Un'intervista / Romeo Castellucci: “Questo è il momento per tendere l’arco”

18 Dicembre 2020

Nell’immobilità provocata dalla sospensione degli spettacoli dal vivo, gli equilibri e le geometrie del sistema teatrale cambiano silenziosamente. In tutta Italia, si avvicendano chiamate e nuove nomine, e vengono occupate posizioni di rilievo simbolico e politico. C’è una notizia che non sarà sfuggita a chi ama il teatro contemporaneo (e ama un po’ meno i volti televisivi prestati al teatro): Romeo Castellucci è stato designato Grand Invité alla Triennale di Milano per il quadriennio 2021-2024. Dietro questo titolo, che potrà forse risultare un po’ altisonante, c’è la volontà di dare un tributo a uno dei nomi più applauditi del teatro europeo ma – triste conferma di un vecchio paradigma – per lo più ignorato dalle grandi istituzioni nostrane. Il pubblico italiano, per vedere Castellucci, ha dovuto per lo più affidarsi a poche rassegne e festival attenti al nuovo (negli ultimi anni, per esempio: Vie Festival, RomaEuropa) nell’assoluta indifferenza degli Stabili e dei Nazionali. A pochi passi dal confine, al Lac di Lugano, Castellucci ha invece costruito una dimensione di prossimità con il pubblico svizzero: oltre al debutto di spettacoli (tra gli ultimi, Democracy in America nel 2019 e la video installazione Terzo Reich che avrebbe dovuto essere presentata in queste settimane), sono stati proposti con costanza anche spazi di riflessione e approfondimento (retrospettive, dialoghi e lezioni magistrali).

 

Proprio mentre si annunciava la nomina alla Triennale, domenica 6 dicembre, Castellucci veniva ospitato per una diretta curata dal LAC e diramata sulle reti della radiotelevisione nazionale (Rsi). In occasione dell’incontro, ospitato all’interno della rassegna Arti Liberali, Castellucci ha dialogato con Nicholas Ridout, professore presso University of London, sul ruolo e la funzione del linguaggio. Di questo, ma anche di spettatori e di visione politica in questo difficile momento storico, abbiamo dialogato in una lunga intervista telefonica.  Per chi desideri approfondire, e prepararsi al meglio al quadriennio che finalmente ci attende, è tempo di recuperare Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci, a cura di Piersandra Di Matteo, Cronopio Edizioni 2015 (recensito per Doppiozero da Attilio Scarpellini).

 

Il linguaggio, come strumento del pensiero umano, è da sempre al centro della sua ricerca artistica. Qual è lo specifico del linguaggio teatrale?

Il linguaggio è il luogo dove gli esseri umani si incontrano, la nostra casa comune. Ma nel teatro, la parola non è solo uno strumento. È un luogo di confronto serrato, un vero e proprio campo di battaglia. Fin dalle grandi tragedie greche, parlare è una prova, un’esperienza esistenziale. Paradigmatico il caso di Edipo: l’eroe prova a prendere la parola davanti alla comunità, ma ottiene l’effetto opposto a quello desiderato. Più il re Edipo parla, più si isola e si affaccia all’abisso. La parola nell’eredità greca produce silenzio, è fatale. Su questo paradosso, sulla coscienza del fondo abissale della parola, si basa l’esperienza del linguaggio sulla scena.

 

E oggi? In quale linguaggio siamo immersi?

Ho l’impressione che oggi la questione della comunicazione sia, per metafora, un letto di malattia.

Siamo malati di comunicazione: siamo immersi in una parola circolare, autoefficace, in una sorta di rumore bianco. Ma alla fine della giornata, quali parole ti hanno toccato, quali sono riuscite a nominare il tuo nome? Poche, nessuna. Immagino spesso il linguaggio come un panorama che cambia, e oggi ho l’impressione che intorno ci sia un deserto, un deserto di quantità indistinta, senza differenza.

 

La politica quale ruolo ha in tutto questo?
La nozione stessa di potere va ripensata: oggi non contano soltanto Finanza, Stato, Chiesa, ma molto di più coloro che hanno potere sulle leve del linguaggio. La retorica politica, così come la pubblicità, ha sposato completamente la dimensione dello spettacolo. Andrebbe riletto un libro profetico, La società dello spettacolo di Guy Debord, che nel 1967 ha fatto un ritratto perfetto della nostra epoca. Naturalmente il potere utilizza il linguaggio per veicolare i suoi messaggi, anche quelli più atroci. Ma la forma può essere un inganno, un’illusione. Cosa accade se il Presidente degli Stati Uniti manda un messaggio social ogni mezz’ora? Accade che un contadino, mentre sta arando con il trattore il suo campo in Virginia, sente il Presidente parlare proprio a lui. C’è bisogno di molti strumenti per smascherare questo meccanismo lugubre ed efficace, che utilizza parole scabrosamente primitive. Nella video-installazione che doveva essere presentata al Lac proprio in questi giorni, Terzo Reich, rifletto se questo: sull’uso violento e totalitario del linguaggio, che viene adoperato come un maglio per confondere e dividere la coscienza delle persone.

 

Il teatro è un possibile antidoto? 

Assolutamente sì. Il teatro è un interruttore: stacca, interrompe il flusso. Lo è sempre stato, in tutti i tempi. Samuel Beckett, con le sue drammaturgie dell’assurdo, è riuscito a creare con il linguaggio incredibili corto-circuiti che ci smuovono ancora oggi. La scena resta uno dei pochi ambiti in cui riusciamo a risvegliare la nostra coscienza, parola cruciale per lo spettatore greco. Stare a teatro è come guardare ciò che ci sta intorno ogni giorno, ma dopo aver fatto un passo indietro. Nelle nostre vite siamo spettatori inconsapevoli in stato permanente, ventiquattr’ore al giorno. Nella sala teatrale, invece, questo ruolo risuona in modo completamente diverso: il teatro sa ferire come un pungiglione, penetrare nella pelle del pubblico e rilasciare un po’ di veleno. Poi quella goccia farà effetto nel tempo, anche dopo la fine dello spettacolo, anche in altre epoche. Il veleno di Beckett o di Shakespeare è ancora efficace!  Il teatro naturalmente è anche spettacolo, divertimento, non è un’esperienza mistica. Ma è una forma estetica capace di porre domande, problemi. Gli artisti sono problematizzatori, diceva Heidegger: se non viene posto un problema, non c’è arte. C’è decorazione, illustrazione, comunicazione, ma non un’esperienza che lascia il segno. 

 

Quale spazio resta dunque per il teatro durante la pandemia?

In questo momento non ci sono alternative per le arti dal vivo, purtroppo. Personalmente, non credo al teatro online. Nella dimensione virtuale si può forse fare documentazione, ma non teatro che è un’arte carnale e si alimenta alla fiamma della presenza reciproca. Certamente questo momento storico – che ricorderemo come una guerra mondiale – cambierà radicalmente i nostri paradigmi del guardare. Bisognerà riflettere sulla vera necessità di andare a teatro, non proporlo come una coercizione. Ma una cosa è certa: il teatro non scomparirà mai, è invincibile, gravido di futuro, non ha nulla a che fare con il passato. Questo è il momento di sospensione in cui si tende l’arco. Presto arriverà una nuova dimensione in cui l’urgenza degli artisti si manifesterà con forza e nitore.

 

La fotografia di Romeo Castellucci è di Yuriy Chichkov.

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