pittori sanno che il disegno è il nocciolo invisibile della pittura. Tutte le volte che il disegnatore compie il gesto del tracciare e solcare il foglio compie l’estremo tentativo di spezzare il sigillo e aprire questo involucro che si ostina a rimanere chiuso. Per rendere ancora più pregnante il concetto il poeta chiama a soccorso l’aneddoto del pittore cinese Chuang-Tzu, che, alla richiesta dell’imperatore di eseguire il disegno di un granchio, rispose di avere bisogno di cinque anni di tempo e una villa con dodici servitori. Tuttavia occorsero altri cinque anni prima che l’imperatore potesse vedere il disegno che aveva commissionato. Infatti, dopo dieci anni Chuang-Tzu, alla presenza dell’imperatore, afferrò un pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio mai visto. Al pittore cinese occorsero tutti quegli anni prima di sentirsi così prossimo al granchio da non avere più bisogno di guardarlo per riuscire a disegnarlo con “un tocco di pennello che non esprime la sua forma, bensì solo il suo lieve respiro di granchio tra i granchi.”

Ciò che questo tratto di pennello porta alla luce è la pura presenza dell’animale, che trascende i segni e il loro impiego convenzionale e funzionale alla riproduzione di ciò che differenzia l’apparenza ottica di una mela da quella di una pera. Il biancore del foglio di carta, il vuoto da cui emergono i segni, ci ricordano che le parole non potendo fare altro che riferire aspetti su aspetti ci privano della presenza delle cose. Soltanto la poesia è in grado di farci sentire entro ogni parola un silenzio che è l’equivalente, nello spazio proprio del disegno, al non-colore del vuoto, perché, sostiene Bonnefoy, la poesia è disegno: ciò che de-signa. Il grande disegno, fin dai tempi più remoti del paleolitico inferiore, spinge oltre il tratto, non identifica le forme, le fa apparire. Prima del linguaggio lo sguardo dell’uomo osserva l’erba che ha preso la forma dell’animale che vi ha dormito sopra e l’ha conservata in tempo per il suo sguardo, prima che il vento la scompagini. “Si formò forse allora, all’alba dello spirito, nello sguardo rivolto all’erba ancora schiacciata – forma vaga, eppure rivelatrice, presenza nel cuore dell’assenza – la prima idea di quello che a poco a poco si sostituirà al mondo, il segno?”

 

Il piacere del disegno ha inscritto al suo interno Il disegno del piacere.

 

Il testo di Jean-Luc Nancy (Il disegno del piacere. Mimesis Edizioni, Milano 2017) sviluppa una profonda riflessione sul connubio ellittico che unisce “il piacere del disegno” a “il disegno del piacere” articolata in varie sezioni, ognuna delle quali convoca, nei rispettivi “quaderni di appunti”, citazioni di pittori e altri studiosi con i quali il testo dialoga. Nel movimento attraverso il quale la mano esegue una traccia con la penna, la matita o il carboncino, è drenata una pulsione, un’energia che ha origine nella cultura, nel pensiero e nell’esperienza del mondo, che vibra nel gesto del disegnatore. Questo improvviso gesto risponde a quel desiderio della linea che Matisse inseguiva e suggeriva di seguirne il getto e lo slancio con tutto il corpo, in quanto esso incarna un sé lineare nel quale riverbera la risonanza, la ripercussione di “un punto di verità.” Quando il disegno del desiderio si libera nella linea come una melodia, una danza, un racconto, questo “è sempre una linea che desidera e desiderio di godersi la sua verità… una perfezione che trattiene in sé la potenza (attiva e passiva) di una disponibilità all’infinito… e il suo piacere apre su questo infinito.” Il disegno, a cui si riferisce il filosofo, non è quello che contorna la forma delle cose, finalizzato alla riproduzione dell’apparenza visiva di una cosa (dessin), bensì, egli sottolinea più volte, è il disegno come dessein, ovvero ciò che si disegna, il disegno come intenzione, come progetto che non chiude ma apre la forma, annunciandone, con questa apertura, il processo di formazione e di trasformazione continua. Nancy inizia il suo saggio affermando che “il disegno è l’apertura della forma”, attribuendo un duplice significato al termine apertura: da un lato intende che il disegno è ciò che dà inizio, costituisce il gesto originario, lo slancio vitale e formativo della stessa forma e dall’altro esso evoca l’essenziale incompiutezza di ogni gesto disegnativo.  In tal senso il disegno è sia l’idea, la forma “verità” della cosa, sia l’intenzione che instilla nel gesto grafico una forza formatrice, ovvero la dynamis del suo divenire forma formans. Il disegno che attua questa sintesi non è altro che il dispiegamento di un processo di formazione la cui essenza consiste interamente nella modalità in cui si compie il gesto, nella sua andatura, nella forza del suo movimento, nella pressione o nella leggerezza con cui la mano traccia il segno. Questo ci porta a considerare che nell’atto del disegnare, fin dalla sua più remota comparsa, a spingere la mano del disegnatore sia stato l’impulso primordiale del piacere, del piacere di disegnare e del disegnare il piacere che l’uomo destina a sé stesso disegnando: che equivale a dire “si destina a disegnar(si), a rinnovare e moltiplicare senza fine la traccia (esquisse) che esso è.”

 

Il disegno è portatore di una pulsione intrinseca, rigenerata incessantemente dal desiderio al quale esso risponde. Il senso inedito, precisa il filosofo, dispiegato dal disegno e che si confonde con il movimento, con il gesto e con l’espansione del tratto, è il piacere del suo stesso dispiegamento per mezzo del quale nasce la forma, o piuttosto, lascia che la sua evidenza si offra e si dispieghi. È in virtù di questo dispiegamento che il disegno compie il gesto del suo desiderio, poiché è soltanto disegnandosi che questo desiderio si rivela come piacere, come il piacere di una tensione che non è finalizzata a un appagamento o ad uno scopo determinato, ma conduce alla ripetizione indefinitamente modulata del suo gesto. Il piacere del disegno, dunque, è incentrato tutto in questo tornare su se stesso del movimento generatore, sull’emozione che scaturisce dallo slancio del suo cominciamento e non sulla riproduzione di una forma data. La ragione del gesto che disegna per il piacere di disegnare è inscritta nel fatto che esso incorpora nel suo stesso dispiegarsi una dimensione che lo eccede, quella che porta la forma sul punto di formarsi, ovvero ad aprirsi alla sua stessa formazione. Non è quindi dalla forma che ha origine il piacere del disegno, ma dal movimento della sua formazione, della sua apparizione e sparizione: disegnare una linea non è tirare un tratto, bensì è seguire il suo desiderio di principiare la forma dell’apparire. “Il disegno vuole mostrare la verità non dell’apparso né dell’apparenza, ma dell’apparire che li sottende … si tratta dunque di mostrare ciò che non si mostra.”

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