Meacci: Il cinghiale che uccise Liberty Valance / Si può dire amore in cinghialese?

28 Maggio 2016

Siamo nella primavera del 1917, e Igor Stravinskij, come leggiamo nelle sue memorie, dopo aver soggiornato a Napoli e a Roma sta viaggiando verso la Svizzera; presso la frontiera, a Chiasso, gli succede un’avventura che non dimenticherà mai più:

 

Portavo con me il ritratto che Picasso mi aveva disegnato a Roma. Quando le autorità militari ispezionarono il mio bagaglio i loro sguardi caddero su questo disegno, che per nessuna ragione al mondo vollero lasciar passare. Mi chiesero che cosa rappresentasse, e quando dissi loro che era il mio ritratto disegnato da un eminente artista, non vollero assolutamente crederci: «Non è un ritratto, ma un piano» mi si rispose. «Sì, il piano della mia faccia, non altro» replicai io. Ma non riuscii a convincere quei signori. Questa discussione mi fece perdere la coincidenza e mi costrinse a restare fino all’indomani a Chiasso. Quanto al mio ritratto, dovetti spedirlo all’Ambasciata britannica, a Roma, indirizzandolo a Lord Berners, il quale me lo rispedì più tardi a Parigi a mezzo della valigia diplomatica.

(Cronache della mia vita, SE, traduz. di Alberto Mantelli)

 

 

Vale la pena di ripartire da questa vicenda per cominciare a parlare del romanzo di Giordano Meacci Il cinghiale che uccise Liberty Valance, perché la resistenza delle guardie di frontiera a riconoscere come plausibile la fisiognomica del ritratto eseguito da Picasso in un certo senso può – potrebbe – assomigliare alla diffidenza con cui si comincia a leggere il libro di Meacci. Le linee narrative non tornano: si ripetono, accavallandosi nel tempo e nello spazio secondo principi che fanno saltare le coordinate del pensiero logico; la struttura del libro non è semplice, imbroglia e confonde le maniere classiche con cui percepiamo la rappresentazione nelle narrazioni realiste, per esempio; la mimesi si sforma verso l’entropia. Tocca adattarsi, allora, alla possibilità che il volto disegnato, come quello di Stravinskij, anche se somiglia di più a una mappa geografica, o a un piano militare, sia stato, malgrado tutto, realmente e intenzionalmente concepito come un volto, invece, e possa allora passare la frontiera dei narrabili.

 

Andando avanti e indietro, tra eventi risalenti al 16 luglio 1999 e il 27 novembre 2000, la trama del libro racconta, riprende di nuovo e svolge ancora le storie degli abitanti di un immaginario paese dell’Italia centrale – Corsignano. Accanto alle vicende popolane di questo Far West toscano (il titolo del libro recupera quello del famoso film diretto da Ford L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962), si insinua la vita parallela di un branco di cinghiali che vive nel bosco attorno, e che dà forma a una circostanza, per l’appunto, che è sia narrativa sia discorsiva, perché i cinghiali parlano, hanno un loro linguaggio; il loro capo Apperbohr (il nome pare risuonare con l’inglese “upper boar”: cinghiale superiore), oltre a parlare (facendo a tratti pensare al bufalo parlante del film Bella e perduta di Pietro Marcello), ha sviluppato una capacità dialettica di sguardo sulle cose:

 

«Chi?...» gli chiede Chraww-nisst [la resa dei nomi propri è abbastanza difficile e pressocché impressiva; ci limitiamo qui e di séguito a indicare una sola volta tra parentesi quadre le versioni plausibili dei nomi corsignanesi dei rvrrn; da qui Chraww-nisst, «Musolindo»], alzandogli il muso contro il grugno.

«Come chi?... Io. Ho capito le cose».

Chraww-nisst sniffa un punto preciso nell’erba. «Qualcuno mi sa che ha pisciato proprio qui… Mi sa ch’è stato Neekw-jjam [Neekw-jjam, «Setolìspido»]… È l’odore di Neekw-jjam…»

«Ma mi stai a sentire?»

Da una siepe cespugliosa di ginepro spunta la zazzera irsuta di Neekw-jjam.

«Che c’è?»

«E chi ti ha chiamato?» gli fa Apperbohr [com’è già noto, «Cinghiarossa»], sgrunfiando. (pp. 184-185)

 

Come un edificio a pianta rotonda, quasi una fortezza, il libro di Meacci è una costruzione corale, multifocale e a scorrimento elicoidale, vale a dire composta da cinquantadue capitoli organizzati, come delle stanze, in un corpo circolare di tre piani (tre parti), più una sezione finale (Cinghialerie) che, come una specie di doppio solaio, è formata sia da una parte che riprende il diciottesimo capitolo, sia da una parte ulteriore formata da un immaginario Prontuario della lingua cinghialese.

