Scuola / Un vecchio prof. disilluso

27 Novembre 2020

Ho letto il bell'articolo di Enrico Manera. Concordo pressoché su tutto. Potrei sottoscriverlo. Queste che aggiungo sono solo considerazioni personali che ne prendono in qualche modo spunto.

Vorrei partire in particolare da quel passo dove Manera dice di noi insegnanti che siamo una “classe amareggiata, macerata a lungo nella disillusione, in cui ci sono soluzioni biografiche, anche eccellenti, mentre dal punto di vista generale e politico il senso di sconfitta è schiacciante e pesante”.

Perfetto. È proprio così. 

E questi sono i pensieri attuali di un vecchio professore, amareggiato e disilluso (e anche un po' depresso).

 

Innanzitutto l'emergenza.

Ha cambiato qualcosa l'emergenza, nella scuola? No. Ha solo messo in evidenza ciò che già c'era, ed era anche ben percepito (da chi nella scuola lavora), ma platealmente ignorato da quelli che Manera chiama i “decisori” (non so se con ironia; forse sì, visto che i decisori decidono ben poco, mi pare).

Non serve citare gli immancabili Carl Schmitt o Walter Benjamin per capire il valore delle emergenze, dei casi estremi. Essi sono rivelatori. Ma ciò è chiaro anche al buon senso: quando si giudica della verità di un'amicizia? Nei casi estremi. Lì si può distinguere il vero amico dal falso.

Quando si giudica dell'efficienza di un'istituzione? Nei casi estremi.

 

Cosa rivela, della scuola, questo caso estremo?

Primo: che essa è essenzialmente percepita come “parcheggio” o “area di sosta”.

Intendiamoci, gli studenti fanno benissimo a protestare contro i limiti e le palesi insufficienze della DAD. Le sperimento tutti i giorni anch'io. Le sperimentiamo tutti.

Ma molti genitori, per fare un esempio a caso, hanno scoperto l'irrinunciabile valore della scuola, proprio nel momento in cui essa ha chiuso i battenti. Probabilmente erano gli stessi che si scagliavano contro gli insegnanti, che li aggredivano anche, fisicamente, perché rei di non valutare adeguatamente i loro figli. Ma quando i portoni sono rimasti serrati, ecco che il valore della scuola è apparso irrinunciabile.

Questo tipo di genitore (abbastanza diffuso) ama sicuramente i figli, ma di un amore, per così dire, provenzale.

Esattamente come Jaufré Rudel che amava la sua donna, ma “da lontano”. E' il celebre “amor de lohn”. Tali genitori amano i figli, ma soprattutto quando li hanno a debita distanza. (Certo: devono lavorare, non possono dedicarsi a loro, eccetera). Ed ecco che in questo momento la scuola, nella sua irrinunciabile attività di babysitting, ritrova la sua autentica giustificazione.

 

 

Possibile, poi, che si scoprano solo adesso tutti i problemi gestionali legati alla grandezza dei nostri istituti scolastici? Possibile. Possibile.

Strano allora che nessuno, mi pare, ricordi la legge sul dimensionamento scolastico del 2011.

È da allora che, per meri motivi economici, si sono accorpate due, tre, più scuole – per creare istituti “monstre”.

Faccio un esempio. Nella mia piccola cittadina, Merano, che allora aveva poco più di trentamila abitanti, quando ero studente, c'erano ben cinque istituti superiori. E ognuno con il suo bravo preside (o brava preside). Adesso (e nel frattempo gli abitanti sono saliti a più di quarantamila) c'è un unico dirigente per le cinque scuole accorpate. E' ovvio che affrontare un'emergenza con una scuola di modeste dimensioni è una cosa, tutt'altra affrontarla con una scuola gigantesca. Però c'è stato un bel risparmio: invece di pagare cinque presidi (dirigenti) se ne paga uno solo.

 

“Oh Marx – tutto è oro” scriveva Pasolini (Progetto di opere future in Poesia in forma di rosa). E così è. Sono decenni che l'Italia spende poco per la scuola. Non investe in istruzione.

La media OCSE è del cinque per cento del Pil. L'Italia investe il tre e mezzo per cento circa, del Pil.

Se invece si considerano i dati Eurostat che esaminano quanto della spesa pubblica complessiva venga destinato alla scuola, allora lì l'Italia è addirittura ultima.

 

Nel novembre del 2008 un ragazzo della provincia di Torino, che si chiamava Vito Scafidi, e aveva diciassette anni, morì perché gli crollò addosso il soffitto della sua classe, in un liceo scientifico.

L'allora capo della protezione civile, Bertolaso, dichiarò in quella triste occasione che almeno il cinquanta per cento delle scuole italiane non era a norma. Vuoi per quello che riguarda gli incendi, vuoi per quel che riguarda i terremoti. Alcune scuole, disse Bertolaso, non avrebbero avuto nemmeno l'agibilità. Solo che, grazie al cosiddetto “decreto mille-proroghe”, tutto veniva, di anno in anno, “sanato”.

L'attuale ministra è oggetto di critiche feroci. Ma quello che più conta è che essa è lì, perché il suo predecessore, quasi un anno fa, si è dimesso. E perché? Perché non gli venivano concessi, in manovra, i fondi richiesti.

Un vecchio “cumenda” amava dire, per concludere irreparabilmente certe lunghe discussioni in sede progettuale, “ma i danè chi li caccia?”. E questa è ormai anche la mia conclusione, di vecchio professore o, se si preferisce il politicamente corretto, di anziano didatta. I “danè”, chi li caccia?

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