Theoria degli affetti. Abitare le conseguenze / Uno strappo tra ospizio e mondo esterno

6 Giugno 2017

La “terza età” fa venire in mente il “mito d’oggi” (Barthes) dei giocattoli socializzati, che riproducono, in piccolo, il macrocosmo degli adulti – macchine, eserciti, fattorie, cucine. Il bambino è un homunculus a cui sono forniti gli stessi oggetti dell’adulto, aggiustati alla sua misura. Ma avanza verso quel modello. 

Negli ultimi cinquant’anni gruppi di potere, industrie farmaceutiche, mass media, enti pubblici e privati nei settori igienico-sanitario, alimentare, amministrativo, manutentivo, hanno costruito un’immagine della “terza età” che passa come “naturale”. Si vive sempre più a lungo e quindi si è “giovani” finché si può, finché si ha la fortuna di esserlo. Ci si comporta, si lavora, ci si risposa, si fanno figli imitando il trentenne, l’“adulto perfetto”, e ritardando il più possibile l’invecchiamento, con rimedi di vario tipo. Così anche l’anziano è diventato un homunculus: arretra verso l’adulto. 

 

La perdita della giovanilità marca la fine della “vita”. Segue poi una fase che intenzionalmente si rimuove, ma che, nel buio, è uno dei business più redditizi, articolati e complessi del XXI secolo. “Vecchio” è una parola tabù nella cultura occidentale, coincide con il concetto di “assistenzialismo”, al cui interno è compresa l’idea del suicidio “assistito”. Si sta con vecchi e malati per (il dovere di) assisterli, non per (il voler) incontrarli o per le capacità che hanno di donare e insegnare qualcosa, di “rimettere al mondo il mondo”, guardandolo con un giusto distacco. Vecchi e malati sentono la pressione, la forzatura dell’assistenza; nell’ideologia vincente della produzione, della prestanza a tutti i costi, sono etichettati come incapaci ed espropriati del sé. Ci rassegniamo a questo destino? Arroccandoci al mito che “l’importante è restar giovani dentro”, abbiamo dimenticato l’importanza del vivere da vecchi. 

Theoria degli affetti #2. Abitare le conseguenze è un osservatorio di Isabella Bordoni sulla “terza età”. Un progetto non sociologico né antropologico ma artistico, perché fondato sulle azioni, proprie dell’arte, dell’“inventare”: intuire la presenza di tesori da portare a galla, da rivedere nelle forme del contenuto e dell’espressione. La terza età è un tesoro nascosto. Solo una poiesis può farlo emergere e smascherare le connotazioni che ne hanno annullato il valore.

 

Ph Marco Caselli Nirmal.


Per due settimane, a primavera del 2016, Isabella Bordoni ha vissuto nella casa di riposo per anziani e malati terminali di Vignola. Ha esplorato i luoghi, i tempi e i modi di esperienza della vecchiaia oggi, abitando le conseguenze dell’istituzionalizzazione del vecchio: il trasferimento in uno spazio circondato di silenzio, che è estraneo alla città pur essendo al suo interno, la totale presa in carico da parte della casa e un protocollo di regole e ore di accudimento. Qui ogni cosa è rigidamente scandita e istruita.

Attraverso un’inattesa sollecitazione al racconto e al ricordo, con l’incrocio di storie, la leva della curiosità intergenerazionale o la ricerca di sguardi, Isabella Bordoni allarga le maglie della burocrazia che norma questa istituzionalizzazione: rende sapienti momenti anestetizzati e cuce lo strappo tra ospizio e mondo esterno. L’artista ha descritto la sua co-abitazione verbalmente, ha raccolto le testimonianze dei residenti, degli infermieri e degli operatori e ha restituito i suoni della casa sotto forma di un radiodramma prima radiofonico poi urbano. Dieci codici QR, abbinati a dieci pannelli, lo hanno diffuso a Vignola.

 

Le fotografie di Marco Caselli Nirmal - entrato brevemente nella casa sotto la guida di Isabella - catturano stanze tutte illuminate, letti occupati e vuoti, corridoi con finestre aperte, pasti imboccati e autonomi, stati di assenza e vigilanza, deambulatori, macchinari, abbracci, richiami, sorrisi. 

 

Se c’è un mezzo sovversivo di mistificazione della terza età, è l’affetto. Nutrirsi dell’altro e dall’altro è il fatto politico. Si resiste al baratro folle dell’individualismo, dove ciascuno fa per conto suo, tornando a pensare che l’uomo vive con gli altri e degli altri e che la vecchiaia è un gradino e un valore irrinunciabile della coesistenza. Perché stiamo rinunciando a una lunga lista di beni: il “noi” che non è mai un io allargato ma un io-tu, la disponibilità, l’ascolto, la gratuità, la lentezza, l’intelligenza pungente, la dignità, la tenuta del linguaggio, un’estetica quotidiana di cura delle piccole cose… L’io attuale è anche in ciò che sarà.

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