C’è qualcosa di Foster Wallace, è vero, nel progetto di una scrittura tesa a farci entrare, completamente, in un mondo narrativo costruito per essere percepito come un’ossessione mentale totalizzante (in questo caso, quella di una sorta di mondocinghiale); si pensa pure a García Márquez, all’attacco di Foglie morte o di Cento anni di solitudine, leggendo l’incipit:

 

Il respiro curvo del vento e l’asma ghiacciata degli ultimi dèi rimasti ci portano nel cuore pietroso di Corsignano. Pietra e vetro. I sassi che smussarono gli Etruschi fino a ricavarne a strato a strato l’anima nevosa del tufo; le falde spugnose che quasi respirano, sottosuolo, dello stesso sfiatare cespuglioso della Terra: da millenni, prima; da secoli, poi: quando quei luoghi e quelle idee continuate di strade sono diventati vicoli, e incroci, e archi accoglienti, e pareti di sassi: quando le cose hanno preso il battesimo finito dei loro stessi nomi per il persempre ingannevole delle vite di pietra della case (p. 15).

 

È un inizio che subito ci coinvolge, ci chiede di partecipare; entriamo in una sorta di racconto magico, dove gli elementi atmosferici si personificano, per avvolgere in un tutt’uno stretto dal pronome di prima persona plurale («ci portano») tanto chi narra quanto chi legge, allestendo una situazione di racconto leggendaria. Come il resto della narrazione, già le prime righe creano il senso di una durata epica delle cose, continuamente trascinata e rimessa in circolo a strato a strato dalla forza degli elementi, con un effetto di dissolvenza che crea l’eco e il miraggio di un’epoca immaginaria, racchiusa in una conca della memoria dove risuona all’infinito, come nel tempo dei miti, il respiro curvo del mondo: il respiro che precede e oltrepassa i limiti e le date delle singole biografie umane, e che fa continuare la vita, come la morte. Ecco che l’atmosfera immaginosa del film di Ford domina subito, insomma, come tonalità del discorso: siamo in un bosco narrativo dove, come nel mitico West, se la leggenda incontra la realtà vince la leggenda:

 

 

Ma l’attitudine a trasformare una digressione lessicale in una narrazione, più che a Sterne – già presente nei racconti di Meacci (Tutto quello che posso, minimum fax 2005) –, più che al tempo meraviglioso del sottobosco di storie di Macondo, in Cien años de soledad, fa tornare alla mente anche le pagine più gaddiane di Contini, e sono i casi, bisogna dirlo, in cui arrivano pure, talvolta, certi passaggi più faticosi: quelli in cui la voce narrante rischia di esagerare e sovrastare troppo i personaggi, come ad esempio qui: «[…] scintillato da quel doppio colpo degli occhi, uno azzurro, uno nero: il passo veloce in cerca del bagno di un Elia da Cortona adolescente, gli pare; o di un Pietro Cattani nelle notti d’inverno alla Porziuncola, la camminata frettolosa di chi, trovando quello che cercava, s’è reso conto di aver lasciato l’anima appesa in camera da letto» (pp. 74-75).

Eppure, anche a libro chiuso, il senso della storia composta da Meacci rimane: perché resta, come una figura totemica, la memoria narrativa di quel cinghiale che pare uscito da un Bestiario Medievale.

 

Ma, soprattutto, perché in Il cinghiale che uccise Liberty Valance resiste il progetto di una scrittura attenta a costruire una prospettiva per così dire spostata rispetto alla tradizione del romanzo come ricerca di una totalità affermata da una coscienza individuale messa al centro del mondo. Il libro è, piuttosto, un’opera tesa alla creazione di uno scenario narrativo che sia percepito come alterità: grazie al punto di vista animale e, soprattutto, grazie alla realizzazione stilistica di un’alterità intesa precipuamente come esperienza e pratica discorsiva. Non è solo il bosco abitato da Apperbohr, ma tutto il territorio allestito dalla scrittura che funzionano allora come luoghi di transizione linguistica, ambienti imprevedibili e disordinati che, un po’ come gli spazi delocalizzati di Ostia nel film di cui Meacci ha scritto la sceneggiatura, assieme a Caligari e Serafini (Non essere cattivo, 2015), ma anche come le zone di Ciampino in Improvviso il Novecento. Pasolini professore (minimum fax, 2015), offrono possibilità meno prevedibili di disegnare il ritratto del mondo.

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